Storie

Egitto. «La rivoluzione continua dentro di noi»

Malgrado si sia conclusa con una chiusura totale dello spazio politico, la rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011 ha contribuito a dare nuovo impulso al profondo cambiamento della società. Nel campo della sfera privata e del cambio di mentalità prosegue una lotta che non ha abbandonato l’idea di influenzare il futuro del paese.

Il Cairo, 4 novembre 2011. “Che”

Una rivoluzione non si limita solo alle manifestazioni politiche o alle proteste pubbliche: è anche l’espressione dei cambiamenti che influiscono sulle nostre vite. Come le battaglie che portiamo avanti in casa, con i nostri genitori, anche quelle sono forme di rivoluzione. La lotta per ottenere i diritti umani è una rivoluzione. Scendere in strada è una rivoluzione. Ci penso a voce alta. Chiedo il suo parere ad Adel1, un attivista quarantacinquenne che lavora nella pubblica amministrazione ad Alessandria. Mi dice che in effetti “la rivoluzione non è fatta solo di scontri sul campo. Il concetto di rivoluzione nella vita delle persone non si limita esclusivamente all’ambito del potere politico, ma si estende fino a includere il rifiuto di molte pratiche personali”. È una teoria che ha un esempio evidente nel modo in cui le persone hanno ridefinito le proprie priorità rispetto alla loro vita quotidiana e privata dopo gli eventi del 2011.

Il 25 gennaio 2011, gli egiziani sono scesi in piazza gridando lo slogan “Pane, libertà, giustizia sociale”. Per 18 giorni, le differenze sociali si sono attenuate e la popolazione si è incontrata intorno a queste tre rivendicazioni. Ma a partire dalle dimissioni di Hosni Mubarak (il 4 febbraio 2011), lo stesso slogan ha assunto un significato diverso per ognuno dei gruppi. Alcune rivendicazioni sono state considerate “elitarie”. C’è stata una divergenza di opinioni sulle priorità da stabilire, su quali diritti rivendicare prima e così la massa ha cominciato a dividersi. Da quel momento, la rivoluzione è stata considerata come una specie di complotto finito in un clamoroso fallimento, e i suoi eroi sono finiti sul banco degli imputati.

Oggi viviamo sotto un regime militare che ha ripristinato la data del 25 gennaio come il giorno della festa nazionale delle forze di polizia, com’era prima del 2011. Ma lo spettro della rivoluzione continua a ossessionare la versione ufficiale di chi è al potere, e le autorità vogliono a tutti i costi impedire una nuova ondata popolare. Certo, in questi casi si può vedere il fallimento della rivoluzione egiziana. Ma resta pur sempre il fatto che è un evento che ha spinto molte persone a portare avanti la lotta in un altro modo, cercando una propria verità. Ognuno conduce la propria rivoluzione in modo che alla fine si possa arrivare a un cambiamento sociale. È una dinamica alla cui origine non c’è lo Stato, è un cambiamento che non vuole arrivare a prendere il potere. Potrebbe tuttavia portare a una disgregazione del sistema, se si pensa alla teoria del pensatore d’orientamento marxista e appartenente al movimento zapatista, John Holloway2.

Gettare i semi di una nuova società

Per comprendere meglio l’impatto sociale di questo processo, è necessario declinare la nozione di potere in un campo diverso da quello della politica in senso stretto - come nel caso del potere patriarcale - per andare oltre la visione riduttiva della rivoluzione, passando da una dimensione collettiva a quella individuale. Come fa giustamente notare Adel: “La rivoluzione ci ha cambiati tutti e tutte”. Mi ha raccontato, ad esempio, che sul piano personale la rivoluzione gli ha permesso di cambiare il suo punto di vista e le sue posizioni sulle identità di genere non binarie. Una differenza che prima non avrebbe mai potuto accettare come cittadino egiziano maschio, appartenente alla classe media, stando alla descrizione che ci dà di sé.

Adel crede che il fatto di togliere il velo sia la prova di un cambiamento nella vita delle donne nel suo ambiente sociale. È convinto, inoltre, che i valori personali siano stati stravolti dalle idee che ha portato la rivoluzione. Il discorso politico islamista, fondato sulla paura e che mirava a scongiurare qualsiasi slancio di emancipazione, in particolare da parte delle donne, è venuto meno con la destituzione del presidente Mohamed Morsi, membro dei Fratelli Musulmani, nel 2013. A giudizio di Dalia, una traduttrice di circa trent’anni, una parte delle donne, a cominciare da lei, ha potuto approfittare del nuovo scenario politico. Ciò non significa che non incontrino alcuna opposizione nel far valere i propri diritti. Ma la minore influenza degli islamisti ha in parte ridotto la stigmatizzazione a cui erano soggette. È lei stessa a spiegarlo: “Almeno oggi, non ci sono più i canali dedicati alla diffusione di discorsi di incitamento all’odio contro di noi, a trattare quelle che non indossano il velo come donne mezze nude, o altre espressioni del genere”.

