Palestina

Abu Mazen. All’ombra di Israele, un potere obsoleto e autoritario

Con la creazione di un nuovo organismo per rafforzare il proprio controllo sulla magistratura palestinese, il presidente Mahmoud Abbas sta portando avanti la sua linea repressiva, mantenendo inalterati gli Accordi di Oslo. In tal modo, si oppone a qualsiasi rinascita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, facendo il gioco dell’occupazione.

Mahmoud Abbas alla 77a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 20 settembre 2022
Anna Moneymaker/Getty Images North America via AFP

© Haaretz

Sono due i provvedimenti che ha adottato di recente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e il suo presidente, Mahmoud Abbas. Il primo riguarda il sistema giudiziario palestinese; il secondo l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Provvedimenti che in apparenza non sono correlati tra di loro, ma che, tuttavia, rivelano la natura sempre più autoritaria e autocratica del regime nei territori palestinesi della Cisgiordania. I due decreti mostrano anche quanto l’Autorità Palestinese tenga fede al ruolo che le è stato sostanzialmente assegnato dagli Accordi di Oslo: mantenere uno status quo instabile e precario a scapito dei palestinesi, tutelando gli interessi di sicurezza d’Israele.

Un controllo totale sulla giustizia

Il primo provvedimento è stato un decreto presidenziale, firmato da Abbas il 28 ottobre, che annunciava la creazione di un Consiglio supremo degli organi e delle sedi giudiziarie. Un Consiglio che ha l’obiettivo dichiarato di discutere progetti di legge relativi al sistema giudiziario, risolvere i problemi amministrativi che ne derivano e supervisionare il sistema giudiziario in generale, presieduto nientemeno che... dal presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, che è anche presidente dell’OLP e di Fatah. Gli altri membri sono i presidenti della Corte costituzionale, della Corte suprema, della Corte di cassazione, della Corte suprema amministrativa, dei tribunali militari e del tribunale della sharia. A farne parte ci saranno anche il ministro della Giustizia, il Procuratore generale e il Consigliere giuridico del presidente. Il Consiglio dovrebbe riunirsi una volta al mese.

Giuristi palestinesi e organizzazioni in difesa dei diritti umani hanno manifestato la forte opposizione al nuovo Consiglio supremo, sostenendo che va contro il principio della separazione dei poteri – legislativo, giudiziario ed esecutivo – e viola diversi articoli della Legge fondamentale palestinese e delle convenzioni internazionali di cui l’ANP è firmataria. Secondo le dichiarazioni di esperti e organizzazioni, questa è solo l’ultima di una serie di decisioni che hanno spostato l’autorità legislativa verso il potere esecutivo e sul suo leader, minando l’indipendenza della magistratura e subordinandola ad Abbas e ai suoi fedelissimi.

Subito dopo la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del 2006, Abbas e Fatah hanno impedito al Consiglio legislativo palestinese di riunirsi regolarmente e di svolgere i suoi compiti. Al principio, la colpa è stata attribuita agli arresti israeliani di molti rappresentati di Hamas, nonché al mancato raggiungimento del quorum per l’approvazione delle norme legislative. Ma, dopo la breve guerra civile tra Hamas e Fatah scoppiata a Gaza nel giugno 2007 e la conseguente divisione del governo palestinese tra due regioni [Cisgiordania e Gaza] e due organizzazioni (Fatah e Hamas), il Parlamento palestinese ha ufficialmente smesso di funzionare. Tuttavia, i rappresentanti di Hamas a Gaza hanno continuato e continuano a riunirsi come Consiglio legislativo e ad approvare leggi che si applicano solo a Gaza. In Cisgiordania, d’altra parte, la legge è ridotta all’emanazione di decreti presidenziali. Negli ultimi 15 anni, Abbas ha firmato circa 350 decreti – molti più degli 80 testi di legge discussi e approvati dal primo Consiglio legislativo durante il suo decennio di effettiva esistenza, dal 1996 al 2006. Abbas fa leva su un’interpretazione molto ampia dell’articolo 43 della Legge fondamentale palestinese, emendata nel 2003, che conferisce a un decreto presidenziale il potere di legge solo “in caso di necessità che non può essere rinviata fino a quando il Consiglio legislativo non si riunisce”.

