Alle radici del genocidio armeno

Il 24 aprile ha segnato il 106esimo anniversario del genocidio armeno perpetrato in piena prima guerra mondiale. I massacri furono l’esito di una politica deliberata da una parte dei capi dell’Impero ottomano per «turchizzare» tutte le regioni del regno e costituire uno stato omogeneo dal punto di vista etnico e religioso.

Regione di Aleppo, donna armena inginocchiata vicino al corpo del figlio (tra il 1915 e il 1919) © Library of Congress, American Memory.

Tra il 1915 e il 1916, muoiono più della metà dei 1,5 e 2 milioni di armeni ottomani dell’Asia minore, vittime di una campagna contro di loro. Dal 1913 al 1918, alla guida dell’Impero ottomano c’è un governo dittatoriale dei Giovani Turchi che, durante la prima guerra mondiale, vuole preservare ed espandere il grande e vacillante impero. Di pari passo, il governo sta perseguendo una politica demografica ed economica nazionale d’ispirazione social-rivoluzionaria che, in accordo con la nuova ideologia del «turchismo», ha l’obiettivo di creare una madrepatria turca in Asia minore e una sovranità illimitata per i Turchi. Questi includono le centinaia di migliaia di rifugiati musulmani delle guerre balcaniche del 1912-1913. Sono soprattutto i cristiani, considerati come non assimilabili, così come i non turchi come curdi ed arabi, a essere il bersaglio della politica di «turchizzazione» dell’Asia minore. Eppure, saranno solo gli armeni, in Asia minore come in Tracia o in Siria, a essere oggetto di sistematiche persecuzioni ed eccidi di massa.

Nel corso della seconda metà del XX secolo, la seconda guerra mondiale e il condizionamento strategico dovuto alla guerra fredda, che ha influenzato anche il campo degli studi universitari, hanno fatto passare in secondo piano le violenze di massa della prima guerra mondiale. Di conseguenza, il genocidio degli armeni è stato poco studiato e la storiografia sul tema del genocidio all’epoca delle guerre mondiali risulta frammentaria. In particolare per quanto riguarda la Germania, per la quale il genocidio armeno, perpetrato in presenza di personale diplomatico e addetti militari tedeschi, rappresenta una precoce questione morale (secondo l’interpretazione di Paul Rohrbach, membro del Ministero degli Affari Esteri tedesco nel 1915). Gli archivi dell’Auswärtiges Amt (il Ministero degli Affari Esteri tedesco) sono tra i più importanti in materia. Con il passaggio al XXI secolo, la nozione del primo genocidio moderno perpetrato nella «Grande Europa» (Europa, Russia e Impero ottomano) si è imposta in una prospettiva internazionale. Di conseguenza, la scienza segue colui che per primo ha coniato il termine «genocidio»: il giurista ebreo polacco Rafael Lemkin, da cui è nata la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di Genocidio delle Nazioni Unite (1948). Il lavoro di tutta la sua vita era cominciato nei primi anni 1920 dopo i crimini commessi contro gli armeni, e rimasti impuniti.

Al momento, resta ancora da tracciare un resoconto esaustivo degli sconvolgimenti storici complessivi degli anni 1910, che includano il mondo tardo ottomano, l’intreccio tra questione orientale e diplomazia, e l’inedita politica bellicosa dei Giovani Turchi all’interno dei propri confini. Un tale resoconto orienterebbe in modo differente la rappresentazione eurocentrica della Prima guerra mondiale. A tal proposito, va sottolineato che gli anni di guerra dell’Impero ottomano vanno dalle guerre balcaniche fino al conflitto sulla questione dell’Asia minore sotto Mustafa Kemal Atatürk, ossia tra il 1912 e il 1922, e che, in larga parte, Giovani Turchi e Kemalisti hanno molte similitudini. La politica interna dei Giovani Turchi degli anni 1910 è riconosciuta mutatis mutandis nel Trattato di Losanna del 1923, insieme al principio dichiarato dello «scambio di popolazioni»: un trasferimento forzato che coinvolge milioni di persone.

LA «QUESTIONE ORIENTALE»

La «questione orientale», caso irrisolto della diplomazia internazionale fin dalla fine del XVIII secolo, mette in discussione le sorti dell’Impero ottomano, e solleva così la questione sulla possibilità delle riforme, come quella sulle prospettive post-ottomane nel Medio Oriente. A lungo, i Balcani sono stati al centro della questione e restano tali anche nei presupposti della rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, come per il caso della Macedonia. Per quanto riguarda i Balcani, a partire dal Congresso di Berlino del 1878, prevale la prospettiva di creare Stati-nazione post-ottomani, ognuno con la propria identità etnico-religiosa. Una prospettiva che entra in conflitto però con le autonomie etnico-religiose a-territoriali concesse dallo Stato plurinazionale ottomano a cristiani ed ebrei e accompagnate, a partire dall’editto di riforma del 1856, da una completa uguaglianza giuridica, almeno in linea di principio.

