Yemen: fra una tregua fragile e un futuro incerto

In Yemen, dopo otto anni di conflitto, una fragile tregua continua a reggere, mentre la crisi umanitaria continua ad aggravarsi. Intanto, il presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi si è dimesso e un nuovo consiglio presidenziale l’ha sostituito. Se il consiglio, fortemente influenzato dagli interessi degli stati del Golfo, sarà capace di proporre una soluzione politica, è tutto da vedere. Intanto, lo Yemen resta diviso tra Nord e Sud, e una “somalizzazione” del paese sembra uno degli scenari più probabili.

Due giovani nel villaggio di Sinhan, Nord Sana’a ,Yemen - ottobre 2013
Laura Silvia Battaglia

Quando nel settembre 2014 le milizie Houthi, provenienti da Saada, la città yemenita più a Nord, al confine con l’Arabia Saudita, sono entrate nella capitale Sana’a, in pochi – soprattutto fuori dal Paese – sono stati in grado di comprendere quanto stesse accadendo e prevedere cosa sarebbe successo di lì a poco.

Ciò che appariva era una vigorosa protesta della componente sciita del Paese che da anni si identificava con il partito Ansarullah, messo in piedi da Abdulmalik al-Houthi, avente per modello l’Hezbollah libanese e una chiara affiliazione filo-iraniana. La protesta, seguita da una buona maggioranza di cittadini, chiedeva l’abbassamento del prezzo della benzina, salari più alti, e una stabilità che l’allora presidente ad interim Abd Rabbuh Mansour Hadi non poteva garantire. Hadi si era indebitato con i sauditi e con il Fondo monetario internazionale per traghettare il Paese verso un referendum costituzionale e nuove elezioni, dopo la rivoluzione del 2011 e l’allontanamento di Ali Abdullah Saleh, il presidente inossidabile che aveva governato lo Yemen per trentatré anni.

Ciò che invece stava accadendo era la resa dei conti degli Houthi, da anni il vero cruccio del governo di Saleh per le loro spinte separatiste, a cui Saleh aveva portato delle guerre durissime negli anni Duemila, e l’uccisione del loro leader maximo prima di Abdulmalik, Hussein Badreddin. Una resa dei conti ad ogni costo, anche quello di scatenare una serie di effetti domino – tra cui la presa dei palazzi del governo con un colpo di stato militare - che avrebbero potuto irritare – e non poco – i Paesi della Lega Araba, prima fra tutti l’Arabia Saudita. Così, infatti, accadde: nel marzo 2015 i sauditi sono intervenuti in favore del governo yemenita riconosciuto di Hadi ma in fuga da Sana’a, attaccando con una campagna di bombardamenti aerea molto aggressiva le aree già occupate dagli Houthi.

Dopo otto anni di conflitto mai risolto, nel decorso della guerra in Yemen, la vera notizia del 2022 non è la tregua di due mesi firmata in aprile e rinnovata in giugno che, nonostante sia stata violata (poco e ad intermittenza) soprattutto nell’area di Taiz, sta permettendo al paese e ai suoi abitanti, stremati dal conflitto, di respirare per 120 giorni.

La vera notizia è piuttosto il tweet compiaciuto di Khalid bin Salman, fratello del principe saudita Mohammad e ministro della Difesa, che annuncia le dimissioni del presidente yemenita Abd Rabbuh Mansour Hadi e dà il benvenuto al nuovo Consiglio Presidenziale, un organo governativo composto da otto ministri designati da Hadi stesso che - dice Khalid bin Salman – “rappresenta un nuovo capitolo firmato dagli yemeniti per prendersi la responsabilità di costruire un futuro felice e pacifico per lo Yemen”.

Famiglia Houthi si prepara per il sit-in di protesta anti-governativa di fronte all’università di Sana’a - Sana’a Yemen, settembre 2014.
di Laura Silvia Battaglia

La notizia, per un governo centrale yemenita ormai privo di ogni credibilità, soprattutto in seno alla nazione, ha generato un Tweeter Storm di ilarità. Gli yemeniti ricordano bene che - dopo la rivoluzione del 2011 che destituì l’ex presidente Ali Abdullah Saleh per portare il paese a una nuova Costituzione e a nuove elezioni, attraverso la Conferenza di Unità Nazionale, tanto voluta e promossa dalle Nazioni Unite, dall’Europa e dall’allora presidente statunitense Barack Obama - Abd Rabbuh Mansour Hadi, ex delfino di Ali Abdullah Saleh, diventò presidente ad interim.

