Egitto. Da Mubarak a al-Sisi o della resistenza come eredità

Nella famiglia Seif, l’opposizione alla dittatura è una disciplina che si pratica di padre in figlio e di madre in figlia. Dieci anni dopo la rivolta popolare del 2011, i Seif continuano ad essere nel mirino del potere

Giza, il 17 maggio 2019. Mona, Alaa Abdel Fattah Seif con la madre Laila Soueif
Khaled Desouki/AFP

La vita di Mona Seif, 34 anni, ruota attorno ad una visita settimanale. “Ogni mercoledì portiamo la tableya, cioè tutto quello che si porta ad un parente in carcere, ma senza poterlo vedere”, spiega la giovane donna, che ha la sorella, Sanaa, e il fratello, il blogger Alaa Abdel Fattah, in carcere. È nel bel mezzo dei preparativi nell’appartamento di famiglia a Doqqi, un quartiere del centro del Cairo. “Io mi occupo di Sanaa nel carcere di Qanater, e la mamma si prende cura di Alaa nel carcere di Tora”, continua.

In questa famiglia dovel’attivismo si tramanda di generazione in generazione, non è la prima volta che il carcere separa Mona Seif da suo fratello e sua sorella. Il maggiore, Alaa, che oggi ha 39 anni, ha già trascorso cinque anni dietro le sbarre dal 2014 al 2019 per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata dopo il golpe militare che ha insediato, il 3 luglio 2013, il maresciallo al-Sisi al potere. La più giovane, Sanaa Seif, 27 anni, è stata arrestata per lo stesso motivo nel 2014, poi graziata poco meno di un anno dopo.

Alla fine di marzo 2019, i fratelli si sono finalmente ritrovati, ma le riunioni di famiglia sono durate poco. Dopo sei mesi di libertà vigilata, durante i quali Alaa Abdel Fattah doveva passare ogni notte alla stazione di polizia, l’attivista è stato nuovamente imprigionato nel corso di una serie di arresti che hanno coinvolto i rivoluzionari del 2011, dopo le manifestazioni anti-regime che hanno scosso il Paese nel settembre 2019. Da allora, Alaa Abdel Fattah rimane in custodia cautelare ed è stato persino inserito, nel novembre 2020, nella lista dei terroristi.

LACERIMONIA DI BENVENUTO

Come a decine di migliaia di prigionieri politici, anche ad Alaa Abdel Fattah è stata riservata la tradizionale “cerimonia di benvenuto”. Nudo e bendato, è stato obbligato a passare tra due file di guardie, subendo insulti, sputi e percosse. Le carceri sovraffollate del regime di Abdel Fattah al-Sisi sono luoghi tristemente noti per l’illegalità e le torture, dove la mancanza di cure mediche uccide molti detenuti, come nel caso dell’ex presidente Mohamed Morsi nel 2019. Quando, all’inizio del 2020, le autorità vietano le visite in parlatorio con la motivazione ufficiale di prevenire il diffondersi del coronavirus nelle carceri, Mona Seif e sua madre Laila Soueif stanno lottando per farsi consegnare una lettera manoscritta di Alaa. Per loro, quella è una prova decisiva che è ancora vivo quando un rapporto dell’ONG Human Rights Watch denuncia la morte di almeno quattordici detenuti a causa della pandemia.

Da allora si mobilitano due generazioni di donne: da una parte Mona e Sanaa Seif, dall’altra la madre Laila Soueif, nota docente di matematica all’Università del Cairo. Non fa eccezione la sorella di Laila, Ahdaf Soueif, scrittrice impegnata con romanzi tradotti in tutto il mondo.1 Sono donne che non smettono di spingersi oltre i limiti imposti dalla dittatura militare. Così, quando le manifestazioni diventano punibili con il carcere e definite legalmente come “l’incontro di cinque o più persone”, limitano i loro sit-in solo a loro quattro, facendo leva per il resto sulla loro notorietà e sui social network.

In cella, Alaa Abdel Fattah inizia uno sciopero della fame. Dopo 37 giorni, filtra all’esterno una prima lettera nel giugno del 2020. Laila Soueif decide quindi di dormire davanti al carcere di Tora per far valere il suo diritto a ricevere ogni settimana una lettera da parte di suo figlio. Le sue due figlie non tardano ad unirsi a lei, ma vengono aggredite con violenza dai baltagiya, gli scagnozzi al soldo del regime. Quando tentano di sporgere denuncia al Procuratore Generale, Sanaa viene rapita in pieno giorno davanti all’ufficio del Procuratore e gettata in un furgone non identificato della Sicurezza di Stato, la polizia politica.