Le guerre balcaniche del 1912-1913 mettono l’élite dell’Impero ottomano di fronte alla realtà che i Balcani siano definitivamente perduti. Proprio quei Balcani che, insieme all’Asia minore, erano stati il principale pilastro dell’Impero ottomano a partire dal XVI secolo. Nella cerchia dell’élite musulmana di lingua turca, che il Comitato dei Giovani Turchi intende rappresentare, sono tutti d’accordo nel considerare fallimentare sia la visione riformista ottomana – e di conseguenza il principio d’uguaglianza – sia la sua pluralità etnico-religiosa. La rivoluzione del 1908 dà un nuovo impulso alla visione riformista, dopo un trentennio di potere autoritario del sultano Abdul Hamid II, con il ripristino e il rafforzamento della Costituzione del 1876, nonostante in quel momento alcuni importanti membri del Comitato fossero già sotto l’influenza del turchismo.

I PRIMI GRANDI MASSACRI

I promotori della rivoluzione del 1908 sono da una parte il Comitato per l’Unione e il Progresso dei Giovani Turchi e dall’altro la Federazione armena rivoluzionaria, alleati politicamente dal 1907, che agiscono insieme nel Parlamento ottomano. Alla vigilia della prima guerra mondiale, le due forze politiche si separano, in linea con le riforme attuate nella pericolosa regione curdo-armena delle province ottomane orientali. L’articolo 61 del trattato di Berlino del 1878 prevede quelle che comunemente vengono chiamate «riforme armene». Nell’autunno del 1895, una prima bozza sostenuta dalla comunità internazionale viene sottoscritta dal governo ottomano, dopo un massacro. Ciononostante, nelle settimane successive, si verifica un’ondata di stragi senza precedenti in vaste aree dell’Asia minore. Massacri organizzati per lo più nelle moschee locali, di cui sono vittima circa 100.000 armeni, quasi esclusivamente uomini e bambini. Il progetto di riforma non sortisce alcun effetto, per tornare all’ordine del giorno della questione orientale alla fine della Belle Époque. Il nodo centrale del dibattito riguarda le terre armene, di cui si sono appropriati alcuni funzionari musulmani locali nell’ultimo trentennio del XIX secolo.

Come già avvenuto nel periodo 1908-1912, il governo ottomano, malgrado gli sforzi iniziali che non riescono a risolvere i problemi, comincia a consolidare il suo potere nelle province orientali alquanto scosse cooptando i capi locali, rappresentanti degli armeni ottomani che si rivolgono alla diplomazia internazionale. Su istigazione della Russia e con la partecipazione della Germania, che si occupa per la prima volta della questione, il governo turco e i rappresentanti armeni elaborano un piano che il governo del Comitato dei Giovani Turchi firma a malincuore l’8 febbraio del 1914. Il colpo di stato del gennaio del 1913 porta al potere un governo costituito da membri del Comitato. I più influenti sono il ministero dell’Interno Tal’at Pascià, il ministro della Guerra Ismail Enver (Enver Pascià) e il ministro della Marina Ahmed Cemal Pascià. Nessuno dei tre all’epoca ha raggiunto i quarant’anni.

L’accordo sulla riforma concede ampi poteri a due ispettori degli Stati neutrali, che hanno il compito d’imporre la restituzione delle terre, la partecipazione dei non musulmani nei consigli regionali, nell’amministrazione e nelle forze di polizia, nonché l’uso delle lingue regionali nei tribunali. Le ultime settimane di colloqui, tra la fine del 1913 e l’inizio del 1914, vedono sempre più distanti le posizioni degli armeni e dei responsabili dei Giovani Turchi. Nelle loro memorie, questi ultimi parleranno di tradimento, dal momento che gli armeni, a loro avviso, hanno sacrificato il fine supremo della sovranità ottomana all’ingerenza straniera. Ancora oggi, il discorso propagandistico sul presunto tradimento armeno risulta efficace, e su questo si basa anche la convinzione che gli armeni dell’Asia minore abbiano boicottato gli sforzi bellici ottomani durante i primi mesi della Prima guerra mondiale.

AL FIANCO DELLA GERMANIA

Il governo del Comitato non ha più fiducia in un futuro comune con i cristiani ottomani. Durante le guerre balcaniche, il governo ha avuto fondati dubbi sulla lealtà di alcuni cristiani greco-ortodossi (rûm) a Smirne e sulle rive del mar Egeo, reagendo con misure radicali: nel giugno del 1914 ha espulso circa 200.000 rûm, nel corso di un’operazione segreta. Il governo ha invocato iniziative spontanee perpetrate dai profughi giunti dai Balcani (muhacir) e l’obbligo di stabilirli da qualche parte. La crisi europea del luglio del 1914 gli concede non solo la possibilità di evitare rappresaglie diplomatiche o una guerra contro la Grecia, ma anche di approfittare dello sconvolgimento geostrategico che si sta profilando in quel momento.