Il suo passaggio di potere sarebbe dovuto durare un massimo di due anni e invece si è prolungato per ben dieci con effetti disastrosi sulla governabilità e sulla reputazione del paese, nonostante il riconoscimento internazionale e la definizione di “presidente legittimo”. Ciò che gli yemeniti non perdonano a Mansour Hadi è stata la sua doppia fuga. La prima da Sanaa’a, quando i ribelli Houthi sequestrarono la capitale nel gennaio del 2015, costringendo Hadi e il suo governo a fuggire a Sud dove dichiarò Aden capitale temporanea del paese.

La seconda da Aden nell’estate del 2015 quando, assediata sempre dai ribelli Houthi e prima della sua liberazione - costata molto tempo, sforzo, munizioni e morti alla Coalizione araba a guida saudita – Hadi si affrettò a salvarsi la pelle a Riyadh – dove poi è rimasto quasi stabilmente – lasciando il figlio a risolvere gli affari domestici. Nell’annuncio di rinuncia alla sua presidenza, Hadi ha anche dato la notizia del licenziamento del suo vicepresidente, il generale di brigata Ali Muhsin al-Ahmar. Ali Muhsin è un parente del defunto presidente Saleh e, sotto il suo il governo trentennale, era diventato una figura molto temuta.

In un cablogramma diplomatico nel 2005, l’ambasciatore degli Stati Uniti Thomas Krajeski lo descriveva come «il pugno di ferro di Saleh». Krajeski aggiungeva che Ali Muhsin era stato «uno dei principali beneficiari del contrabbando di diesel negli ultimi anni» e sembrava aver «accumulato una fortuna nel contrabbando di armi, generi alimentari e prodotti di consumo».

Il promemoria lo descriveva anche come «uno stretto collaboratore» di Faris Manna, il più famoso trafficante d’armi dello Yemen. Sul fronte religioso, Ali Muhsin aveva legami salafiti-wahabiti di lunga data che, secondo Krajeski, includevano “trattamenti discutibili con terroristi ed estremisti”.

Con Hadi e il suo vice apparentemente in disparte, il piano incoraggiato dai sauditi consiste nel subentrare al Consiglio presidenziale. Questo dispositivo di condivisione del potere è stato spesso utilizzato in passato, in forma di triumvirato, quando lo Yemen ha dovuto affrontare problemi politici, con risultati contrastanti. Per esempio, nel 1978, dopo l’assassinio del compianto presidente Ahmed al-Ghashmi, e nel 1990, durante l’unificazione del Nord del paese con la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen meridionale. L’ultimo triumvirato portò rapidamente Ali Abdullah Saleh a un potere quasi assoluto.

Stavolta, il Consiglio prescelto è un «Frankenstein» politico. Al suo interno sono rappresentati solo elementi anti-Houthi: in teoria questa combinazione dovrebbe creare un’opportunità per mettere ordine nello Yemen “legittimato” del Centro-Sud e potrebbe plausibilmente preparare la strada a una soluzione politica per l’intero paese. Ma la logica suggerisce di essere tutt’altro che ottimisti. I Consigli presidenziali sono nel migliore dei casi creazioni ingombranti, ma questo è un tentativo, forse un ultimo disperato sforzo, di ricostituire qualcosa di simile all’unità nazionale all’interno dell’alleanza anti-Houthi.

Il problema è che non è chiaro come questi otto membri, molti dei quali hanno opinioni diametralmente opposte, possano lavorare insieme. Al suo interno si affiancano uomini come Rashad al-Alimi, il capo del consiglio, proveniente da Taiz e vicino ai Fratelli Musulmani, ma anche Aydarus al-Zubaydi, capo del Consiglio di transizione meridionale che sostiene uno stato meridionale indipendente, e Tariq Saleh, nipote del defunto presidente Saleh, alleato degli Houthi fino a quando non hanno ucciso suo zio nel dicembre 2017. Ci sono anche sceicchi e comandanti più lontani dagli interessi sauditi e molto più vicini a quelli emiratini che, se apparentemente alleati, perseguono una politica di rivalità all’interno dello Yemen.

Le possibilità che questi otto lavorino insieme in modo coeso sembrano remote o inesistenti. Se così fosse, ha ragione di esultare l’Arabia Saudita che ha provveduto a dotare il Consiglio di un extra budget da tre miliardi di dollari, per i quali dovrà sempre rendere conto, divenendone politicamente dipendente. Tutto questo nel quadro di una tregua firmata a Riyadh da tutte le parti in guerra con un convitato di pietra – sempre lo stesso – gli Houthi che si sono rifiutati di presentarsi perché l’Arabia Saudita è “luogo non neutrale per degli accordi di pace”.