NON SANNO CON CHI HANNO A CHE FARE!”

La seconda lettera di Alaa Abdel Fattah arriva il giorno dopo l’arresto di Sanaa. Mona denuncia il “prezzo molto alto” pagato dalla sua famiglia. Dopo nove mesi di custodia cautelare, la figlia minore, di professione montatrice, viene condannata ad un anno e mezzo di carcere nel marzo 2021 per diffusione di notizie false, uso improprio dei social network e oltraggio ad un agente di polizia nell’esercizio delle sue funzioni. Da allora non è più una, ma diventano due le corrispondenze che scandiscono le settimane delle due donne libere della famiglia.

“Non ci aspettavamo che Sanaa venisse arrestata”, dice Mona sospirando. “Temevo che ne uscisse annientata, ma è come se fosse entrata in modalità automatica: ha affrontato la situazione con resilienza”, racconta, prima di aggiungere in tono scherzoso: “Anche i suoi carcerieri sono sorpresi, non sanno con chi hanno a che fare!”.

Nella cucina dell’appartamento di Doqqi, uno stufato di manzo cuoce a fuoco lento nel forno. “Abbiamo pensato che sarebbe stato un bel gesto per Sanaa e Alaa condividere lo stesso pasto”, sorride Mona Seif, annusando il piatto. Un po’ del calore di casa al posto del terribile cibo servito in carcere. “Alaa dipende interamente da ciò che gli portiamo, perché non ha alcuna attrezzatura di base, non ha né un fornello, né un bollitore”, dice con foga.

L’informatico, diventato un’icona dell’opposizione, è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza riservato ai detenuti politici. Un complesso noto anche con il terrificante nome di “Scorpion 2”. Ad eccezione di una visita mensile dietro un vetro di plexiglass, Alaa non lascia mai la sua minuscola cella senza materasso che condivide con altri due detenuti. “Nonostante tutto questo, si prende cura di sé e cerca di trarre qualche aspetto positivo da questa orribile esperienza. Non capisco come faccia a mantenere la sua salute mentale e fisica privo com’è di sole, musica e libri da più di un anno e mezzo”, risponde sorpresa la sorella minore.

AFFRONTARE L’INGIUSTIZIA

Nella camera da letto di Sanaa, sotto l’armadio dei vestiti sono allineate alcune paia di scarpe col tacco e delle scarpe da ginnastica. Proprio davanti alla scrivania, sono pronti i sacchi per la prossima visita. “È da un mese che cerchiamo di far passare questi pennarelli colorati, ma non ci concedono l’autorizzazione, stessa cosa per tutto ciò che può rappresentare un hobby”, si lascia scappare Mona, alzando gli occhi al cielo. Regole e procedure arbitrarie – un mezzo di pressione psicologica, come le ha confidato un agente penitenziario – che la fanno sprofondare in “uno stato di continua crisi”. C’è un solo rimedio: dedicarsi a tempo pieno a suo fratello e sua sorella. Da più di un anno, questa biologa ha messo da parte la sua carriera. “Non ha senso mantenere una vita normale, perché finché ci sarà questo regime, la mia famiglia sarà in pericolo”, conclude.

Come i Seif, sotto il regime di al-Sisi sono finiti in carcere tra i 60.000 e i 100.000 oppositori, sia islamisti che liberali. La polizia e gli agenti della sicurezza dello Stato reprimono con violenza inaudita le sporadiche voci di protesta ancora presenti a dieci anni dalla rivoluzione. “Il 25 gennaio vengono istigati così tanto che si ostinano a spezzare la determinazione di tutti quelli che resistono, non importa quanto piccola sia la resistenza”, dice Mona Seif.

Con la sua ex compagna Manaleddin Hassan, Alaa Abdel Fattah ha pubblicato sul suo blog manalaa.net dei post politici che hanno ricevuto nel 2005 il premio di Reporters sans frontières. Quando ad inizio 2011 in Egitto si infiammano le strade, Alaa Abdel Fattah diventa subito una figura di riferimento per i giovani ribelli. La coppia, che vive in Sudafrica dal 2008, non ha alcuna esitazione: fa le valigie e rientra in patria.