In primo luogo, c’è la possibilità di confrontarsi con una grande potenza europea in vista di un’alleanza. Durante la seconda metà di luglio, è la Germania a offrire quest’opportunità, firmando il 2 agosto un accordo con Costantinopoli e mostrandosi pronta a non interferire negli affari interni – neppure dopo che il governo del Comitato ha sospeso con effetto immediato l’accordo di riforma, per poi annullarlo alla fine del 1914. Già dall’agosto del 1914, il governo procede ad una mobilitazione che non ha alcun precedente nella storia ottomana. Fa seguito un’intensa propaganda nazionalista turca e panturca dalle forti connotazioni islamiche. All’interno della propaganda legata al jihad, che esperti orientalisti tedeschi cominciano ad orchestrare a partire dall’autunno del 1914, la diplomazia tedesca alimenta gli stereotipi nei confronti dei cristiani orientali.

Il governo del Comitato indugia però ad entrare attivamente in conflitto, ed è solo alla fine di ottobre che si decide ad intraprendere la guerra auspicata dalla Germania contro la Russia, che lo stesso governo mette in scena come un regolamento di conti contro la Russia, la nemica storica. Nel gennaio del 1915, la campagna del Caucaso si conclude con una catastrofe: perdono la vita più della metà dei 120.000 soldati e le epidemie cominciano a diffondersi. Anche la campagna condotta nel nord dell’Iran fallisce. Il fronte orientale, dal Mar Nero al nord dell’Iran, diventa il teatro di una contrapposizione tra musulmani e cristiani, nonché di scontri tra milizie sostenute rispettivamente dalla Russia e dall’Impero ottomano.

Nel marzo del 1915, l’Impero ottomano è minacciato ad ovest dall’attacco della Triplice Intesa sullo stretto dei Dardanelli. Il Comitato di governo si considera a quel punto in guerra totale, mentre tocca con mano gli eventi estremi che avvengono in quell’epoca in Europa: le battaglie di massa, la guerra sottomarina condotta anche contro i transatlantici, l’uso dei gas tossici in Belgio nell’aprile del 1915, le deportazioni di massa degli ebrei, dei polacchi e dei tedeschi ad opera dei russi nell’estate del 1915. Tuttavia, le azioni dei Giovani Turchi tra il 1915 e il 1916 contro gli stessi cittadini armeni non hanno precedenti. Solo nel corso della Seconda guerra mondiale l’Europa assisterà ad una simile violenza genocida condotta contro i propri connazionali – sebbene già nel 1918, nella Russia rivoluzionaria, la violenza di massa fosse esercitata all’interno dei confini nazionali.

In due lunghi telegrammi del 24 aprile del 1915, indirizzati ai governatori delle province e ai responsabili dell’esercito, il ministro dell’Interno Tal’at Pascià descrive la situazione dell’Asia minore come segnata da una diffusa ribellione armena, nonostante i resoconti prodotti dall’esercito nelle settimane e nei giorni precedenti avessero descritto in modo diverso il quadro della situazione. Tal’at Pascià allude alla rivolta, precisamente alla resistenza armena a Van, alla periferia del fronte orientale, che ha avuto inizio il 22 aprile e sembra ben organizzata. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile, la polizia arresta alcune autorità armene a Costantinopoli e le deporta. Nel corso delle settimane seguenti, la polizia fa la stessa cosa nelle città di provincia dell’Asia minore. Gli arrestati vengono interrogati, torturati e la maggior parte di loro uccisi.

COLORO CHE HANNO RIFIUTATO GLI ORDINI

Sono misure che privano gli armeni ottomani dei loro leader e creano le condizioni per la loro deportazione (sevkiyat). Deportazione che comincia, dopo alcune avvisaglie, alla fine del mese di maggio nella provincia di Erzurum, e prosegue fino all’autunno. È portata avanti sotto la sorveglianza dei commissari inviati nelle province dal Comitato. Dalla zona orientale, i deportati marciano a piedi, in parte su rotaie, su carri di buoi o a cavallo fino ad ovest, verso la regione di Aleppo. Nelle province orientali, ogni volta gli uomini vengono isolati prima della partenza e massacrati, in qualche località anche donne e bambini. Nella provincia di Diyarbakir e di Hakkâri, si verificano anche casi di cristiani assiri. I massacri sono commessi dalle unità di un’organizzazione speciale che opera dal giugno del 1914 contro i cristiani ottomani. Si tratta di guardie accompagnate da criminali a cui lo Stato ha commutato la pena. A farne parte ci sono anche tribù curde reclutate per l’occasione.

