Focus Oslo

13 settembre 1993. L’imbroglio di Oslo

Il “processo di Oslo” era stato presentato come il primo passo verso una soluzione politica del conflitto israelo-palestinese. In realtà, l’unico “interlocutore” a beneficiarne è stato Israele, abile a destreggiarsi nell’imbroglio di Oslo e dei vari accordi successivi alla Dichiarazione dei principi firmata da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin il 13 settembre 1993.

L'immagine mostra un cantiere edile situato in una zona collinare. Sono visibili diverse gru da costruzione, che si ergono sopra gli edifici in fase di completamento. Le strutture in costruzione hanno una forma moderna e presentano superfici di cemento. Sullo sfondo si intravedono altre costruzioni e il panorama collinare circostante, con vegetazione sparsa. L'atmosfera sembra essere quella di un'area in sviluppo e crescita urbana.
14 agosto 2023. Ramat Shlomo, nuovo insediamento in costruzione a Gerusalemme Est
Ahmad Gharabli/AFP

Sono tre i momenti salienti del cosiddetto “processo di Oslo” prima un annuncio in pompa magna, poi una lunga agonia pluridecennale e infine la prospettiva di una soluzione politica che tramonta senza troppo clamore. Visto l’entusiasmo iniziale sembrava che ci fosse un campo di possibilità infinito a dispetto delle premesse molto restrittive dell’accordo per le limitazioni imposte dalle modalità previste dai “negoziati”. La lunga transizione pluridecennale, invece, ha dato tempo a Israele di consolidare il suo controllo amministrativo e securitario sui territori e sulla popolazione palestinese fino a estenderlo su Cisgiordania e Gerusalemme Est. Inoltre, i vertici di Israele hanno approfittato del processo di Oslo per cambiare il regime di occupazione dei territori palestinesi senza modificare la realtà profonda della politica coloniale in Palestina.

Uno squilibrio iniziale

L’aspetto più sottile della Dichiarazione dei principi di Oslo, firmata il 13 settembre 1993 a Washington da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin alla presenza del presidente Clinton, è stato quello di limitare il campo delle possibili soluzioni, imponendo condizioni ai palestinesi con una lunga serie di vincoli. Il prospettato autogoverno palestinese si è progressivamente ridotto in virtù di clausole che il più delle volte venivano sconfessate o non riconosciute da Israele in caso di futuro accordo. Lo status permanente dei territori palestinesi doveva essere definito in un secondo tempo, ma, visto lo stallo del dialogo sulla piena autonomia, la prospettiva di una soluzione politica si è allontanata sempre di più.

Già nel 1993 si erano levate molte voci che sottolineavano uno squilibrio iniziale negli impegni assunti dalle due parti: da un lato, c’era l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che ribadiva il suo impegno a “riconoscere il diritto dello Stato di Israele a vivere in pace e in sicurezza”, considerando “gli articoli della Carta palestinese che negavano il diritto di Israele ad esistere [...] ormai inefficaci e non più validi”; dall’altro, il premier israeliano Rabin che si limitava ad annunciare che, “alla luce degli impegni dell’OLP [...] il governo di Israele aveva deciso di riconoscere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come rappresentante del popolo palestinese e di aprire negoziati con l’OLP nell’ambito del processo di pace in Medio Oriente”. Erano i segnali di una palese disparità, inascoltati nell’unanime coro di elogi, infatti si è continuato a parlare ancora a lungo e impropriamente di “reciproco riconoscimento”.

La “dichiarazione” ideata in Norvegia nel 1993 era la logica conseguenza del documento prodotto perché garantiva in sostanza gli interessi di Israele e Washington che avevano ispirato l’accordo. Si potrebbe obiettare che gli americani non erano presenti a Oslo e che i palestinesi hanno avuto la possibilità di avere voce in capitolo. Forse un giorno sarà la Storia a fare chiarezza, ma non esiste alcun accordo in Medio Oriente che non sia stato preceduto da consultazioni, colloqui o scambi di informazioni tra negoziatori e consiglieri arabi, israeliani, americani (a volte con doppia nazionalità), avvocati, specialisti, esperti militari o in materia di sicurezza. Com’è facile immaginare, dopo l’annuncio dell’accordo, i documenti, l’equipe negoziatrice e i progetti sono immediatamente rientrati negli Stati Uniti ed è proprio a Washington, nel cortile della Casa Bianca e sotto la supervisione americana, che è stata firmata urbi et orbi la Dichiarazione di Principi il 13 settembre 1993.

