Siria. In un paese in rovina, elezioni senza gloria per Bashar Al-Asad

Il presidente siriano il 26 maggio 2021 è stato rieletto a capo di un paese impoverito ed affamato. A causa della corruzione, la ricostruzione stenta a decollare, mentre la Russia non riesce a trovare una soluzione globale, in particolare con la Turchia che controlla il nord-ovest.

Damasco, 24 maggio 2021
Louai Beshara/AFP

Dieci anni fa, la nascita della rivoluzione siriana aveva colto di sorpresa il regime autoritario di Bashar al-Asad, trincerato dietro la certezza d’essere un governo diverso da quelli scossi dalle rivolte in Tunisia e in Egitto. L’entusiasmo e l’immenso coraggio della società siriana mobilitata contro l’autoritarismo avevano fatto nascere molte speranze, in seguito schiacciate dalla violenza.

Dieci anni dopo, il regime ha ripreso il controllo di due terzi del territorio, a eccezione di una parte del nord-ovest sotto il controllo turco e del nord-est sotto l’amministrazione arabo-curda protetta dagli Stati Uniti. Il prezzo che la popolazione ha dovuto pagare è stato particolarmente alto: 500.000 morti, circa un milione di feriti, decine di migliaia di dispersi, la metà della popolazione rifugiata all’estero o sfollata all’interno del paese, decine di migliaia di prigionieri torturati. I due processi di Koblenz1 intentati secondo il principio di giurisdizione universale dinanzi all’autorità giudiziaria tedesca ricordano che l’orrore delle carceri siriane non è cessato dopo il reportage di Caesar, nome in codice di un fotografo della polizia militare di Homs che è riuscito a inviare fuori dal paese tra 30.000 e 50.000 foto raccapriccianti.2

Eppure, la Siria è relegata ai margini in questa primavera 2021, come fosse un conflitto a bassa intensità.

UNA SOCIETÀ SCHIACCIATA DALLA FAME

Se il governo sostiene, attraverso una propaganda fatta di manifesti che circolano ovunque nello spazio pubblico, di aver vinto la guerra contro le opposizioni (sia armate che pacifiche), non ha di certo avuto la meglio nel dopoguerra. C’è un qualcosa di surreale dietro l’elezione presidenziale che Bashar al-Asad ha vinto con grande clamore il 26 maggio del 2021, dal momento che i siriani sono preoccupati prima di tutto dalla propria sopravvivenza.

Secondo le stime del Programma alimentare mondiale (WFP), la vita quotidiana è terribile, con 9,3 milioni di siriani (sui 17 restanti nel paese) in condizioni di insicurezza alimentare e l’83% sotto la soglia di povertà. Una vita fatta di code, soprattutto davanti alle panetterie protette da inferriate contro il rischio di sommosse, per i generi alimentari di prima necessità e i prezzi saliti alle stelle. Persino la crisi da Covid-19 è avvertita in maniera più lieve rispetto alle limitazioni per comprare del pane o un po’ di carne. La Siria è diventata «la Repubblica delle code» per chi non vanta privilegi.

Ogni prospettiva di rivolta simile a quella del 2011 è da escludere. Il regime si regge su una specie di «dittatura dei bisogni», distribuendo piccole quantità di beni sovvenzionati (pane, carburante, gas, carne, zucchero, olio...), ben lontana dal ritorno della legittimità che deriverebbe dalla sua presunta «vittoria». La valuta non vale più nulla: l’1 % del suo valore in dollari rispetto a prima della guerra, mentre i prezzi sono saliti alle stelle a causa della crisi economica in Libano, sbocco dei traffici per l’economia siriana, e delle sanzioni statunitensi del Caesar Civilian Protection Act. Sono proprio queste ultime che permettono al regime di negare le proprie responsabilità, dietro la denuncia di complotti stranieri.

GOVERNARE A TUTTI I COSTI

Il governo di Damasco ha rimesso in sesto il suo apparato di controllo poliziesco prima della rielezione di Bashar al-Asad. Il dispiegamento dell’apparato securitario non è un sinonimo di efficienza, ma è prima di tutto una presenza impossibile da aggirare per i siriani. Attualmente è composto da diverse milizie risalenti alla guerra, in particolare quelle raggruppate sotto la sigla Quwat ad-Difa’a al-Watani, un’accozzaglia di gruppi di miliziani su cui il controllo centrale risulta complesso.

Il regime ha proceduto ad un nuovo assesto tra le élite, soprattutto negli ambienti economici. Alcuni uomini d’affari sono stati tirati giù dal loro piedistallo, compreso il cugino del presidente, il magnate delle telecomunicazioni Rami Makhlouf. Le elezioni parlamentari del luglio 2020 hanno sancito questo rinnovamento esclusivamente interno, con l’ascesa dei leader delle milizie o di coloro che li avevano finanziati tra il 2012 e il 2018. I social network hanno dato risalto alle recriminazioni degli «sconfitti», un espediente classico nella lunga storia del regime di Asad, abituato a regolari epurazioni.

Il potere si basa anche sull’onnipresente apparato statale, dichiaratamente inefficiente e corrotto, ma necessario per ottenere le varie autorizzazioni che gli consentono di far fronte ai numerosi regolamenti delle leggi emanate dal regime, anche durante la guerra. Accanto allo «sforzo bellico», questo è stato l’elemento essenziale che ha permesso al regime di resistere nel confronto con le opposizioni (sia pacifiche che armate).

