Con i capelli sciolti, in pantaloni e corsetto o in abiti scollati, queste donne postano su Facebook video in cui praticano a casa propria la danza orientale, sulle note di canzoni egiziane, usando un hashtag in arabo traducibile come «con il permesso della famiglia egiziana». L’hashtag è diventato lo slogan di una campagna che chiede la liberazione di cinque giovani Tiktoker molto seguite, arrestate per aver caricato online dei video in cui ballavano e cantavano in playback canzoni di successo, video giudicati indecenti dalle autorità. Finite sotto processo, le ragazze sono state condannate nel luglio 2020 a due anni di prigione e a una multa di 300 000 lire egiziane (circa 16 000 euro) per « istigazione alla prostituzione », « incitamento alla dissolutezza » e « violazione dei valori della famiglia egiziana ». Due di loro, Haneen Hossam e Mawada Al-Adham, rispettivamente di 20 e 22 anni, condannate in primo grado, hanno visto i loro processi d’appello rinviati al 13 ottobre 2020.
Così la danza orientale è diventata un mezzo di protesta e il corpo uno spazio di ribellione. Nella speranza di affrancarsi da ogni imposizione sociale, affettiva, ideologica e politica, queste donne — di cui alcune, come Haneen Hossam, portano il velo — hanno scommesso su questa forza liberatrice che è la danza orientale, in cui si concentrano tutte le contraddizioni della società. Una danza che si caratterizza per la sua ambiguità, capace di trasmettere l’immagine stereotipata della donna come oggetto sessuale ma anche di valorizzare il corpo e liberarlo dalle proprie inibizioni. Se la gioia di vivere, l’audacia e la franchezza delle almee (le danzatrici professioniste che apparivano nei vecchi film egiziani) sono oggetto di ammirazione, si tende a mostrare diffidenza, se non ostilità, nei confronti delle donne che praticano quest’arte al giorno d’oggi.
La morale sociale ne limita oggi la pratica. Il numero di danzatrici professioniste egiziane quindi diminuisce, mentre si moltiplicano i corsi individuali e di gruppo, in palestre dove donne comuni imparano le regole di un’arte di cui si considerano le eredi. Di recente ci sono anche state delle fatwa récentes che incoraggiano le spose a ballare per i loro mariti perché questi non cerchino soddisfazione altrove. Alcune ricercatrici egiziane, tra cui Bigad Salama, Noha Rochdi, Chaza Yehia o Sahar Helali si sono da poco riappropriate del rapporto travagliato tra danza orientale e corpo femminile come oggetto di studio accademico. Diverse opere e saggi sono stati pubblicati di recente su questo argomento, un campo di studi occupato finora principalmente da autori europei.
Un eredità un tempo gloriosa
È dunque molto di più che una questione di strass e paillette. La storia della danza orientale è infatti strettamente legata ai cambiamenti sociopolitici conosciuti dall’Egitto, e in particolare all’evoluzione dei costumi delineatasi alla fine del XIX secolo. Quest’ultima ha favorito, secondo lo scrittore Nagib Mahfuz1, il riconoscimento della danza professionale fiorita nelle sale da ballo e nei cabaret del centro cairota moderno. Negli anni 20 del Novecento, nell’ambito di una struttura di spettacoli all’europea, si sono diffusi gli assoli femminili di danza, adottando le principali caratteristiche che conosciamo oggi. Il profilo di tutte le professioniste dell’intrattenimento a cui dobbiamo la gloria della danza orientale era quello di donne particolarmente ribelli, di umili origini, che erano riuscite a sottrarsi alla marginalizzazione e ad ascendere la scala sociale fino a diventare personalità influenti sul piano artistico e talvolta politico.
Ad esempio, Chafika El-Qebteya — Chafika la copta — (1851-1926) ha sfidato ogni forma di costrizione. Nel muoversi con un ampio seguito teneva testa al chedivè Abbas, mettendosi in competizione con lui, e si è opposta all’impiego di servitrici egiziane e sudanesi nei palazzi della classe dominante. Per esprimere il suo rifiuto della segregazione razziale è arrivata persino a ingaggiare delle bionde circasse per lavorare nella sua grande dimora nella viuzza Al-Sakayyine, o nel suo cabaret nei pressi di piazza Ataba. Ha inoltre sostenuto la rivoluzione del 19192, e ballato su un tappeto rosso in mezzo alla strada per celebrare il ritorno di Sa’d Zaghlul, il leader nazionalista, dall’esilio3.
Poco tempo dopo è stato il turno di un’altra donna carismatica a salire alla ribalta: la siro-libanese Badia Masabni, arrivata in Egitto nel 1920. È stata lei a rispondere alla domanda della ricca borghesia cairota dell’epoca e a inaugurare il suo cabaret, il Casino Badiaa, che fungeva da vera e propria accademia artistica. Qui erano accolte tutte le cantanti e danzatrici in erba che non molto più tardi sarebbero diventate star del cinema, come Tahia Carioca e Samia Gamal. Queste ultime hanno debuttato rispettivamente nel 1937 e nel 1940. Insieme a Naïma Akef e altre, queste artiste hanno rivoluzionato lo stile della danza orientale, arricchendolo con tecniche accademiche occidentali al fine di padroneggiare al meglio lo spazio scenico e introdurre nuovi passi.