Ma l’euforia non dura a lungo. Nell’ottobre 2011, Alaa viene rimesso in carcere. “Mai avrei pensato di rivivere la mia esperienza di cinque anni fa”, scrive dalla sua cella, riferendosi ai 45 giorni di reclusione del 2006, per aver partecipato a una manifestazione pacifica. “Dopo la rivoluzione che ha avuto la meglio sul tiranno, come ritornare nelle sue carceri?”, si chiede qualche riga dopo. La sua colpa non è altro che quella di aver denunciato la parzialità delle indagini affidate all’esercito dopo il massacro di Maspero, luogo in cui più di 27 manifestanti sono stati uccisi dalle forze dell’ordine.2

Per chiedere il suo rilascio, sua madre Laila Soueif ha organizzato uno sciopero della fame e, il 18 novembre 2011 in piazza Tahrir, ha festeggiato i 30 anni di suo figlio agli arresti. Una mobilitazione che si unisce anche alla lotta di Mona Seif contro la diffusione del ricorso ai tribunali militari, alla base dell’iniziativa “No to Military Trials for Civilians” (“No ai processi militari per i civili”) che chiede il rilascio dei manifestanti arrestati durante la rivolta del 2011.

BUON SANGUE NON MENTE

I fratelli sono su tutti i fronti della protesta, ma per capire il posto che occupano nel cuore dei rivoluzionari bisogna risalire all’albero genealogico. Negli anni ‘90, il padre, Ahmed Seif Al-Islam è un avvocato, pioniere del movimento per i diritti umani in Egitto.3 Appartenente ad una famiglia di piccoli proprietari terrieri del Delta del Nilo, è in prigione che il leader studentesco comunista ha la sua formazione giuridica, durante i suoi cinque anni di reclusione a partire dal 1983.

Nel 2000, Ahmed Seif Al-Islam fonda il centro legale Hisham Mubarak, in ricordo del giovane avvocato difensore dei diritti umani. È lì che fa il suo incontro con Khaled Ali, proprio colui che, alla guida del partito Pane e libertà (‘Aish wa- hurriya), diventerà una figura di riferimento della Rivoluzione e dell’opposizione al presidente al-Sisi. Khaled Ali vede in Ahmed Seif Al-Islam un “padre spirituale” che gli ha insegnato tutti i trucchi del mestiere. “Aveva una grande capacità di trasmettere. Si preoccupava più degli altri che di sé stesso”, ricorda il suo allievo, ora sistemato nel suo piccolo ufficio composto da un unico ambiente. Le pareti sono spoglie, fatta eccezione per un ritratto di Ahmed Seif Al-Islam appeso sopra una libreria. Il vecchio ha lo sguardo fisso e un lieve sorriso. Sta in piedi di fronte ad una cella dove i prigionieri in tenuta immacolata si accalcano alle sbarre.

Qualche giorno prima delle dimissioni di Hosni Mubarak, l’influenza del capofamiglia è tale che l’allora capo dell’intelligence militare, un certo Abdel Fattah al-Sisi, crede sia capace di mettere fine al movimento rivoluzionario. Il 5 febbraio 2011, l’avvocato è in carcere da 48 ore quando incontra il futuro presidente. Quest’ultimo gli ordina di mandare a casa i manifestanti di piazza Tahir. Ahmed Seif Al-Islam ride dell’ingenuità del suo interlocutore e replica che né lui né nessun altro può farlo.

TI LASCIO IN EREDITÀ UNA CELLA

Una volta libero, questa figura simbolo della rivoluzione si rimette subito la toga d’avvocato. “Non appena le persone venivano arrestate durante le manifestazioni, chiedavano aiuto al centro Hisham Mubarak. La maggior parte dei giovani chiedevano di Ahmed Seif”, ricorda Khaled Ali. Quando è stato il turno del figlio di finire in carcere, l’instancabile attivista gli ha rivolto, durante una conferenza stampa nel gennaio 2014, parole che suonano come un testamento: “Volevo che ereditassi una società democratica che garantisse i tuoi diritti, figlio mio. E invece ti lascio in eredità una cella in prigione, quella che mi ha tenuto rinchiuso e adesso rinchiude te”.

Otto mesi dopo, Ahmed Seif Al-Islam muore all’età di 63 anni in un ospedale del Cairo. Al suo funerale partecipano donne e uomini comuni, intellettuali ed oppositori. Sotto la sua bara trasportata a spalla fuori dalla Moschea Salaheddin, una folla compatta scandisce “Continueremo il tuo lavoro!”. La rivoluzione sembra ancora molto viva. Nella marea umana, si possono distinguere due sagome bianche: Alaa Abdel Fattah e Sanaa Seif che non hanno potuto vedere il padre sul letto di morte e sono stati rilasciati per poche ore, giusto il tempo per partecipare alla cerimonia funebre. Nelle loro uniformi carcerarie, fianco a fianco e mano nella mano, fratello e sorella stanno in piedi in mezzo alla folla.