Il regime è alla spasmodica ricerca di risorse, tassando pesantemente in dollari l’ingresso nel paese (100$), aumentando le somme da pagare per ottenere l’esenzione (badal) dal servizio militare, addirittura con un controverso emendamento alla legge, sotto la minaccia di confiscare i beni di famiglia a coloro che hanno disertato il servizio militare o non hanno pagato per la propria esenzione.

Si sono chiusi i negoziati anche con i curdi dell’Amministrazione Autonoma (Forze Democratiche Siriane [SDF]/Partito dell’Unione Democratica [PYD]) per ottenere forniture di petrolio mediante autocarri nelle zone di produzione petrolifere, situate prevalentemente nel nord. Il Ministero degli Affari Sociali e del Lavoro ha rafforzato i «controlli» sulle Ong, quando non lo fanno direttamente i servizi di Asma al-Asad, la moglie del presidente che ha rilevato questo settore chiave dalle mani di Rami Makhlouf.

Anche i sostenitori del regime nelle regioni che sono rimaste fedeli, come gli alawiti, soffrono per questo smantellamento, manifestando rabbia e sconforto sui social media, il che ha dato il via a diversi arresti. Il regime si regge sulla ridistribuzione delle scarse risorse non deviate dall’immensa corruzione. Ad esempio, nel marzo 2021, ha concesso una piccola indennità ai militari, ai dipendenti pubblici, ai pensionati e alle famiglie dei tanti «martiri».

MANOVRA DELICATA CON LA TURCHIA

La Russia ha un controllo quasi completo sulla questione siriana, anche se le residue forze americane che il presidente Donald Trump ha voluto per due volte far rimpatriare sono ancora dispiegate nel nord-est. Ma la complessità del caso siriano ha condotto la Russia a uno scontro diplomatico non con gli Stati Uniti, ma con la Turchia, entrata in campo in seguito al riemergere della questione curda siriana, dando luogo a tre operazioni militari d’ampio respiro lungo il suo confine per tracciare delle zone di sicurezza.

Dopo un’escalation nel febbraio 2020, seguita da un cessate il fuoco, turchi e russi hanno optato per un complesso negoziato all’interno del cosiddetto processo di Astana, nel quale è chiamato in causa l’Iran per la zona del nord-ovest (Idlib), dove i turchi hanno radunato 7.000 soldati, mezzi blindati, artiglieria e droni. È in gioco il destino della città di Idlib, ancora ribelle e covo di jihadisti d’ogni tipo, in questi negoziati così come nelle prossime discussioni nel giugno 2021 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul rinnovo dell’ultimo punto per gli aiuti umanitari a Bab al-Hawa.

La Russia sta negoziando una manovra diplomatica senza però risolvere la questione su come opererà con la Turchia, che si trova lungo il confine con la Siria, mostrandosi ostile a qualsiasi presenza del PYD siro-curdo. Tanto più da quando la Turchia ha dimostrato nel 2020 la sua capacità di spingersi in Libia o in Azerbaigian per fare pressione sulla Russia. C’è anche l’Iran, ma ha altre preoccupazioni: proteggere il suo accesso al Libano e a Hezbollah da Baghdad.

In realtà, Russia e Iran convivono abilmente in Siria, con le milizie sostenute da ambo le parti che stanno lavorando insieme sul campo. Nel corso del 2021, la Russia sta trattando con Iraq, Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per preparare il ritorno della Siria nella Lega Araba. Secondo il modello elaborato nel 2017-2018 [le «riconciliazioni» un po’ alla volta], la Russia sta negoziando il ritorno della «sovranità» del regime zona dopo zona nelle trattative con alcune potenze regionali, la Turchia nel nord-ovest, possibilmente Turchia e Stati Uniti nel nord-est, forzandone gli sviluppi con la politica regionale e l’indebolimento delle parti interessate in Siria.

MANTENERE IN PIEDI UNO STATO

La Russia sembra non avere altra scelta che sostenere la rielezione di Bashar al-Assad, con riforme costituzionali che mantengano a galla le trattative con la Turchia, anche se il regime di Asad non intende fare alcuna concessione alle opposizioni. I russi, in via ufficiosa o addirittura ufficiale, non risparmiano critiche all’indirizzo del regime siriano, ma da qui a vederlo come un dissenso ce ne corre. L’obiettivo russo è prima di tutto mantenere in piedi uno Stato siriano, intorno all’esercito del regime, limitando le tensioni locali, in particolare nella zona del sud, a Der’aa e As-Suwayda.

L’obiettivo successivo sarà la ricostruzione del Paese cercando di ottenere capitali dall’Occidente, in particolare dall’Unione Europea, tradizionale finanziatore delle «ricostruzioni postbelliche». Ma è proprio quest’ultima a condizionare fermamente qualsiasi finanziamento ad una transizione politica. La ricostruzione si farà quindi verosimilmente al ribasso, grazie al rientro dei capitali dei siriani per ricostruire in loco, cosa che è già iniziata, tenuto conto delle limitazioni imposte dal regime.

Dieci anni dopo, la Siria non è più la potenza regionale creata da Hafez al-Asad a partire dal novembre 1970, ma un paese indebolito, vittima di giochi regionali, diviso al suo interno da milizie più o meno affiliate all’esercito siriano e che si spartiscono il piccolo bottino di «vittoria», sotto il governo del grande ordinatore russo che fa fatica a trovare una soluzione globale. E le sofferenze della popolazione continuano, senza far rumore...

1«Inside the Raslan Trial», Syria Justice and Accountability Center, maggio 2021

2Garance La Caisne, Opération César, au cœur de la machine de mort syrienne, Stock, 2015.