Sonallah Ibrahim. La finzione come ricerca della verità
Critico verso il capitalismo e l’egemonia dell’Occidente, comunista nell’Egitto di Gamal Abdel Nasser, di cui frequenta le carceri, acuto osservatore della società, Sonallah Ibrahim ha segnato la letteratura araba con il suo stile asciutto, incarnando molto presto l’avanguardia. È morto il 13 agosto all’età di 88 anni.
Lo scrittore egiziano Sonallah Ibrahim ci ha lasciati il mese scorso, dopo una carriera letteraria lunga cinque decenni, che lo ha consacrato come una delle personificazioni più riuscite dell’ideale della repubblica araba delle lettere. Rappresentava una letteratura pura e al tempo stesso impegnata, pronta a sperimentare tutti gli strumenti sviluppati dalla narrativa moderna, purché assecondassero l’aspirazione dello scrittore, ovvero dire la verità alla società, in un contesto in cui dire la verità è un atto politico, un appello al cambiamento. Se molti altri hanno incarnato questo ideale, ciascuno a modo suo, Sonallah Ibrahim occupa un posto singolare nel panorama letterario arabo perché ha sempre cercato di essergli fedele nel suo modo di vivere e nelle sue scelte lavorative, a un livello tale che pochi suoi colleghi hanno voluto o potuto seguirlo.
Nel contesto egiziano, ciò ha comportato una serie di scelte difficili, come quella di evitare il più possibile qualsiasi compromesso con le potenze esterne che intaccano la libertà creativa. Sonallah Ibrahim non ha mai ricoperto cariche pubbliche, a eccezione dei due anni (1966-1968) in cui è stato giornalista per Middle East News Agency, l’agenzia di stampa nazionale; fatto rarissimo nel mondo letterario egiziano e arabo, si è sempre tenuto lontano dall’editoria e dalla stampa controllate dallo Stato (egiziano o di altri Paesi arabi), con rare eccezioni, come le opere da lui scritte negli anni Settanta per Dar Al-Fata Al-Arabi, casa editrice per ragazzi fondata da intellettuali palestinesi con il sostegno dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Queste scelte, dettate dalla volontà di preservare la sua autonomia, lo portano a rinunciare alle risorse di solito percepite dagli scrittori arabi e, non potendo sperare in un reddito sufficiente proveniente dalla vendita dei suoi libri, si impone uno stile di vita frugale, in contrasto con le convenzioni sociali egiziane secondo cui il marito è il principale sostentatore della famiglia.
L’intellettuale emarginato
Come direbbe il sociologo francese Pierre Bourdieu, la traiettoria di Sonallah Ibrahim è una straordinaria espressione della ricerca di autonomia dello scrittore1, nonché uno degli esempi più significativi, nel panorama letterario egiziano contemporaneo, della regola d’oro del gioco del “chi perde vince”: perdere in termini di guadagni materiali significa vincere simbolicamente, ovvero ottenere il riconoscimento di una cerchia ristretta, quella dei colleghi e di tutti coloro, critici e lettori, che hanno a cuore l’autonomia dello scrittore.
Il culmine di tutto ciò è senza dubbio quel giorno dell’ottobre 2003 in cui rifiuta il Premio Cairo per il miglior romanzo (e l’assegno che lo accompagna) conferitogli dall’allora ministro egiziano della Cultura Farouk Hosni. Nel compiere il suo gesto con un discorso clamoroso pronunciato durante la cerimonia stessa in cui avrebbe dovuto ricevere il premio, Sonallah Ibrahim acquista un notevole prestigio morale, non solo tra i suoi colleghi ma anche tra molti suoi connazionali, tant’è che questo gesto sarà visto retrospettivamente, dopo la rivoluzione di piazza Tahrir, come uno dei primi chiodi piantati nella bara del regime di Mubarak (1981-2011).