La posta in gioco

Al momento la guerra è in stallo, sigillata dalla tregua. Si temporeggia ma è anche probabile che si affilino ancora le armi per round di conflitto ulteriori alla conquista del governatorato del Marib, rispetto al quale nessuno vuole cedere, in quanto sede di quasi tutti i giacimenti petroliferi del paese. Di fatto, le parti hanno accettato di fermare tutte le operazioni militari offensive aeree, terrestri e marittime all’interno dello Yemen e oltre i suoi confini; hanno concordato che le navi per il rifornimento entrino nei porti di Hodeidah; hanno cercato di risolvere la rischiosissima mancanza di manutenzione del Safer tank, una nave piena di greggio posizionata da anni di fronte al porto di Hodeida; hanno ottenuto che alcuni voli commerciali operino dentro e fuori l’aeroporto di Sana’a verso destinazioni predeterminate nella regione, maggiormente verso e dall’Iran ma anche dalla Giordania. Il successo dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Hans Grundberg - che ha faticato non poco per replicare nel 2022 condizioni prima verificatesi solo nel 2016 e, in parte, nel 2018 - è effettivo, specie se comparato ai benefit per gli abitanti: la felicità degli yemeniti per l’arrivo del primo volo commerciale con passeggeri della compagnia di Stato Yemenia Airlines in maggio è stata esplosiva, fuori e dentro il paese. Non solo. La popolazione ha avuto una reale tregua dai bombardamenti aerei e dagli attacchi dell’artiglieria, senza contare che anche gli autotrasportatori, specie in aree come quella di Taiz, letteralmente divise in due tra i filo-governativi e i ribelli, hanno potuto concludere affari che si sognavano da sei anni, grazie all’apertura delle strade da una parte e dall’altra.

Sostenitori della milizia Houthi marciano in rally di fronte all’università di Sana’a - Sana’a Yemen, settembre 2014
di Laura Silvia Battaglia

Ma restano sul piatto alcune questioni irrisolte, anche nel quadro già previsto della tregua. Nonostante le due parti in guerra abbiano scambiato i rispettivi prigionieri, le Nazioni Unite faticano ancora parecchio a convincere gli Houthi a rilasciare il personale locale dell’ambasciata americana, rapito lo scorso ottobre: ancora 11 persone sono sotto la custodia dei ribelli. Senza contare che il Sud dello Yemen è più insicuro che mai: l’attentato non rivendicato del 26 maggio al mercato del pesce di Aden, che ha causato una cinquantina di feriti gravi e quattro morti, è la prova provata che l’impatto della guerra e la libera circolazione di qualsiasi tipo di arma nel paese complica lo scenario e prolunga l’instabilità dello Yemen oltre qualsiasi genere di tregua o di fine conflitto, soprattutto nelle aree strategicamente più rilevanti.

La catastrofe umanitaria

Già definito il paese più povero del Medio Oriente, prima ancora del 2015, e con un tasso elevato di malnutrizione soprattutto infantile, in Yemen a causa di questa lunga guerra si sta consumando una delle più gravi crisi umanitarie del pianeta. Le Nazioni Unite da tempo avvertono che la guerra in corso ha causato la peggiore crisi umanitaria attuale.

Secondo il Programma alimentare mondiale (WFP) circa 16,2 milioni di yemeniti, ovvero circa il 45% della popolazione totale, rischiano la fame, aggravata dalla dipendenza del paese dalla crisi del grano russo-ucraino, sulle cui importazioni lo Yemen dipende per il 40% del suo fabbisogno ordinario. Nonostante questo, il paese non riceve particolari attenzioni da parte dei mezzi d’informazione internazionali e ha visto una diminuzione consistente degli aiuti umanitari da parte dei paesi donatori, in parte causata dall’apertura di altri fronti di crisi globali (Afghanistan, Ucraina).

A rendere tutto ancora più difficile, l’amministrazione Biden ha iscritto le milizie Houthi filo-iraniane del Nord nelle liste delle organizzazioni terroristiche mondiali. Anche se le milizie controllano nell’area tutto il traffico, la ricezione degli aiuti e i permessi accordati alle sigle internazionali e alle organizzazioni non governative, ora non è possibile realizzare alcun accordo formale con loro.

