Intervista

Ghassan Salamé: «L’ordine occidentale si sta sgretolando»

Accademico ed ex diplomatico, Ghassan Salamé è stato al centro di numerose crisi. Gli Stati Uniti del dopo Afghanistan, la prevedibile fine del dominio dell’“uomo bianco”, la situazione in Medio Oriente, il futuro delle grandi potenze: l’autore di Démocraties sans démocrates commenta il nuovo ordine globale.

Unsmil photos/Flickr (2017)

Orient XXICome si spiega il ritiro disonorevole degli Stati Uniti dall’Afghanistan dopo vent’anni di presenza militare ed oltre 2.300 miliardi di dollari (1982 miliardi di euro) spesi, secondo il presidente americano Joe Biden?

Ghassan Salamé – Una possibile spiegazione è data dal fatto che gli Stati Uniti hanno “privatizzato” una gran parte delle loro operazioni all’estero. Si è creata nei paesi in cui operano una rete economica e finanziaria che ne è diventata il principale beneficiario. È accaduto in Iraq nel 2003 con i repubblicani che sistemavano delle giovani leve per fargli fare esperienza. Poi sono arrivate le società di sicurezza private, che inizialmente hanno svolto il ruolo di addette alla protezione degli ospedali militari. Quindi si è sviluppata una vera e propria industria incaricata di reclutare interpreti e formarli fino a quando non è riuscita a sostituire l’esercito stesso. Ho visto soldati americani sbarcare in Iraq subito dopo essere stati assunti da queste compagnie (private) che li pagavano molto meglio. Questo sistema economico è talmente florido che rende impossibile il fatto di porsi domande su ciò che sta realmente accadendo nel paese. In Afghanistan, quando si parla dei bilanci spesi nel corso di questi anni, si evita di precisare che il 40% circa di quel denaro è tornato negli Stati Uniti. Quindi, la “via americana della guerra” è prima di tutto un sistema che ha creato dei beneficiari americani, che sono diventati una lobby che ha tutto l’interesse affinché non cambi nulla, perché di questo vivono. L’Afghanistan ne è il caso più eclatante. Una tale economia ha rappresentato più di un terzo, forse addirittura il 50% del bilancio americano a disposizione in Iraq e in Afghanistan, e che rientra nel paese. Donald Rumsfeld, ex falco e segretario di Stato al Pentagono, era il responsabile dell’organizzazione di questi subappalti. Ho incontrato Rumsfeld con il primo ministro libanese nel 2001. Ci disse che una volta eliminata Al-Qaeda, l’Afghanistan non avrebbe più avuto interesse per loro; tuttavia,visto che la loro presenza è stata così lunga, è perché lì c’erano persone che avevano molti interessi. Per i membri della NATO non c’era più alcun motivo per restare e via via si sono ritirati.

O. XXICome si spiega questa tendenza, cosa presuppone?

G. S. – All’inizio del XXI secolo, gli Stati Uniti hanno ritenuto che non ci fosse più bisogno di esperti e analisti regionali. Una teoria che si deve al neoconservatore Paul Wolfowitz, vicesegretario alla Difesa sotto la presidenza Bush, il quale mi disse, durante un incontro, di non aver bisogno di arabisti. Era dell’avviso che queste persone si sarebbero perse in dettagli, non vedendo la realtà nel suo insieme. In sintesi, gli ideologi hanno avuto la meglio sugli esperti. Tutto ciò contrariamente a quanto era accaduto alla fine della Seconda guerra mondiale, quando gli americani avevano favorito lo sviluppo degli studi antropologici e le università americane avevano ricevuto ingenti fondi per istituire cattedre di antropologia. All’epoca, il Pentagono aveva assunto molti esperti regionali, era l’età dell’oro. Mentre la fine della Guerra Fredda ha sortito l’effetto contrario: c’è stato il trionfo dell’ideologia e l’idea che la competenza sia un qualcosa di relegato al passato, troppo incentrato su questioni specifiche locali, e inutile per lo sviluppo dell’economia di mercato.

O. XXIQuali sono le conseguenze di questa sconfitta degli americani in Afghanistan? La fine della supremazia dell’“uomo bianco", come ha detto lei?