Fino al 2018, alcuni parlamentari della Cisgiordania hanno continuato a riunirsi in via ufficiosa, tentando di partecipare alle discussioni sui “disegni di legge” dibattuti nell’esecutivo per rappresentare l’opinione pubblica davanti alle autorità. Ma in quello stesso anno, in base alle istruzioni di Abbas, la Corte costituzionale ha decretato lo scioglimento del Consiglio legislativo, nonostante la Legge fondamentale stabilisca che il suo mandato può considerarsi concluso solo con nuove elezioni. Secondo la Legge fondamentale, in caso di morte, il presidente dell’Autorità Palestinese dev’essere sostituito dal presidente del Parlamento. Un incarico detenuto a quella epoca dal rappresentante di Hamas a Hebron, Aziz Dweik. È opinione diffusa che, con lo scioglimento del Parlamento, Abbas e i suoi alleati volessero scongiurare in via preventiva un simile scenario. Sebbene all’epoca la Corte costituzionale avesse ordinato di indire nuove elezioni entro sei mesi, Abbas e i suoi seguaci sono sempre riusciti a rinviarle, e da allora le cose sono andate avanti sempre così.

Preparare una successione accettata dagli occupanti

Abbas ha sempre più voce in capitolo nel processo di nomina dei giudici, con l’obiettivo di garantire la loro lealtà sia a lui che a Fatah. Per di più, il potere esecutivo che controlla, spesso non rispetta le decisioni indipendenti dei giudici, come ad esempio l’ordine di rilasciare i detenuti senza processo, o quello di riprendere il pagamento delle retribuzioni e delle varie indennità ai suoi rivali politici. Il ministro della Giustizia palestinese Mohammed Al-Shalaldeh ha promesso che il nuovo Consiglio supremo della Magistratura non intende attentare alla sua indipendenza. Ma l’esperienza dell’Egitto – fonte d’ispirazione per gli autori del decreto presidenziale palestinese – dimostra che è vero l’esatto opposto. Fu il presidente Gamal Abdel Nasser nel 1969 a creare un Consiglio supremo che sovrintendeva al sistema giudiziario egiziano. Negli anni 2000, grazie agli sforzi delle organizzazioni per i diritti umani e dei giuristi, il potere del Consiglio supremo si è ridotto, ma l’attuale presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi gli ha concesso un’autorità ancora più ampia e invasiva rispetto al passato.

In un’intervista al quotidianoHaaretz, alcuni avvocati delle Ong ritengono che una delle ipotesi della creazione di questo Consiglio sarebbe quella di contrastare la possibile opposizione legale – attraverso la Corte costituzionale – alla nomina di Hussein al-Sheikh come nuovo presidente dell’Autorità Palestinese. Proveniente da una famiglia di rifugiati che ha acquisito col tempo una certa agiatezza grazie a varie imprese e società a Ramallah, al-Sheikh è uno dei leader di Fatah più vicini ad Abbas – nonché a Israele. Per quasi 15 anni, è stato l’uomo che ha gestito i rapporti con le autorità israeliane. Oggi è a capo del ministero degli Affari civili palestinese, subordinato al COGAT, l’unità di coordinamento del ministero della Difesa israeliano per le attività governative nei territori palestinesi occupati. Nel maggio 2022, Abbas lo ha nominato segretario generale del Comitato esecutivo dell’OLP al posto del defunto Saeb Erekat [ex negoziatore capo dell’OLP nelle trattative con Israele, deceduto a causa del Covid nel novembre 2020]. In quest’altra veste, al-Sheikh è quindi anche a capo del dipartimento dei negoziati dell’OLP. Tra i palestinesi, sono in molti a credere che la sua nomina a prossimo presidente dell’Autorità Palestinese sarebbe molto gradita a Israele.

Far rinascere l’OLP

Il secondo provvedimento adottato di recente dall’Autorità Palestinese è stato quello di impedire lo svolgimento a Ramallah della Conferenza del popolo palestinese “14 milioni” (così chiamata per il numero di palestinesi rifugiati nel mondo). L’idea alla base della conferenza era quella di riabilitare l’OLP, in primo luogo con elezioni aperte a tutti i palestinesi della diaspora e dell’intero territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo per poter votare un nuovo Consiglio nazionale palestinese (PNC, il Parlamento storico dell’OLP). L’incontro si sarebbe dovuto tenere il 5 novembre presso il Centro culturale di Ramallah, in Giordania e in diverse città d’Europa e del Sud America. Secondo i suoi organizzatori, l’OLP, l’organismo che dovrebbe rappresentare i palestinesi nel mondo ed essere il fondamento della loro autorità politica e ideologica, è stata sostanzialmente fagocitata dall’ANP, dalla presidenza di Abbas e dal partito Fatah. Il suo finanziamento dipende dall’Autorità Palestinese, le sue istituzioni sono state private di ogni contenuto, e Abbas controlla le date delle sue riunioni e la nomina dei suoi rappresentanti.

Secondo gli organizzatori della Conferenza, che si dichiarano contrari agli Accordi di Oslo (alcuni di loro la chiamano la “seconda Nakba”), solo un’OLP riorganizzata e democratica, che “non funga da subcontraente di Israele”, può e deve sviluppare una strategia per combattere l’apartheid e il colonialismo israeliani, ed essere quindi motivo di speranza per tutto il popolo. I suoi organizzatori sono ancora o sono stati associati ai vari gruppi palestinesi che compongono l’OLP – da Fatah alle organizzazioni di sinistra – e altri sono indipendenti.