Questo filone era stato inaugurato nel 1966 da Quell’odore2, un romanzo molto breve censurato subito dopo la sua pubblicazione e diventato rapidamente un testo cult della nuova avanguardia letteraria egiziana, quella “generazione degli anni Sessanta” che, sulla scia di Nagib Mahfuz (1911-2006) e Yusuf Idris (1927-1991), ha fatto entrare la narrativa araba a pieno titolo nella modernità letteraria. Quell’odore, scritto a partire dal diario tenuto all’epoca da Sonallah Ibrahim, è una sorta di autofiction il cui narratore, un giovane come lui appena uscito di prigione, descrive le sue frustrazioni attraverso una “scrittura bianca”3, totalmente nuova nella narrativa araba.
Per comprendere la genesi di questo testo rivoluzionario, occorre tornare alla biografia del suo autore e alla sua storia familiare molto particolare, che riecheggerà quarant’anni dopo in un’opera struggente, anch’essa un’autofiction, dal titolo Al-Talassus.
Sonallah Ibrahim è nato dal secondo matrimonio di suo padre con l’infermiera – quarant’anni più giovane di lui – assunta per prendersi cura della prima moglie. Da questa nascita inaspettata deriverebbe il suo nome originale, Son’ Allah, “opera di dio”. Purtroppo, la giovane donna sarà ben presto internata in un ospedale psichiatrico e Sonallah viene cresciuto dal padre, un funzionario in pensione ormai povero, che gli trametterà l’amore per la lettura.
Queste circostanze, nel contesto storico del secondo dopoguerra, forgeranno un adolescente ribelle, appassionato di letteratura e politicizzato fin da giovane. A diciott’anni, rimasto orfano di padre, abbandona gli studi per militare a tempo pieno (e clandestinamente) nel Partito comunista egiziano. Pur appoggiando Nasser, i comunisti vengono repressi dal regime, che non tollera alcun pluralismo politico. Il 1° gennaio 1959 viene arrestato insieme ad alcune centinaia di altri compagni. Rimarrà in carcere fino alla primavera del ’64. È durante questi anni di prigione, che egli paragona a una vera e propria università, che decide di lasciare la politica, senza però rinnegare le sue idee, e di diventare scrittore.
Quell’odore si apre con una citazione di James Joyce: “Sono il prodotto di questa razza, di questo Paese, di questa vita, e mi esprimerò così come sono” (Ritratto dell’artista da giovane, 1916). In molti romanzi di Ibrahim ritroviamo questa connessione intima tra ricerca individuale e ricerca della verità sociale, entrambe espresse senza veli né fronzoli. In Najmat Aghustus (non tradotto) nel 1974, La commissione4 nel 1981 e Bayrut Bayrut (non tradotto) nel 1984, queste ricerche sono quelle di un narratore in prima persona che assomiglia all’autore: un giovane intellettuale impegnato in un tentativo di comprensione del mondo presentatoci in modo tale da suggerire che la sua posizione, quella dell’intellettuale emarginato, senza legami né alleanze, è l’unica che permetta di svelare il funzionamento dei poteri economici, politici e ideologici, rivelandone al tempo stesso la collusione senza i filtri a cui devono sottostare gli altri intellettuali, essendo la loro parola soggetta a vari vincoli. Gli sforzi di questi narratori non vanno mai completamente a buon fine: raccolgono spezzoni di discorsi, frammenti di verità, che costellano la finzione narrativa sotto forma di collage di documenti o pseudo-documenti, ma non riescono a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle. Ciononostante, si collocano nella migliore posizione per farlo, restando ai margini o al di fuori di questi apparati.
Questi tre romanzi, insieme alla pubblicazione nel 1987 della prima edizione non censurata e non espurgata di Quell’odore, hanno consacrato Sonallah Ibrahim come membro eminente dell’avanguardia letteraria egiziana e araba. L’intellettuale emarginato alle prese con le insidie e le persecuzioni del potere è ormai uno scrittore all’apice della sua arte e della sua carriera.