Questo ha aggravato enormemente la crisi alimentare e sanitaria, generando tassi d’inflazione altissimi e un ricorso quasi totale dell’economia locale ai mercati neri. Più complessa è la valutazione sulle perdite delle vite umane: sempre le Nazioni Unite stimano che più di 377mila persone siano morte a causa del conflitto fino alla fine del 2021. E secondo le stime del ministero della Sanità locale, almeno 10mila yemeniti sono morti per il mancato accesso alle cure mediche di cui avrebbero avuto bisogno: un numero pari circa a quello delle vittime dirette del conflitto già a metà del 2019. In un rapporto pubblicato alla fine del 2021, il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite1 sostiene che circa il 60% di questi decessi è, infatti, il risultato di cause indirette, comprese carestie e malattie prevenibili, come colera, difterite, febbre gialla, Covid-19.

Il resto è stato causato da combattimenti e raid aerei.2 Anche per questo, la commissione di esperti che ha indagato del 2021 per l’attribuzione di crimini di guerra alle parti in conflitto ha faticato a trovare un bilanciamento tra cause primarie e secondarie dei decessi nel conflitto. Il rapporto rileva però un aspetto che supera queste difficoltà che evidentemente non si vogliono superare: nel freddo computo dei morti i bambini rappresentano il 70% dei decessi totali. Se questa non è una tragedia, nonché una deliberata azione contro civili inermi che attende ancora giustizia, non si saprebbe come altro chiamarla.

Il futuro del paese e dei suoi abitanti

A distanza di quasi otto anni dall’inizio del conflitto, e con una previsione di prosecuzione dello stesso, quantomeno rispetto all’area strategica della provincia del Marib, in Yemen si configura un ritorno al passato: è sempre più evidente che il quadro futuro presenta una forma di “somalizzazione” del paese dove, a fronte di un Sud guidato da due anime politiche – una unitaria e una separatista – che sono venute a patti, condensate nel Consiglio presidenziale neo-nominato dal presidente uscente Hadi, l’area Sud-Ovest (governatorati di Hadramaut e Mahra) resta assai più indipendente dal centro e le aree meridionali di Shabwa, Abyan e Mukalla sono saldamente in mano alle tribù locali, alcune filo-qaediste, seppur disposte a venire a patti, alla bisogna, con i separatisti del Sud che siedono al governo e con gli Emirati Arabi Uniti che ne controllano le coste. Il Nord, che piaccia ai sauditi e al Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) o meno, da molti anni è in mano agli Houthi che, forti del controllo capillare del territorio, dell’appoggio logistico dell’Iran e dell’essere riusciti a coagulare il consenso sul loro governo utilizzando la riprovazione verso l’aggressione saudita, non saranno estirpabili dal territorio, considerato che provengono proprio da quell’area e che la difendono da ben prima dell’inizio di questa guerra.

Uno scorcio della città vecchia dal piano nobile dell’edificio Burji al Salaam - Sana’a, Yemen - settembre 2012
by Laura Silvia Battaglia

Uno Yemen del Nord e uno del Sud con due governi non federati, come prima del 1990, sembra essere l’ipotesi più probabile, politicamente, nel prossimo futuro. Lo dimostra la ormai sempre più tiepida accoglienza delle celebrazioni del 22 maggio per l’anniversario dell’unificazione del paese, ormai accaduta 32 anni fa. Sul piano strategico, la potenza regionale vincitrice di questa guerra sono gli Emirati, che si sono assicurati il controllo delle coste da Mukalla a Mokha e dell’isola di Socotra, mentre i sauditi dovranno sempre fare i conti con la potenziale minaccia rappresentata dagli Houthi al loro confine. Sul piano economico, lo Yemen ne uscirà totalmente indebolito e debitore fino all’osso dei paesi del GCC che hanno garantito al governo centrale una seppur minima sopravvivenza.

Questo costerà al paese in indipendenza anche sociale e culturale, rispetto a investimenti nell’istruzione di base e superiore, nella sanità, nella nomina dei leader religiosi, e all’utilizzo e anche all’esportazione di forza lavoro nei paesi del Golfo. Infine, otto anni di guerra saranno stati già sufficienti per far crescere almeno due generazioni di bambini, tra Nord e Sud, nell’odio reciproco, senza istruzione regolare, assai sensibili alla propaganda delle milizie e con una pratica avanzata dell’uso delle armi, senza contare coloro che sono già adolescenti e hanno avuto solo la guerra come modello di giustizia sociale. Come in Somalia, la notte dello Yemen, a fronte del suo stupendo e ricco passato, è appena cominciata.

  • Bambini di famiglia Houthi partecipano al rally di fronte all’università di Sana’a reggendo una bandierina celebrativa del loro leader politico Abdul Malik al-Houthi - Sana’a Yemen, settembre 2014.
    di Laura Silvia Battaglia