Ma, all’inizio di novembre, gli organizzatori della Conferenza hanno avuto la spiacevole sorpresa da parte dell’amministrazione di Ramallah che gli organi di sicurezza palestinesi ne avevano vietato lo svolgimento. In seguito, hanno vietato al comune di al-Bireh, cittadina confinante con Ramallah, di assegnare una sede agli organizzatori per tenere una conferenza stampa. Nonostante le difficoltà, gli organizzatori hanno deciso che la Conferenza si sarebbe svolta come previsto su Zoom e su Facebook, e che i partecipanti di Ramallah avrebbero parlato dagli uffici della Coalizione del popolo palestinese – un’organizzazione relativamente nuova composta principalmente da attivisti politici di lungo corso. La mattina di sabato 5 novembre, le forze di sicurezza palestinesi, alcune in borghese, schierate in gran numero vicino all’edificio dove si trovano gli uffici della coalizione, hanno consigliato alla gente di non entrare. E lì hanno arrestato il vecchio attivista Omar Assaf, detenuto per diverse ore.

Tuttavia, in molti sono riusciti a tenere i loro interventi su Facebook. I relatori hanno scelto di concentrarsi su una serie di punti: una dura critica all’Autorità Palestinese e al suo coordinamento di sicurezza con Israele; un invito all’azione basato sulla Carta nazionale palestinese del 1968, cancellata in parte nel 1990 a seguito di pressioni israeliane e statunitensi; e la richiesta di concretizzare il diritto al ritorno. Tutte richieste che avevano in comune il fatto di sottolineare l’importanza di elezioni generali democratiche al fine di creare un governo eletto che rappresenti l’intero popolo palestinese, sia nella Palestina storica, da una parte e dall’altra della “Linea Verde” (confine israeliano dal 1949 al 1967), sia in tutti i luoghi della diaspora.

L’idea di organizzare elezioni dirette per un Parlamento pan-palestinese nel quadro di una rinnovata OLP viene suggerita da oltre un decennio da attivisti palestinesi di varie organizzazioni in tutto il mondo, e gli organizzatori della Conferenza hanno sottolineato che l’OLP, sotto il controllo di Abbas, li ha invece sistematicamente ignorati. Per mostrare ancora una volta quanto Abbas e i suoi uomini siano contrari all’idea di rilanciare l’OLP, le forze di sicurezza palestinesi hanno fatto irruzione la mattina dell’8 novembre negli uffici di Ramallah del Bisan Research and Development Center, una delle 6 Ong palestinesi che Israele ha dichiarato “terroriste” a fine ottobre 2021, interrompendo la conferenza stampa degli organizzatori della Conferenza.

Impedire le nuove elezioni

In questa fase, ripristinare l’OLP come organo d’autorità e garante del processo decisionale sembra tutt’altro che realizzabile. Né è chiaro quale sostegno potrebbe avere una simile iniziativa da parte dei giovani palestinesi che non hanno mai conosciuto l’OLP com’era un tempo, un’organizzazione percepita dalla popolazione rifugiata come il loro principale rappresentante politico e nazionale, oltre ad essere motivo d’orgoglio. Ed è troppo presto per sapere se e come Hamas e la Jihad islamica saranno incluse in questo processo. D’altra parte, questi giovani potrebbero essere entusiasti della prospettiva di poter avere delle elezioni politiche per formare un’organizzazione pan-palestinese che vada al di là dei confini di Gaza e della Cisgiordania. Gli organizzatori della Conferenza “14 milioni” affermano apertamente che l’attuale leadership, non eletta e antidemocratica, non è rappresentativa ed è incapace di affrontare i pericoli causati dalle politiche israeliane.

I provvedimenti adottati dall’Autorità Palestinese per soffocare quest’iniziativa riflettono, da parte dell’attuale leadership, il timore dell’impopolarità rispetto a elezioni per ora solo invocate, ma sottolineano anche la volontà di evitare di discutere se gli Accordi di Oslo non abbiano fatto che peggiorare la situazione per i palestinesi. Un modus operandi che dimostra la ferma volontà di mantenere i privilegi materiali e lo status acquisito dall’ANP e dalla sua cerchia. Al contrario, l’iniziativa di ricostruire l’OLP aspira a superare la disgregazione geografica, sociale e politica dei palestinesi. Una disgregazione che riflette anche uno dei più importanti successi politici della politica israeliana negli ultimi trent’anni. Quanto all’operato repressivo dell’Autorità Palestinese, sono azioni che costituiscono un aiuto diretto a preservare i successi israeliani.

©Haaretz