G. S. – Gli americani custodiscono i mezzi per intervenire, sia balistici che aerei. Tuttavia, la loro autorità agli occhi degli alleati è stata notevolmente intaccata, soprattutto dopo l’accordo militare denominato “Aukus” (acronimo di Australia, Regno Unito e Stati Uniti, ndr) per l’Indo-Pacifico con gli inglesi e gli australiani fanno pensare che ora la posta in gioco sia la Cina. Anche alcuni paesi asiatici stanno ripensando i loro rapporti con gli Stati Uniti. Ma il punto cruciale è “l’uomo bianco”. Ho trovato molto interessante un articolo dell’accademica e analista politica americana Anne-Marie Slaughter apparso su The Economist qualche settimana fa. Scrive che la variabile più rilevante è la demografia negli Stati Uniti: i soldati americani hanno sempre più la pelle scura, anche se il compito di decidere spetta all’uomo bianco (ovvero l’attuale 20% del pianeta che controlla il restante 80%). Ogni qual volta che Washington si ritira da una regione, c’è un processo storico più profondo: la scomparsa dell’influenza occidentale che non ha più la possibilità di farlo. L’Europa può permettersi di inviare solo all’incirca 35.000 soldati all’estero. L’esercito britannico ha solo 90.000 soldati – meno che ai tempi di Cromwell – e l’Europa deve fare i conti con un’opinione pubblica poco guerrafondaia al di fuori dei propri confini. Il ritiro dall’Afghanistan va visto in quest’ottica: non ci sono più le condizioni per poter controllare il pianeta. Dopo Barack Obama, Donald Trump ed ora con Joe Biden, si tratta di riportare la forza americana semplicemente in termini di rivalità tra grandi potenze e di smettere di spossare l’esercito in piccole guerre, anche se queste proseguiranno. Ma l’impatto occidentale può solo diminuire a vantaggio delle potenze regionali che si doteranno di mezzi. La Turchia ha più droni della Francia; l’Iran ha più truppe di tutta l’Europa messa insieme, e ho visto la Turchia schierare soldati siriani in Libia. L’Iran e l’India avranno un ruolo più importante e più autonomo. Oggi si può essere un membro della NATO e acquistare missili dalla Russia. La legge europea non consente, ad esempio, di assumere mercenari in maniera così leggera. Di conseguenza, è un movimento che andrà a beneficio delle potenze regionali, ma anche degli eserciti formati in tutto il mondo che hanno libero accesso al mercato delle armi, e hanno una disciplina e una forza lavoro importanti quanto gli eserciti regolari, come dimostrano gli esempi di Hezbollah in Libano e nel Fronte di liberazione popolare del Tigray. Altro beneficiario di questo movimento: i centri terroristici, che beneficeranno di una maggiore capacità di azione. L’ordine occidentale che esisteva da quattro o cinque secoli si sta sgretolando.

O. XXIPossiamo immaginare un ritiro americano dal Medio Oriente quando conosciamo l’importanza di questa regione?

G. S. – Non si ritireranno come in Afghanistan. Nei giorni della Guerra Fredda, le priorità erano la difesa di Israele, il contrasto all’influenza sovietica e infine il petrolio. Oggi queste tre ragioni sono diminuite senza scomparire. È vero che Israele ora può difendersi da solo, l’ URSS se n’è andata, ma la Russia resta e gli americani hanno difficoltà a capire la connessione dei russi con il Medio Oriente. La Russia mette sempre in gioco la mitologia nel suo rapporto con questa regione, con gli zar sulla via di Gerusalemme e le chiese ortodosse in Palestina. Ceceni e caucasici hanno combattuto in Siria e c’è un rapporto speciale tra Turchia e Russia. Biden non può ignorare che la Russia è presente in Medio Oriente e che per contenerla deve essere presente. D’altra parte, il Medio Oriente ha un potere simbolico. Gerusalemme è importante al di là di israeliani e palestinesi; va oltre quello che voleva fare Jared Kushner, genero dell’ex presidente Donald Trump: una semplice transazione immobiliare. Quanto al petrolio, anche se gli Stati Uniti sono diventati esportatori, resta il fatto che il controllo delle risorse petrolifere resta nella competizione tra grandi potenze. Sappiamo che il petrolio del Golfo viene esportato in Oriente e non più solo in Occidente. La relazione russo-turca è questo punto interessante. Gli storici dicono che è un ritorno al XIX secolo con la rivalità tra gli imperi ottomano e russo. Ma c’è anche un rapporto insolito a livello internazionale: una prima scuola propone l’idea di un’alleanza russo-turca segnata da alcuni dissapori, una seconda quella di una competizione segnata da accordi. Ma se c’è un punto su cui Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan sono d’accordo, è la riduzione dell’influenza occidentale sulla regione. Non dimenticherò che questi signori mi hanno quasi derubato del mio principale successo al vertice di Berlino sulla Libia: tre giorni prima stavano cercando di riportare a Mosca Khalifa Haftar e Fayez Al-Sarraj (i protagonisti del conflitto libico) per rimettere in discussione ciò che era stato duramente conquistato in cinque mesi. Ciò mette in discussione il principio della NATO. Ecco il grado di connivenza con il potere contro il quale è stata creata la NATO.