Il momento giusto

Da quanto mi ha riferito in forma anonima un ex ministro laburista (considerato una “colomba”) all’inizio degli anni 2000, “Arafat ha accettato Oslo perché sapeva di essere in una posizione di debolezza. Forse, in quel momento, avrebbe dovuto rifiutare l’accordo”. L’ex ministro si riferiva alle difficoltà interne affrontate all’epoca dall’OLP e dal suo leader costantemente accusati di corruzione, incompetenza o autoritarismo dalla popolazione palestinese che pretendeva maggiori libertà, e a volte persino le dimissioni di Arafat. Sbarazzarsi di Arafat? A quell’epoca sarebbe stato un rischio per Israele. Oslo era l’occasione ideale per fronteggiare un leader palestinese in posizione di fragilità interna, e che non aveva alcun margine di manovra se non “capitolare”. Da qui è facile immaginare che Israele avesse tutto l’interesse a tenere in piedi il governo di Arafat sia alla conferenza di pace di Madrid del 1991 che durante il processo di Oslo del 1993.

Israele sapeva anche di poter contare sul sostegno incrollabile del governo americano, a prescindere dal presidente in carica o dalla maggioranza del Congresso. Washington non era certo l’honest broker (il “mediatore onesto”) che dichiarava di essere. Per trovare una soluzione in linea con i propri interessi e quelli di Israele, gli Stati Uniti non sono mai stati imparziali. La diplomazia americana ha sempre fatto leva su due pilastri la cui solidità non è mai venuta meno: il rifiuto di qualsiasi conferenza internazionale e di ogni forma di autodeterminazione per i palestinesi, due schermi protettivi per Israele. I palestinesi non hanno mai avuto altra alternativa se non negoziare alle condizioni stabilite da americani e israeliani: sottostare o ribellarsi.

Ad interim e permanente, due concetti che si annullano a vicenda

Secondo il criterio adottato a Oslo, nel processo erano previste due fasi in base a una logica ben precisa: una prima fase – “ad interim” – della durata di 5 anni in cui negoziare le questioni ritenute più semplici, incentrate sullo status d’autonomia dei palestinesi; e una seconda da riservare ai negoziati sullo status permanente con questioni più complesse, come quelle relative a “sovranità, insediamenti, confini, Gerusalemme, profughi, accordi di sicurezza, relazioni e cooperazione con altri Stati limitrofi, acqua e altri temi di interesse comune”. La proposta era di far iniziare la seconda fase il prima possibile (cioè, già nel settembre 1993), ma soprattutto non oltre l’inizio del terzo anno della fase temporanea. Dopo vari ritardi, si è deciso di posticipare l’inizio del periodo ad interim il 4 maggio 1994 e l’entrata in vigore dello status permanente il 4 maggio 1999. Ma nonostante la proroga, le scadenze non sono mai state rispettate.

Innumerevoli sono stati poi gli accordi che hanno integrato, scompaginato e complicato i principi enunciati nei primi documenti. I negoziati sembravano più una contrattazione in cui la leadership palestinese aveva la parte del miglior “offerente” e Israele quella di chi gioca al ribasso. È così che Israele ha avuto la possibilità di puntare i piedi, rifiutandosi di onorare la firma di un accordo intermedio, pretendendo poi di rinegoziare quanto concordato in precedenza, oltre alle continue richieste ai palestinesi di fare concessioni sul diritto di Israele – un diritto sancito in linea di principio – rispetto alla Palestina mandataria. Ma l’autonomia dei territori palestinesi non è mai stata presa in considerazione. Gli episodi di violenza da parte palestinese, duramente repressi da Israele (con materiale bellico statunitense), sono stati la dimostrazione del fallimento del processo di Oslo.

