Negli ultimi mesi, il movimento-milizia Houthi è salito alla ribalta delle cronache europee, grazie ad un’attenzione mediatica che non c’era mai stata nel corso dei 9 anni di guerra civile nella regione dello Yemen. Ci sono voluti gli attacchi nel Mar Rosso in segno di solidarietà ai palestinesi perché la loro stessa esistenza diventasse una questione globale. È dal 2015 che il movimento, noto come Ansar Allah (“Partigiani di Dio” è il nome ufficiale del movimento politico), controlla la città di Sanaa e gran parte della costa del Mar Rosso, governando con pugno di ferro due terzi della popolazione. Gli Houthi, un gruppo sciita zaidita, appartengono ai sāda, che rivendicano una discendenza diretta dal profeta Maometto (i discendenti sono noti anche con il nome di Ashraf o hashemiti) e, sul fronte interno, mirano al controllo della regione di Saʻda, da sempre feudo degli Houthi; invece, in politica estera, si contraddistinguono per l’aperta ostilità verso gli Stati Uniti e Israele. La rinnovata popolarità nazionale e internazionale dei ribelli si deve, quindi, alla guerra in corso a Gaza, proprio in un momento in cui la maggioranza degli yemeniti aspira, invece, alla pace.
Come per altri milioni di persone, anche per gli yemeniti gli orribili massacri in corso a Gaza hanno suscitato forte indignazione. Gli appelli delle autorità Houthi a manifestare in segno di solidarietà alla Palestina hanno dato la rara opportunità di mobilitarsi in massa, e con grande fervore. Nonostante l’impopolarità del regime di Ansar Allah, la maggior parte degli abitanti approva verosimilmente le azioni del leader Abdul Malik al-Houthi contro Israele, oltre agli attacchi nel Mar Rosso. Anche il suo rivale e presidente del Consiglio direttivo presidenziale Rashad al-Alimi ha espresso sostegno ai palestinesi, sebbene il suo governo non sia andato al di là delle belle parole, dal momento che le proteste di massa nelle città e nei villaggi non hanno sortito alcun effetto. Nelle roccaforti del Consiglio di transizione del Sud (STC), affidato agli Emirati Arabi Uniti (Aden in particolare), il sostegno alla Palestina è stato, invece, molto ridotto. Sia il governo che le forze sudiste stanno agendo come loro sponsor regionali.
Una notevole capacità di compiere azioni di disturbo
La “comunità internazionale” non ha fatto appello per un cessate il fuoco a causa del veto americano, e i principali alleati di Israele sono stati molto attenti, in linea di massima, a impedire un allargamento del conflitto, esortando Hezbollah in Libano e l’Iran a moderare le loro reazioni, malgrado i crescenti massacri e l’assassinio di un importante leader di Hamas a Beirut il 2 gennaio 2024.
Inoltre, è interessante notare come gli attacchi contro le forze americane in Siria e Iraq abbiano subito innescato dei raid militari da parte degli Stati Uniti, mentre gli attacchi, sebbene più efficaci, degli Houthi nel Mar Rosso abbiano ricevuto, fino alla fine di dicembre, soltanto delle condanne verbali. Dalla metà di ottobre, i frequenti attacchi missilistici verso il sud di Israele sono stati per lo più intercettati dalle forze navali americane, francesi o altre ancora. Considerata la distanza tra i due territori e la portata del loro arsenale, i loro attacchi non rappresentavano una seria minaccia militare. Al contrario, la loro capacità di sferrare attacchi alle navi nel Mar Rosso ha rappresentato un sostegno internazionale più efficace e visibile ai palestinesi, oltre a dimostrare la loro notevole capacità di creare rappresaglie con azioni di disturbo.
Questo anche perché il 15% del commercio mondiale passa attraverso il Mar Rosso e gli attacchi Houthi hanno portato ad una sostanziale riduzione del flusso, con un forte impatto sull’economia mondiale. Tutto ciò danneggia la già catastrofica situazione finanziaria dell’Egitto, aumenta i costi di gestione e di assicurazione delle navi e allunga di 10 giorni il tempo di viaggio per le rotte dirette in Europa. La deviazione dei trasporti marittimi sulla rotta più lunga attorno all’Africa sta causando ritardi nella consegna di materie prime ed altre merci. Lo scorso 3 gennaio, oltre il 20% delle navi che abitualmente seguono questo percorso ha dovuto cambiare rotta, comprese le principali flotte mondiali.
Una lenta escalation
Gli Houthi dichiarano di puntare alle navi legate a Israele (proprietà, destinazione e anche transito), ma non è facile ottenere informazioni precise. Si stima che la crisi abbia già causato costi aggiuntivi per l’economia israeliana di circa 3 miliardi di dollari (2,74 miliardi di euro)1.