O. XXIE il posto dell’ONU in tutto questo?

G. S. – L’Onu è oggi esclusa dai conflitti più importanti: Ucraina, conflitto arabo-israeliano. Si ha l’impressione che sia diventata una branca dell’Unione Africana ( UA), la maggior parte del lavoro di mantenimento della pace viene svolto in Africa. Un altro fattore: l’agenda del Segretariato generale delle Nazioni Unite pone l’accento su questioni di parità o cambiamento climatico, che sono legittime, ma la sua missione iniziale era quella di mantenere la pace nel mondo. Dov’è l’azione per cui è stata creata? Il conflitto libico non è vitale per nessuna delle grandi potenze, anche se lo seguono da vicino. Il ruolo delle Nazioni Unite è cruciale, ma molto fragile, perché se il pilota non tiene chiaramente il volante, al suo posto si insedierà una miriade di Stati. È l’ ONU che ha disegnato il contenuto della Dichiarazione di Berlino sulla Libia. Abbiamo visto Francia, Italia, Egitto proporre le proprie idee, ed è disastroso perché i libici avevano la scelta del menu. L’ONU continua a svolgere un ruolo, ma deve porsi come promotrice e non enunciatrice di interessi tra poteri. Nello Yemen l’ Onu potrebbe svolgere un ruolo più importante, così come tra Marocco e Algeria.

O. XXIE la Siria?

G. S. – È un rompicapo, tanto per i paesi che hanno difeso il regime quanto per quelli che hanno cercato di combatterlo. Non sanno più cosa fare con un Paese smantellato e un regime che non è pronto a offrire un’offerta politica accettabile per l’intera popolazione. L’interesse per questo Paese non è commisurato ai danni che ha subito. Metà della popolazione non vive più dove abitava, è un vero disastro demografico. Tuttavia, si potrebbe trovare un consenso tra i quattro paesi influenti in Siria, ovvero Stati Uniti, Russia, Turchia e Iran. Spiegare alla Russia che non è l’unico erede della guerra siriana, all’Iran che la Siria non può essere un semplice satellite, alla Turchia che la guerra siriana non può essere ridotta a un divieto ai curdi di esistere politicamente, agli Stati Uniti che loro non possono mancare in un Paese che può ancora infiammare tutto il Medio Oriente. Ma non credo che una soluzione possa emergere dall’interno del Paese o dal processo di Astana. L’ ONU potrebbe avere un ruolo nel creare consenso, forse.

O. XXIE il Libano, per concludere?

G. S. – Questo Paese è vittima di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi e di aver scelto dogmaticamente una politica monetarista che è piaciuta ai libanesi prima di rovinarli. Era ovvio che questo sistema non poteva durare, l’avevo dichiarato nel 2011 e l’Associazione delle banche libanesi mi aveva criticato. Hanno reso una buona parte della popolazione complice di questo sistema e ne sono colpevoli. La congiunzione di una maggiore autonomia delle élite locali unita all’ideologia neoliberista crea nei paesi della periferia sistemi cleptocratici, i peggiori sono l’Iraq e la Libia. La cleptocrazia libanese è unica in quanto è anche redistributiva, ruba ai cittadini ciò che dà ai suoi sostenitori. I potentati possono attingere alle casse dello stato, ma la maggior parte viene ridistribuita. Essi stessi esercitano il ruolo redistributivo dello Stato, e quindi sembra solido e duraturo. Ma è una redistribuzione discriminatoria.