Dalia spiega che la rivoluzione ha cambiato il corso della sua vita: “Mi ha spinto a ribellarmi e a liberarmi da una serie di costrizioni”. Le chiedo cosa intende dire e lei mi risponde che “non basta liberarsi dalla morsa della famiglia, sia che si tratti di quella che ho creato con mio marito o di quella da cui provengo; ma di tutte le costrizioni, anche nella sfera personale, come quelle legate alla religione”. Dalia non ha preso parte attiva alla rivoluzione, perché il padre di sua figlia – all’epoca suo marito – era contrario. È stato dopo il 2011 che ha cominciato a partecipare sempre più attivamente agli eventi pubblici, ed è così che ha conosciuto Adel. Oggi sono entrambi impegnati in campagne per mettere fine alla violenza contro le donne.

Un cambiamento sociale che Adel vede anche nel suo lavoro: “C’è stata una vera e propria presa di coscienza dopo il 2011. I diritti delle donne sono una delle dimostrazioni di questo cambiamento. La supremazia delle pratiche associate ai valori maschili non è più così opprimente, anche se quei valori sono ancora lì”. Adel fa l’esempio delle molestie, sottolineando che discorsi del tipo “ma chissà che diavolo ha fatto per provocare questa reazione?” adesso cominciano ad essere messi in discussione. Attribuire la responsabilità della violenza alla donna non è più una cosa scontata. C’è meno indifferenza nei confronti delle vittime, maggiore empatia e comprensione per le loro lotte. Alcune persone che prima pensavano che si trattasse di un problema marginale ora capiscono che è, al contrario, un tema centrale. Adel ammette apertamente che il cambiamento per ora non è stato così rilevante, però c’è stato.

«Estensione del dominio della lotta»

Adel e Dalia portano avanti per quanto possibile le loro attività di sensibilizzazione nel campo dei diritti delle donne e dei minori oltre a quello dell’ambiente. Adel la chiama la “battaglia della consapevolezza”. È convinto che chi la porta avanti debba essere consapevole che il cambiamento non avverrà dall’oggi al domani e che ciò che conta oggi è cambiare le cose, aprire nuovi spazi, senza pensare troppo all’impatto a lungo termine.

Se alla fine si verificherà un cambiamento politico, il fatto di aver mantenuto la capacità di comunicare e condurre un’attività collettiva sarà la migliore garanzia della loro capacità d’azione quando sarà il momento. Non si può far nulla quindi senza l’impegno di chi opera sul campo, delle persone che lavorano, che hanno esperienza e competenze. Adel aggiunge:

Finché continueremo a lavorare oggi, saremo in grado di affrontare la situazione di domani, qualunque sia il nostro agire. Questo ci costringe ad aggirare i vincoli, per poter passare da un campo d’azione limitato a uno spazio di possibilità. Se capiamo che la nostra capacità di azione nella lotta alla violenza contro le donne è troppo limitato, ci sposteremo sui diritti dei minori. E se anche lì non ci sarà più spazio di manovra, ci occuperemo della questione ambientale. Ogni percorso finisce per andare nella stessa direzione, contribuendo alla stessa battaglia.

Il concetto di lotta espresso da Adel è in linea con la visione del sociologo e studioso del Vicino Oriente Asef Bayat, che sostiene che la rivoluzione sia più di un semplice cambio di regime o di una riforma dello Stato. La questione è trasformare lo Stato favorendo la nascita di un nuovo ordine sociale, globale ed egualitario. La teoria di Bayat si basa sulla visione politica del filosofo marxista Antonio Gramsci, convinto che un simile progetto potesse essere realizzato anche negli Stati autoritari e nelle economie neoliberiste. Per Bayat, il primo passo è costruire ciò che definisce una “cittadinanza attiva”, che richiede il coraggio e la creatività necessari per affermare una volontà collettiva, contro ogni previsione, aggirando le restrizioni, utilizzando ogni strumento a disposizione e scoprendo nuovi spazi per far sentire la propria voce.

Altri sono in disaccordo con questa visione e ritengono che “il cambiamento politico che ha fatto seguito alla rivoluzione in Egitto non ha portato il previsto cambiamento sociale radicale, creando un senso di frustrazione generale. Senza un tentativo radicale di affrontare le cause profonde che frenano lo sviluppo sociale, il conflitto civile è destinato a rimanere tale, a scapito della stabilità politica”3. D’altra parte, il sentimento di frustrazione, l’assenza di soluzioni reali ai problemi sociali e lo stallo politico hanno portato sempre più persone ad estendere il concetto di rivoluzione alla propria vita personale, tant’era urgente la necessità del cambiamento. Ciò dimostra chiaramente che anche le esperienze più dolorose e i fallimenti politici più clamorosi possono portare alla consapevolezza dell’importanza di quella che la scrittrice siriana Samar Yazbek definisce la necessità di “riempire il vuoto”. È questa, infatti, per lei l’azione politica più utile, in un contesto di guerra e frammentazione.