Il sequestro del cargo Galaxy Leader il 19 novembre 2023 rimane, fino all’inizio di gennaio, l’azione più eclatante. Il video girato dalla squadra d’assalto è stato trasmesso a ripetizione dai telegiornali occidentali, dando loro grande visibilità. Il sequestro e il dirottamento del cargo hanno anche permesso agli Houthi di farne un’attrazione turistica, organizzando eventi culturali a bordo, ampiamente trasmessi dagli influencer yemeniti su YouTube. Gli attacchi dei ribelli sono aumentati, prendendo di mira 25 navi in due mesi, in particolare la nave cargo norvegese Strinda l’11 dicembre, la Maersk Gibraltar il 14 dicembre e il tentato abbordaggio della Maersk Hangzhou, il 31 dicembre.
Dopo settimane di tentennamenti, il 19 dicembre gli Stati Uniti hanno finalmente annunciato il varo di una task force internazionale anti-Houthi col nome di “Guardiano della prosperità” composta da 20 Stati, con una partecipazione simbolica per la maggior parte di loro, per salvaguardare la libera navigazione nel Mar Rosso. Nelle sue prime settimane di esistenza, la forza navale non ha apportato alcun valore aggiunto alle numerose navi da guerra che già intasano il Mar Rosso: non ha fatto da scorta ai convogli di navi, né ha convinto gli Stati costieri direttamente interessati a prendere parte alla missione. Invece, il ruolo predominante degli Stati Uniti ha portato i principali Stati europei (Francia, Italia, Spagna) ad agire in maniera indipendente, reclamando una leadership internazionale. Inoltre, la suddivisione dei ruoli tra la nuova coalizione e la Combined Task Force 153, già istituita dagli Stati Uniti nell’aprile 2022, rimane poco chiara.
Tuttavia, il 31 dicembre, gli americani hanno distrutto 3 navi d’assalto Houthi, provocando la morte di 10 membri dell’equipaggio. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, riunitosi il 3 gennaio, non ha prodotto alcuna decisione o dichiarazione congiunta; limitandosi semplicemente a condannare i leader di Ansar Allah per aver ostacolato la libertà di navigazione, senza spiegare quali siano le cause delle loro azioni. Di conseguenza, gli Stati Uniti e 12 dei suoi più stretti alleati2 hanno rilasciato una dichiarazione che minaccia una risposta militare in caso di ulteriori attacchi3.
Paralisi americana e saudita
Se finora la reazione di Washington è stata lenta e limitata si deve anche al fatto che gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita sono decisi da più di un anno a porre fine alla guerra in Yemen. L’amministrazione Biden ha la necessità di riportare un successo diplomatico per la prossima campagna elettorale americana: una delle sue prime dichiarate ambizioni è stata quella di porre fine al conflitto yemenita. Tuttavia, prima del 7 ottobre, sembrava un obiettivo a portata di mano, molto più, ad esempio, che per la guerra in Ucraina o in Palestina, dove il sostegno a Israele risulta sempre più impopolare nell’elettorato americano.
Da parte loro, le autorità saudite cercano da anni di tirarsi fuori dal pantano del loro impegno militare nello Yemen. Dalla fine del 2022, l’Arabia Saudita porta avanti delle trattative direttamente con Ansar Allah, con l’aiuto del governo dell’Oman. Nell’aprile 2023, una altra delegazione saudita si è recata in visita ufficiale a Sanaa. L’accordo sembrava vicino, ma da allora non c’è stato nulla di concreto. Nel settembre 2023, una alta delegazione di Ansar Allah si è recata a Riyadh, ricevuta ufficialmente dal principe Khalid bin Salman, ministro della Difesa; ma, ancora una volta, contrariamente alle aspettative, non c’è stato alcun annuncio ufficiale.
L’intenzione del regno saudita era di sottoscrivere l’accordo con gli Houthi, ma l’escalation della guerra in corso a Gaza ha reso politicamente impossibile portare avanti l’accordo. Si è così arrivati alla paralisi, nell’impossibilità di opporsi apertamente agli attacchi contro Israele, cosa che attirerebbe l’attenzione sulla loro passività mentre i palestinesi vengono uccisi a migliaia o fatti morire di fame in un embargo di natura genocida. È per questo che i sauditi hanno preso le distanze dai raid americani, chiedendo agli Stati Uniti di dar prova di moderazione in risposta agli attacchi dei ribelli Houthi4.
Una pace sempre illusoria
Di certo, il 23 dicembre 2023, l’inviato speciale del segretario generale dell’ONU, Hans Grundberg, ha annunciato un accordo che, secondo indiscrezioni, sarebbe stato firmato all’inizio di gennaio. Le evidenti ambizioni saudite e americane hanno chiaramente incoraggiato gli Houthi, ben consapevoli che un attacco contro di loro portebbe a compromettere seriamente ogni possibilità di accordo. I negoziati per ulteriori scambi di prigionieri tra le parti yemenite, previsti per l’inizio del mese, sono stati rinviati sine die. Il 1° gennaio, c’è stata in Iran la visita del capo negoziatore Houthi Mohamed Abdul Salam, ma non ha interrotto gli attacchi nel Mar Rosso, che, d’ora in avanti, potrebbe avvalersi del sostegno di un cacciatorpediniere appena inviato dalla marina iraniana, ma non è certo.