Dalla Road Map al cambio di regime

Visto che l’accordo ad interim non portava a un accordo permanente, Washington (sostenuta soprattutto dal governo di Amman) ha quindi ideato, dopo lo scoppio della Seconda intifada nel dicembre 20001, uno strumento per instradare i due interlocutori verso la creazione di uno Stato palestinese: la Road Map. Delle linee guida per stabilire una rotta e un obiettivo (lo Stato) con una serie di passaggi, fasi, scadenze e criteri per raggiungerlo. In altre parole, si trattava di una complessa strategia progressiva e graduale in cui Israele ha giocato molto spesso il ruolo di giudice e parte in causa. Il Quartetto (USA, Unione europea, Russia e ONU) aveva il compito di monitorare e sostenere le parti nella corretta attuazione del piano strategico. Basti dire che tra le richieste della Road Map c’era prima di tutto quella di “mettere fine alle violenze e al terrorismo [...] e che una soluzione sarebbe arrivata nel momento in cui il popolo palestinese si fosse dotato di una leadership in grado di agire con fermezza contro il terrorismo, creando una democrazia basata sulla tolleranza e la libertà [...] che Israele era pronto a fare tutto il possibile per creare uno Stato palestinese democratico” e questo fa capire su quale delle due parti gravava l’onere del successo – o del fallimento – del processo di Oslo.

La Road Map, un puro strumento diplomatico, non raggiungerà però i suoi obiettivi per la mancanza di volontà politica di Israele (le “14 riserve” poste dal premier Ariel Sharon equivalevano a un netto rifiuto), di Ramallah (Arafat era tenuto prigioniero nel suo quartier generale e così, per limitarne poteri, la comunità internazionale aveva praticamente imposto Abu Mazen come primo ministro), e anche di Washington, sempre più distratta dalle vicende della guerra in Iraq. Dal punto di vista americano e israeliano, la Road Map avrà però il merito di impedire ogni altra iniziativa di pace da parte di Mosca, dell’Europa o dei paesi arabi, dando la falsa illusione di una diplomazia ancora all’opera per monopolizzare l’opinione pubblica e guadagnare tempo. In realtà, il vero senso, il non detto dell’accordo, era che gli americani (e molti altri) volevano un “cambio di regime” a Ramallah secondo una tradizione diplomatica ben consolidata a Washington.

Una colonizzazione sfrenata

Il processo dei negoziati stava slittando, ma non la politica di colonizzazione – a latere dell’accordo – che non era tra le questioni da affrontare sul futuro status. Tra il 1993 e il 2022, il numero di coloni era aumentato di circa tre volte in Cisgiordania e Gerusalemme. La distinzione tra ad interim e “permanente” lasciava quindi campo libero a Israele, che aveva tutto l’interesse a prolungare i tempi delle trattative. Con i negoziati sullo status permanente ancora in corso, Israele aveva la possibilità di rivendicare il diritto di portare avanti la colonizzazione nei territori palestinesi. Al contrario, il fronte palestinese riteneva che ci fosse una contraddizione tra i negoziati in corso e la colonizzazione in atto, mentre Benjamin Netanyahu, premier dal 2009, insisteva sul fatto che gli accordi di Oslo non impedivano a Israele di costruire nuovi avamposti sul territorio palestinese prima di arrivare ad un accordo finale. Per ragioni strategiche, per aprire una fase di distensione e anche per compiacere Washington – convinta che fossero necessarie delle rinunce per compiere dei passi in avanti –, Israele ha di tanto in tanto congelato o rallentato il ritmo della costruzione di nuovi insediamenti, ma ha anche preteso con grande inventiva che parte delle costruzioni in corso non fossero da considerare come nuove perché parte della “crescita naturale” di quelle già esistenti. Di fronte alle richieste palestinesi di applicare il diritto internazionale e sollecitare dei provvedimenti, la risposta è stata quella di attenersi alle peculiari condizioni degli accordi di Oslo. Era chiaro che Israele aveva tutto l’interesse a temporeggiare, prolungare i negoziati e aspettare una reazione violenta da parte della classe dirigente o della popolazione palestinese (l’Intifada di al-Aqsa del 2000 ne era un esempio) per giungere alla definitiva conclusione sull’inaffidabilità dei palestinesi come interlocutori del processo di pace2.

Stato, autonomia, due parole senza significato reale

Il testo del 1993 non includeva la questione dello Stato palestinese, ma gli opinion leader, i governi e le cancellerie avevano colto al volo l’occasione per considerarlo l’inevitabile punto d’arrivo. La soluzione dei “due Stati” è stata ripetuta fino alla noia (lo è ancora oggi) anche se nulla lasciava presagire la sua realizzazione (oggi ancor meno di ieri). È stato chiaro fin da subito che il vero problema era la natura dell’istituzione statale ideata da Washington e Israele. Si è capito ben presto che la volontà dei palestinesi era quella di mettere fine all’occupazione e alla costruzione di nuovi insediamenti prima di pensare a un loro Stato.