Hanno inoltre recitato in alcune commedie musicali di successo girate tra il 1940 e il 1960, durante l’epoca d’oro della danza orientale in Egitto.
Tahia Carioca, di cui nel 1999 l’intellettuale palestinese Edward Said ha dedicato uno splendido elogio funebre nella London Review of Books, è stata un’importante figura della danza orientale, ma anche un’attrice comica e una militante politica, membro del Movimento democratico per la liberazione nazionale (Al-Haraka Al-Democratiya li-Taharour Al-Watany, Hadeto), la principale organizzazione comunista egiziana tra il 1947 e il 1954. Said ha scritto:
“La vita e la morte di Tahia […] simbolizzano l’incredibile quantità di vita che rimane non documentata né preservata in quella parte del mondo. […]. Lei stessa sembra incarnare questo stile di vita spinta oltre i limiti”.
Tahia Carioca è stata infatti testimone dei cambiamenti della società egiziana fino alla sua morte, avvenuta nel 1999 all’età di 84 anni. Ha visto la fine del Casino Badiaa, bruciato nell’incendio del Cairo del gennaio 1952, ma anche, negli anni 70, il bando televisivo dei filmati di danza orientale ordinato dall’Assemblea del popolo, poi il graduale aumento del conservatorismo religioso sotto l’influenza dei successivi regimi autoritari e delle monarchie del Golfo, fino al declino della danza orientale a partire dagli anni 80. Qualche anno prima della sua morte Tahia Carioca ha cominciato a portare il velo, mantenendo tuttavia la sua reputazione di artista dalla parlata schietta. Se oggi qualcuno girasse una telenovela o un film sulla sua vita, che immagine sceglierebbe? Quella di donna redenta e devota musulmana degli ultimi anni, o piuttosto quella della donna libera dalle convenzioni sociali, con i suoi 14 mariti e il suo impegno politico, che le sono valsi più di un soggiorno in prigione?
I due pesi e due misure del potere
Tutte queste giovani donne che oggi postano video in cui ballano si rifanno in qualche modo ai capitoli di questa lunga storia, e l’uso che fanno della tecnologia crea disturbo in un Paese che conta circa 40 milioni di utenti Internet. Sono molte le questioni che questa protesta solleva: perché le ragazze di TikTok vengono incriminate laddove altre, che si filmano in bikini o abiti succinti mentre ballano nelle spiagge di lusso di ‘Ain Sokhna o della costa settentrionale del paese, godono di impunità? Perché le donne che hanno ballato davanti ai seggi elettorali in occasione delle elezioni degli ultimi anni, incluse quelle che ancheggiando si toglievano il velo in strada, sono state viste con favore? Perché, durante il sit-in organizzato nel 2013 davanti al ministero della cultura contro l’islamizzazione promossa dai Fratelli Musulmani, la danza è stata considerata un segno positivo del dinamismo della società, mentre oggi la si condanna? Tutte queste domande hanno avuto grande risonanza sul web negli ultimi mesi, e trovano senza dubbio risposta in una logica di due pesi e due misure operata dal potere, per cui la repressione colpisce solo alcune categorie sociali.
Le stelle di TikTok hanno probabilmente voluto, un po’ come le vecchie star della danza, servirsi dell’applicazione ora di moda come strumento di ascesa sociale, animate dal desiderio di uscire dall’anonimato e divertirsi nel periodo del lockdown. Alcune di loro sono anche delle vere e proprie « influencer » seguite da uno o due milioni di persone su Instagram o Facebook. Vengono da ambienti sociali svantaggiati e hanno voluto utilizzare Internet per crearsi delle opportunità e mettersi in risalto, fosse solo per il loro modo ostentato di vestirsi, e questo vale anche per una ragazza velata come Haneen Hossam.
Un autoritarismo morale
Le Tiktoker sono state punite per aver cercato di sovvertire l’ordine sociale prestabilito. È qui che diventa evidente ancora una volta la minaccia rappresentata dalle nuove tecnologie per una società conservatrice e un potere che lo è altrettanto. Le autorità cercano dunque di controllarle e demonizzarle, in modo da giustificare le misure drastiche adottate contro queste attività, in linea con la controversa legge per la « lotta alla cybercriminalità » promulgata nel 2018. A questo scopo impiegano un arsenale di leggi desuete, dalle definizioni piuttosto vaghe, come quelle relative al buoncostume.
Lo spazio virtuale è un prolungamento dello spazio pubblico, ed è quindi essenziale tenerlo sotto controllo. Nulla è allora più semplice che andare a toccare i nervi scoperti del buoncostume, in una società che per molti anni è stata oggetto di un’islamizzazione dal basso. Piuttosto significativo è l’esempio di un concorso di danza orientale organizzato nel 2014 da una rete televisiva privata : molte voci, tra cui quelle di giuristi e figure religiose, avevano chiesto che fosse vietato, malgrado la trasmissione in prima serata avesse attirato 27 candidate di tutto il mondo e diversi sponsor.