In molte località, i funzionari ottomani si rifiutano di eseguire gli ordini. Chi lo fa con i buoni risultati è il governatore di Kütahya, sostenuto da influenti musulmani locali, che si oppone al ministero dell’Interno fino al punto da costringere quest’ultimo a concedere un’eccezione alla regola. Nella provincia di Diyarbakir, tre governatori di distretto che si rifiutano di eseguire gli ordini vengono giustiziati, gli altri vengono trasferiti. A Costantinopoli, a eccezione dei leader sopra menzionati, gli armeni stanziati da più tempo vengono risparmiati, gli altri perseguitati come in qualsiasi altro posto. Inoltre, a Izmir le élite vengono chiaramente eliminate, ma molte possono restare al loro posto, soprattutto perché il capo della missione militare tedesca presso l’Impero ottomano, il generale Liman von Sanders, è lì presente e si oppone fermamente a qualsiasi deportazione. In molte zone dell’Asia minore, diverse famiglie musulmane accolgono un numero imprecisato di donne e bambini armeni. Questo fenomeno, che ha coinvolto molte famiglie in Turchia, è stato a lungo tenuto nascosto. È stato solo all’inizio del XXI secolo che i discendenti delle «nonne armene» hanno cominciato a parlarne apertamente.

Centinaia di migliaia di sopravvissuti alla deportazione sono raccolti negli «accampamenti di concentrazione» – secondo la terminologia dell’epoca – tra Aleppo e Deir el-Zor: sono luoghi di morte di massa per fame, sfinimento o malattia. Poiché non tutti muoiono, nell’estate del 1916 decine di migliaia sono spediti nel deserto, e lì vengono massacrati. Fanno eccezione i 150.000 armeni che Cemal Pascià ha islamizzato tempo prima e che vengono sistemati più a sud. Cemal Pascià è il ministro della Marina, oltre che governatore militare della Grande Siria che comprende il Libano, la Palestina e l’attuale Giordania. Dopo la fine del genocidio, il principale esponente politico, il ministro dell’Interno, divenuto nel frattempo Gran Visir, cerca di normalizzare la nuova situazione dell’Impero: si tratta tra l’altro di promuovere l’economia nazionale (millî iktisâd) su basi musulmane, e a tal fine utilizzare le importantissime proprietà armene saccheggiate. Il ritiro della Russia dal conflitto mondiale e il Trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918 sembrano confermare, fino all’estate del 1918, la visione nazionalista e imperialista di Tal’at Pascià di uno Stato turco moderno con possibilità di espandere la propria zona d’influenza fino all’Asia centrale. A Brest-Litovsk, la lenta diplomazia ottomana riporta per la prima volta un grande successo e recupera vaste zone di territorio, vale a dire quelle situate tra Batumi e Kars, che erano state perdute nel 1878 all’epoca del Trattato di Berlino.

UNA PATRIA NAZIONALE PER I TURCHI

Il genocidio dei Giovani Turchi va inteso come l’espressione di una politica interna di stampo nazionalista e socialrivoluzionaria di komitaji imperiali che, sentendosi minacciati, sanno approfittare della situazione apocalittica della prima guerra mondiale a vantaggio della loro concezione radicale del futuro dell’Asia minore, non esitando a perpetrare un massacro di massa insieme a saccheggi. Di fatto, l’eliminazione degli armeni contribuisce a realizzare l’idea di trasformare il centro del mondo plurinazionale ottomano in una patria turco-musulmana sovrana, senza alcuna limitazione. Analogamente, la guerra per l’Asia minore del 1919-22 e la costituzione della Repubblica di Turchia fondata nel 1923 perseguono lo stesso obiettivo.

L’idea di una Anatolia come patria nazionale turca (Türk Yurdu) risale alla vigilia della guerra mondiale, proseguita attraverso i komitaji durante la guerra con obiettivi espansionistici, definitivamente frustrati alla fine dell’estate del 1918. Alcuni elementi suggeriscono un paragone alla lontana con i nazionalsocialisti: da una parte la stigmatizzazione di un gruppo appartenente a un’altra religione, che era stata posta su un piano di parità attraverso le riforme del XIX secolo e che aveva acquisito nuovi margini di manovra; e dall’altra l’ideologia nazionalista e socialrivoluzionaria, in particolare il miscuglio di rappresentazioni di un nazionalismo radicale e di un imperialismo irriducibile che contraddistinguono i Giovani Turchi come responsabili del genocidio. I nazionalsocialisti hanno guardato con ammirazione all’efficace revisionismo dell’alleato turco al tempo della guerra mondiale. Hanno compreso il senso del Trattato di Losanna, o meglio hanno voluto intenderlo come una conferma del suo buon esito e come una convalida del genocidio e di ingegneria demografica.