L’accordo, così come è stato reso pubblico, prevede la firma dell’Arabia Saudita come “mediatore” e non come “partecipante” alla guerra – un’importante concessione che elimina ogni possibilità di ritenere il regno saudita legalmente responsabile di eventuali crimini di guerra. L’accordo sarebbe concluso ufficialmente tra gli Houthi e il governo, anche se quest’ultimo non ha quasi mai preso parte ai negoziati. Oltre al cessate il fuoco e alla fine degli attacchi transfrontalieri da ambo le parti, l’accordo prevederebbe anche il pagamento da parte dei sauditi degli stipendi per un anno di tutto il personale governativo yemenita, compresi i militari e le forze di sicurezza Houthi, l’apertura completa del porto di Hodeidah e slot aggiuntivi per i voli dall’aeroporto di Sanaa.
Sempre secondo l’accordo previsto, gli Houthi “consentirebbero” al governo di esportare petrolio, attività interrotta dal novembre 2022 in seguito agli attacchi alle navi nei porti di esportazione nel Mar Arabico. Infine, spetterà allo staff dell’Inviato speciale dell’ONU il compito di intavolare i negoziati di “pace” tra le fazioni yemenite, in particolare per quanto riguarda la divisione dei poteri. La decisione del ritiro saudita sarebbe quindi definitivamente confermata.
Il previsto accordo indebolirebbe ulteriormente il fronte anti-Houthi che già risente delle lotte e rivalità all’interno del Consiglio presidenziale, composto da 8 membri. Lo scorso anno, alcune fazioni hanno rafforzato le loro posizioni, in particolare Tareq Saleh (nipote del defunto presidente yemenita Ali Abdallah Saleh) favorevole all’unità, e il Consiglio di Transizione del Sud (CTS) che si dichiara separatista. Il governatorato di Hadhramaut è diventato una questione cruciale, che riflette in parte la rivalità tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Gli Stati Uniti hanno condotto anche un’offensiva diplomatica nei confronti di Tareq Saleh, già capo della Guardia presidenziale yemenita, che oggi controlla lo stretto di Bab el-Mandeb5.
Per tutto il 2023, i conflitti in Yemen sono stati a bassa intensità, malgrado una certa escalation nell’ultimo trimestre. Dopo l’incontro di settembre a Riyadh, c’è stata la pressione degli Houthi con un attacco di droni transfrontalieri, che ha portato all’uccisione di quattro soldati del Bahrein in Arabia Saudita. Un avvertimento ai leader sauditi, frutto anche delle divisioni interne alla leadership Houthi, dove è ancora forte il fronte di chi sostiene il mantenimento di un rapporto di forze nella regione. Il 21 settembre, nono anniversario della presa di Sanaa, i ribelli hanno allestito un’impressionante parata militare di tre ore durante la quale hanno fatto sfoggio di armi all’avanguardia, inclusi droni e missili che molti hanno riconosciuto simili a quelli dell’arsenale iraniano.
Per il momento nulla lascia presagire che ci sarà una cerimonia ufficiale per la firma dell’accordo tra le fazioni. Eppure, anche se non ha risolto il conflitto, molti yemeniti speravano che questo fosse un primo passo verso una pace di cui hanno disperatamente bisogno. Le loro condizioni di vita continuano a peggiorare. Nel 2022 il piano di intervento umanitario delle Nazioni Unite era finanziato al 55%, mentre nel 2023 lo sarà solo al 38%, cosa che ha portato ad una riduzione degli aiuti forniti a milioni di abitanti.
Nella nebbia delle guerre di questo inizio anno, la situazione in Yemen resta esplosiva. Le azioni degli Houthi a favore della Palestina dimostrano una effettiva capacità di compiere azioni di disturbo che potrebbe sfociare in nuovi attacchi militari, contribuendo ad allargare l’attuale conflitto in corso.
1“Yemeni threats disrupt about 85% of port’s profit: “Eilat” Port Dir.”, Al Mayadeen, 11 dicembre 2023.
2I firmatari della dichiarazione: Australia, Bahrain, Belgio, Canada, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Regno Unito, Stati Uniti.
3“US warns Houthis to cease attacks on Red Sea vessels or face potential military action”, Associated Press, 4 gennaio 2024.
4“Saudi Arabia urges US restraint as Houthis attack ships in Red Sea”, Reuters, 7 dicembre 2023.
5Bāb el-Mandeb, letteralmente Porta del lamento funebre, è lo stretto che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden. [NdT].