Anche se di uno vero e proprio Stato non si è mai parlato, cioè con caratteristiche universalmente riconosciute: una collettività, un territorio, una popolazione soggetta a un potere organizzato, una sovranità. Fin da subito era chiaro che “Stato palestinese” voleva dire “cantoni”, “municipalità”, “province”, “enclave” o “comuni” più vicini ai “bantustan” (homeland) del Sudafrica che a un vero Stato. Una parola declinata nelle sue molteplici sfumature a seconda degli interessi degli uni o degli altri. Nel 1995, Rabin aveva fatto accenno solo a una “entità che è meno di uno Stato”. David Bar-Ilan, addetto stampa dell’ufficio del premier israeliano Netanyahu, aveva dichiarato nel 19963 che ognuno, volendo, era libero di parlare di Stato palestinese, o poteva anche chiamarlo “pollo fritto” senza alcun problema dal momento che la questione linguistica era irrilevante per le intenzioni di Israele. Nel 2009, Netanyahu ha finto di accettare la prospettiva di uno Stato a condizione che fosse “smilitarizzato e con sovranità limitata”. In seguito, ancora il premier israeliano ha cercato di convincere i palestinesi a “riconoscere lo Stato di Israele come Stato del popolo ebraico”, un riconoscimento che comportava una serie di conseguenze per i palestinesi, tra cui quella di non poter aspirare a un proprio Stato.

L’autonomia sbandierata a Oslo era tutta un inganno, e anche nel caso di un vero autogoverno ai palestinesi sarebbe stato concesso in fin dei conti solo il diritto di occuparsi di “istruzione, cultura, salute, assistenza sociale, imposte dirette e turismo” (cfr. Dichiarazione di principi del 13 settembre 1993). Dopo Oslo, la richiesta per i palestinesi è stata quella di preservare la sicurezza degli israeliani istituendo nei territori un “imponente” spiegamento di forze di polizia in grado di contrastare qualsiasi velleitario tentativo di resistenza palestinese.

I coloni hanno egemonizzato anche le istituzioni politiche e militari

I negoziati di Oslo hanno reso irrilevante la leadership palestinese anche sotto forma di “Autorità Nazionale Palestinese” (solo Hamas ne ha tratto vantaggio, ma questa è un’altra storia). Dopo l’ultimo governo Netanyahu (29 dicembre 2022), Israele ha dovuto affrontare altre questioni interne come la difesa della sua democrazia, e di conseguenza la questione palestinese è finita fuori dall’agenda politica. Gira voce che la questione potrebbe essere riesaminata sulla base dei colloqui in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita, che includono alcune “concessioni” da parte di Israele ai palestinesi. Al di là del fatto che il termine “concessioni” sia a geometria variabile, c’è da scommettere che la situazione attuale - uno Stato, Israele, che convive con un “sistema” di governo palestinese soggetto alla mercé del suo onnipotente vicino - è destinato con ogni probabilità a durare a lungo. Spalleggiati dai soldati e protetti dai ministri in carica, per ora i coloni continuano ad agire indisturbati nei territori palestinesi – sempre con metodi molto violenti – senza che gli israeliani, alle prese con la rivolta interna contro la riforma della giustizia del nuovo governo, diano troppo peso alla cosa. Si tratta di una deriva autocratica verso i palestinesi che è in atto da decenni in Israele, e la riforma della giustizia ne è uno degli effetti sotto la spinta delle sempre più potenti forze ultranazionaliste e religiose. Nel corso degli ultimi trent’anni, i coloni sono riusciti nell’impresa di occupare in maniera stabile i territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est, oltre ad aver egemonizzato le istituzioni politiche e militari di Israele.

1Denominata anche dal governo palestinese come Intifada di al-Aqsa, innescata dalla provocatoria visita di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme il 28 settembre 2000.

2Miguel Angel Moratinos, “Qui a peur de la démocratie palestinienne”, Le Figaro, 17-18 agosto 2002

3Intervista con Victor Cygielman pubblicata su Palestine-Israel Journal (Vol. 3, n°3, 1996).