Lo scrittore consacrato
La padronanza della sua scrittura traspare dai romanzi scritti negli anni Novanta: Le stagioni di Zhat5, Sharaf (non tradotto) e Warda6. Sebbene molto diversi tra loro, formano una specie di trilogia, come indica il titolo corrispondente al nome dei rispettivi protagonisti, nomi scelti con cura per il loro significato.
Nelle Stagioni di Zhat, capolavoro di ironia e umorismo nero, il narratore onnisciente instaura una distanza massima tra la sua eroina, personaggio tanto banale quanto mediocre, e se stesso. È come se, inventando questo alter ego derisorio7, Ibrahim fosse finalmente riuscito non solo ad accettare pienamente la sua emarginazione sociale, ma anche a farne lo strumento per eccellenza del suo programma di comprensione del mondo.
A tal fine, porta a un alto grado di perfezionamento la sua tecnica del collage di ritagli di giornale già utilizzata in precedenza. La realtà così come viene presentata dalla stampa egiziana appare contraddittoria, soggetta a narrazioni incomplete e conflittuali, ma, selezionando e disponendo i ritagli di giornale, Sonallah Ibrahim fornisce al suo lettore le chiavi per comprenderla, ponendosi nello stesso tempo in una posizione sovrana: quella di chi è in grado di dare un senso a tutto ciò, di costruire un quadro enciclopedico dell’Egitto degli anni Ottanta. Al narratore onnisciente delle Stagioni di Zhat corrisponde un autore onnisciente, uno scrittore al culmine delle sue capacità, che ci regala uno dei più bei successi della narrativa araba contemporanea.
In Sharaf, il protagonista è, come Zhat, un individuo comune senza spigoli, condannato a una pesante pena detentiva per aver difeso il proprio “onore” (questo il significato del nome Sharaf in arabo). Il romanzo è ambientato quasi interamente in carcere, che l’autore costruisce come lo specchio rovesciato di una società consumata dalla corruzione. E sebbene l’ambiente carcerario che descrive sia, sulla base di una reale indagine etnografica, quello degli anni di Mubarak e non quello che ha conosciuto sotto Nasser, la sua esperienza si ritrova espressa in vari modi, in particolare attraverso l’altro protagonista del romanzo, Ramzi Boutros, dirigente di una multinazionale farmaceutica, incastrato dai suoi superiori per aver tentato di denunciare le pratiche corrotte dell’azienda in Egitto.
Ultimo capitolo di questa trilogia, Warda è anche il primo in cui Ibrahim ci presenta un eroe positivo, o meglio un’eroina: Warda, la “rosa” della rivoluzione, leader (fittizia) della guerra del Dhofar, che sconvolse il Sultanato dell’Oman negli anni Sessanta e Settanta. La narrazione oscilla tra il 1992, momento in cui il narratore, un intellettuale egiziano, soggiorna a Mascate, e l’epoca di Warda, fornendo all’autore l’occasione per rendere un bell’omaggio ai suoi ideali di gioventù, oltre che per interrogarsi sulle cause del fallimento del sogno rivoluzionario degli anni Sessanta e sulle condizioni in cui versa il mondo arabo dopo la Guerra del Golfo.
Proprio come Warda è ispirato a un soggiorno di Sonallah Ibrahim in Oman, molti dei suoi romanzi successivi sono basati sui suoi viaggi in diversi Paesi. Amrikanli (non tradotto), nato dal suo soggiorno come professore ospite a Berkeley alla fine dei Novanta, avrebbe potuto intitolarsi “il declino dell’impero americano”, mentre Al-jlid (non tradotto), scritto a partire dal suo diario di studente all’Istituto di cinematografia di Mosca tra il 1971 e il 1974, abbozza un quadro poco indulgente del “socialismo reale”. Al di là del grande valore documentario di tutti questi romanzi, una costante della scrittura di Sonallah Ibrahim è il suo modo esteriore, privo di ogni giudizio morale e di ogni tabù, di descrivere l’intimità dei suoi personaggi. Anche da questo punto di vista, è rimasto per tutta la vita fedele ai suoi ideali di gioventù.