Alcuni giornalisti e intellettuali si sono opposti al divieto, come l’opinionista Magda Maurice, che a al tempo si era domandata sul giornale di sinistra Al-Ahali:
Abbiamo fatto andare via i Fratelli [Musulmani] per vivere in una paura che pende sulle nostre teste come una spada di Damocle? Le autorità egiziane intendono forse continuare a mantenere queste posizioni intransigenti per timore di essere accusate di lassismo morale?
Altri hanno suggerito una volontà da parte dello Stato di « flirtare » con le forze conservatrici e togliere la terra sotto ai piedi degli islamisti, rinforzando il legame tra autoritarismo e conservatorismo morale e religioso. Un autoritarismo « moralizzatore », che mira a controllare la popolazione attraverso la morale, giocando sulla retorica del bene e del male. Dietro questo dibattito si cela dunque un paternalismo di Stato, e il desiderio di quest’ultimo di ripristinare il proprio ruolo di unico depositario degli usi e dei costumi.
femminismo di Stato e pressione dei social media
Dopo le elezioni presidenziali del 2014, nel periodo di accesa polarizzazione politica e identitaria che ha seguito la messa al bando dei Fratelli musulmani, alcuni analisti hanno notato l’ascesa di un nuovo discorso di femminismo di Stato, teso a strumentalizzare l’immagine e la causa delle donne. L’immagine delle egiziane che ballavano davanti ai seggi elettorali o esprimevano nei video il proprio sostegno al loro candidato favorito, Abdel Fattah Al-Sisi, facevano parte di questo fenomeno.
La mobilitazione delle donne iniziata con il 2011 ha tuttavia inficiato questo tentativo di appropriazione, che non è appannaggio di Sisi. Iniziative come quelle delle donne che ballano « con il permesso della famiglia egiziana » o di quelle che decidono di non tacere più e di parlare delle molestie sessuali utilizzando l’hashtag # Metoo, pubblicando l’identità dei loro aggressori sui social media, fanno vacillare le rappresentazioni patriarcali e introducono il concetto di « politica del corpo » (body politics), come ribadito dalle analisi di alcuni accademici egiziani tra cui la politologa Hind Ahmad Zaki e il sociologo Said Sadek.
Recentemente, questo nuovo attivismo ha provocato cambiamenti nella narrazione del governo, costringendo lo Stato a riconoscere le dimensioni del fenomeno delle molestie sessuali e della violenza contro le donne. Le autorità sono state talvolta costrette ad agire sotto la pressione dei social media. Il 1 luglio 2020 un account di Instagram intitolato « Assault Police » (polizia delle molestie), seguito da 170 000 persone, ha condiviso i dettagli di uno stupro commesso nel 2014 al Fairmont, un hotel di lusso del Cairo, da sette giovani uomini appartenenti a famiglie ricche e influenti. Dopo una festa con degli amici, la vittima è stata drogata e condotta in una delle camere dell’albergo, dove sarebbe stata violentata dai sette accusati. Dopo questa denuncia, le testimonianze sono arrivate una dopo l’altra e gli internauti si sono riappropriati dell’hashtag #Metoo. La procura ha ordinato l’arresto dei sospetti, la maggior parte dei quali è poi fuggita all’estero.
Anche qui lo Stato, che vuole a tutti i costi interpretare il ruolo del salvatore-protettore, ha dato nuovamente prova di una logica di due pesi e due misure. Un crudele capovolgimento della situazione ha fatto sì che oggi la sorte della vittima e dei testimoni coinvolti sia più che incerta. Ormai gli accusati non sono più i soli ad essere presi di mira. La maggior parte della stampa conservatrice di regime si è rapidamente adoperata per dare l’impressione che la serata al Fairmont si fosse conclusa in un’orgia e che la giovane donna in questione fosse dedita a ogni sorta di eccessi, negando quindi la sua condizione di vittima e rimettendo in dubbio l’accusa di stupro. Questa narrativa ha avuto l’effetto di privare la donna della compassione dell’opinione pubblica di cui aveva goduto fino a quel momento.
Il processo è in corso, molto inchiostro sarà speso a riguardo e senza dubbio spingerà nell’ombra le Tiktoker e chi le difende. Queste ultime però continueranno a sfidare gli sguardi sprezzanti, pieni di scherno e di giudizio…Sembrano molto divertite, orgogliose di ciò che hanno fatto, anche se il caso non suscita più l’interesse dei media, che sono passati a parlare d’altro.
1Citato in Les danses dans le monde arabe ou l’héritage des almées, a cura di Djamila Henni-Chebra e Christian Poché, L’Harmattan, 1996.
2Dopo la Prima guerra mondiale era nata una delegazione nazionalista egiziana con lo scopo di negoziare l’indipendenza dell’Egitto e partecipare alla conferenza di Versailles, dove le potenze europee dovevano determinare la sorte delle antiche province ottomane. Da questa delegazione nacque il grande partito nazionalista Wafd
3Nel 1919 Sa’d Zaghlul e le personalità principali della delegazione erano state arrestate dagli inglesi ed esiliate a Malta.