I piccoli ruscelli formeranno grandi fiumi

Anche Adel condivide quest’analisi. A suo giudizio, la volontà di cambiamento e di azione è stata fortemente auspicata durante il momento rivoluzionario. Ma quando si sono resei conto che alla fine tutto ciò aveva portato a un peggioramento generale, le persone hanno capito che un cambiamento radicale non era accessibile. Questo, tuttavia, non ha impedito il cambiamento in sé. Al contrario, questa constatazione ha creato una forma di convergenza tra chi all’inizio aveva posizioni molto diverse. Adel ha notato che alcune persone molto radicali sono diventate più aperte, mentre altre che in precedenza erano molto passive – chiamate ironicamente “il partito del divano”4 – hanno cominciato a mettersi in gioco. Cita, ad esempio, un suo amico che ha deciso di occuparsi della terapia contraccettiva nella relazione, per essere coerente con la presa di coscienza femminista che era avvenuta in lui dopo la rivoluzione. Non vuole più che l’onere delle cure contraccettive ricada esclusivamente sulla sua compagna, a scapito della sua salute, e vuole assumersi personalmente la corresponsabilità nella scelta di non avere figli. Secondo Adel “questo genere di cose non sarebbe mai potuto accadere prima del 2011, era persino impossibile da immaginare”.

È convinto, inoltre, che siano avvenuti grandi cambiamenti nelle posizioni di alcune correnti politiche. Spiega che “i nasseriani avevano l’abitudine di trattare i nubiani5 come degli scomunicati e contestavano il loro diritto a reclamare qualsiasi cosa. Ma negli ultimi anni, alcuni hanno cominciato a riconoscere la causa dei nubiani e il loro diritto alla giustizia”. Cita, ad esempio, anche la desacralizzazione di molti concetti o figure.

Secondo la nozione di cittadinanza attiva di Bayat “possiamo criticare alcune pratiche rivoluzionarie e riconsiderare ciò che stiamo facendo ora, per vedere globalmente come si sono svolti gli eventi, non su scala ridotta o a breve termine, ma a lungo termine e con quale impatto generale, per non fermarsi solo alla sfera individuale”. Il caso di Dalia è doppiamente significativo per l’impatto che la rivoluzione ha avuto sulla vita degli individui e in un contesto più globale, come aveva previsto Bayat. Lo vediamo sia nel suo coinvolgimento nella sfera pubblica al fianco di Adel, sia nell’educazione che oggi dà a sua figlia.

Prima della rivoluzione, Dalia desiderava liberarsi dalle restrizioni che le erano state imposte. Il 25 gennaio le è parso di dare un impulso iniziale, che le avrebbe permesso di andare più in là. “Sentivo di avere un ruolo da svolgere nella vita e nella sfera pubblica, anche se non sapevo ancora quale fosse esattamente quel ruolo”, ricorda. Ha cominciato a pensare a come sentirsi realizzata, anche se non aveva ancora la libertà necessaria per farlo. Così ha deciso di sbarazzarsi dei vincoli che le impedivano di scoprire chi fosse veramente. È stata la sua prima realizzazione. Ci è riuscita separandosi da suo marito, poi dalla sua famiglia. “La mia battaglia con loro è durata tre o quattro anni”. Il suo principale obiettivo era quello che nessuno interferisse nella sua vita, e che nessuno avesse autorità su di lei o potesse giudicarla in alcun modo. “Non è stata una battaglia facile. È stato un viaggio fatto di prove spirituali e politiche. Ho provato a rispondere a domande del tipo: con chi voglio combattere? A quale gruppo appartengo?”.

Un cambio di paradigma

Dopo aver lavorato per anni come dipendente pubblica, un impiego che ha ottenuto grazie alla laurea, Dalia si è liberata di quest’altro vincolo rassegnando le dimissioni. “È così”, fa un grande sospiro, tornando indietro di dieci anni. E aggiunge: “All’epoca non capivo me stessa, non sapevo chi ero. Mi sentivo completamente in trappola”. Quando le chiedo quale impatto ha avuto questo cambiamento sull’educazione di sua figlia e sul suo rapporto con lei, si ferma un attimo, riflette, mi guarda negli occhi e poi mi dice:

È una cosa complicata... non so se c’è un legame tra quello che sto per dire e la rivoluzione, ma la libertà che ho guadagnato mi ha aiutata a liberarmi di una grande rabbia che sentivo dentro di me, per la sensazione che avevo di essere sotto assedio. Questa rabbia non è scomparsa del tutto, ma quando ho preso in mano la mia vita, sono diventata più calma. Com’è ovvio il corso che sta prendendo la mia vita influenza anche il rapporto con mia figlia, che si tratti della mia rabbia o di attacchi di depressione, della mia ritrovata calma o della mia indipendenza. È anche per lei che ho cercato di fare un lavoro su me stessa, di prendere coscienza di tutto questo. Tra di noi si è creato un legame d’amicizia e anche il nostro rapporto è migliorato.