Questa foto struggente pubblicata sui giornali di tutto il mondo figura anche nell’album di famiglia. Ahdaf Soueif conferma: “C’è sempre stata la politica nella nostra vita familiare”. La scrittrice si trova nel suo salotto, in una casa galleggiante ormeggiata di fronte all’isola di Zamalek, nel cuore della capitale. Anche il suo primo ricordo di una conversazione con i genitori, accademici e simpatizzanti di sinistra, riguarda la politica, quando lei non aveva ancora dieci anni.

Ma i sacrifici come l’impegno politico si ereditano. Dopo la nascita di Mona Seif, sua madre Laila è andata nel carcere di Tora affinchè suo marito, Ahmed Seif Al-Islam, potesse vedere la sua primogenita. Lo scenario si è ripetuto con Alaa Abdel Fattah e suo figlio Khaled, che ha incontrato nel parlatorio dello stesso centro penitenziario. “È un leitmotiv familiare, un tema i cui toni sono mutati radicalmente dal 2011, per diventare ancora più cupi dopo il 2013”, si rammarica la scrittrice.

ATTRATTA DALLA RIVOLUZIONE

Facciamo ritorno nell’appartamento di Doqqi. Per Laila Soueif, questo impegno politico rappresenta piuttosto “una maledizione”. La docente di matematica, figura di spicco del movimento del 9 marzo per l’indipendenza delle università, attivo fino al 2014, non rinnega nessuna delle sue lotte. “È come un destino a cui vorremmo sfuggire, ma con cui dobbiamo convivere”, spiega.

Non ha mai cercato di imporre l’attivismo ai suoi figli: “Ho sempre voluto che facessero le proprie scelte”, dice. La sua risata diventa fragorosa quando ricorda gli anni in cui l’adolescente Sanaa provocava i suoi genitori minacciandoli di diventare un giorno una donna d’affari e di fare un mucchio di soldi. “Ma è stata attratta dalla rivoluzione”, riprende Laila con voce improvvisamente più calma. “È stato meraviglioso, aveva 18 anni, ma era così tenace! Al momento degli scontri tra manifestanti e polizia in via Mohamed Mahmud, ha accompagnato dei genitori fin negli obitori per trovare i loro figli che erano anche suoi amici”.

Con la rivoluzione del 2011, tutti i membri della famiglia sono diventati personaggi pubblici. Ma la docente universitaria non si lascia impressionare: “Diffido delle icone e vorrei che tutti facessero la stessa cosa. Bisogna avere uno sguardo critico su tutto”, sostiene. Tuttavia, vuole credere che questa notorietà sia la prova che una coscienza politica e la cultura della difesa dei diritti umani si siano fortemente diffusi nella società dopo il 2011.

Ne è la prova il sostegno dei tassisti che la riconoscono al grido di “Umm Alaa” (la madre di Alaa) e anche di alcune giovani guardie carcerarie che la incoraggiano e le confessano di seguirla sui social. È proprio questo entusiasmo che alimenta l’ossessione del potere contro questa famiglia. L’avvocato Khaled Ali, che aveva già difeso Alaa Abdel Fattah nel 2014, parla anche di un desiderio di vendetta: “Stavolta è in carcere per dei reati che non ha commesso e senza che siano state svolte le indagini. C’è una bella differenza che testimonia la crisi che sta attraversando la giustizia”, dice con preoccupazione.

“Siamo arrivati ad un punto in cui tutte le istituzioni vengono utilizzate come strumenti per schiacciare le ultime voci di opposizione. Stiamo combattendo contro il regime e l’intero sistema giudiziario”, aggiunge Mona Seif, che afferma di sognare una vita normale. Per questo “o dobbiamo andarcene di qui, o questo regime deve cadere”, riassume. Senza data per l’udienza, Alaa Abdel Fattah è detenuto per un periodo di tempo indeterminato. In attesa della sua scarcerazione, Mona Seif si aggrappa alle sue lettere. “Ecco ciò che ci fa andare avanti ogni settimana”, dice nonostante tutto, con un sorriso e un groppo in gola, e il foglio di carta scarabocchiato in mano.

1Si veda, in italiano, Il profumo delle notti sul Nilo, traduzione a cura di L. Crepax, Casale Monferrato, Piemme, 2007 (NdT)

2Maspero è la sede della televisione egiziana, dove ha avuto luogo il 9 ottobre 2011 una manifestazione di copti violentemente repressa dalla polizia.

3Si veda Alain Gresh, «Dans les prisons égyptiennes», blog Nouvelles d’Orient , 15 novembre 2011