E se non fosse cambiata? Se non fosse stata influenzata da tutto quello che ha vissuto? “Probabilmente la starei educando secondo lo schema che ho ereditato. Le urlerei contro e le imporrei il mio punto di vista. Mi metterei a controllare tutto e farei ciò che mi sembra giusto senza ascoltare il suo punto di vista. Insomma, l’esatto contrario di quello che faccio adesso”.

È vero che la situazione politica nel paese non può che rimandare a un oscuramento, per dirla con le parole di Bayat. Ma la cosa si limita al vertice della piramide, vale a dire gli Stati, i sistemi e le forme di governo, che non sono molto cambiati da quello che erano prima delle rivoluzioni. Diversa è la valutazione di Bayat quando parliamo di ciò che lui definisce “la base inferiore”, ossia il mondo sociale e le soggettività popolari di cui fanno parte le donne, i giovani, le minoranze e gli altri gruppi, su cui si dimostra ottimista quanto alle possibilità di un futuro democratico. Ciò traspare chiaramente dalla storia di Dalia e di molti altri.

Nel 2019, ho analizzato i post di un centinaio di persone che hanno preso parte alla commemorazione della rivoluzione. L’analisi mirava allo studio dell’evoluzione della loro vita e al loro atteggiamento verso quell’evento. Un quarto dei partecipanti ha scelto di ricordare l’avvento della rivoluzione raccontando l’impatto che ha avuto sulla sfera pubblica, ma anche su quella personale, mentre i restanti hanno ricordato le diverse fasi da un punto di vista storico, condividendo alcune citazioni. Ma le differenze non erano così evidenti, perché l’84% dei partecipanti aveva sentimenti positivi verso la rivoluzione e il 90% non si pentiva di avervi preso parte. Per il 40% di loro, l’obiettivo era quello di mettere in luce “la grandezza della rivoluzione” come l’evento più importante della loro vita, ma anche dell’intero paese, mentre il 13% lo considerava come un motore di cambiamento sia sul piano pubblico che privato, che ha portato ad una trasformazione dei ruoli e delle idee. Infine, il 7% delle donne ha ricordato una “reciproca influenza” tra loro e la rivoluzione, e il ruolo che ha avuto nella loro presa di coscienza.

Per Dalia, nonostante tutto quello che è successo a livello politico e la sconfitta della rivoluzione, c’è un punto in comune tra i gruppi e gli individui che vi hanno preso parte: tutti credono nella rivoluzione come idea, con tutti i valori che ha portato con sé, tra cui quello principale: la libertà. E dice a bassa voce:

In un certo modo ci capiamo. Crediamo nella libertà personale, è questo il motivo per cui le persone sono uscite in strada e si sono ribellate. Certo, non abbiamo realizzato tutto quello che sognavamo. Ma ciò non cancella in alcun modo il cambiamento che è avvenuto dentro di noi e nella società. E credo che sia stato meglio così.

1Tutti i nomi sono di fantasia

2John Holloway è un sociologo, filosofo, giurista, saggista ed accademico irlandese, di orientamento marxista operaista, i cui lavori sono strettamente associati al movimento neo-zapatista in Messico, dove risiede stabilmente dal 1991. Nel suo libro, Cambiare il mondo senza prendere il potere, sostiene che la possibilità di rivoluzione risieda non nella presa del controllo degli apparati di Stato, ma in atti quotidiani di rifiuto sdegnato della società capitalista – il cosiddetto contropotere, o l’urlo come lo definisce Holloway. Ndt

4Il termine è comparso in Egitto all’indomani della rivoluzione del 2011 per definire quelli/e che non si erano mobilitati sul campo, commentando gli eventi direttamente dal proprio divano. Ndr

5I nubiani sono un gruppo etnolinguistico autoctono della regione della Nubia, divisa fra il Nord del Sudan e il sud dell’Egitto. Attualmente vivono in quella che viene chiamata la Vecchia Nubia, situata principalmente nel moderno Egitto. I nubiani sono stati reinsediati in gran numero (circa 50.000 persone) lontano dal sud dell’Egitto dagli anni ’60, quando la Diga di Aswan fu costruita sul Nilo, inondando le loro terre ancestrali. Ndt