Testimonianza

Gerusalemme. La porta di Damasco, epicentro della rivolta palestinese

Il testo che segue è un lungo post che Mahmoud Muna ha pubblicato sul suo profilo Facebook. Ripreso da The Independent e tradotto in francese da Orient XXI, è qui presentato in italiano per Orient XXI Italia.

manifestanti davanti alla Porta di Damasco, il 26 aprile 2021
Ahmad Gharabli/AFP

Molto è stato scritto sugli scontri e la violenza delle ultime settimane intorno alla Porta di Damasco a Gerusalemme. Ma come abitante di lunga data della città, godo di un punto di osservazione unico e privilegiato sui giovani che vivono dentro e intorno alla Città Vecchia. La chiave per una comprensione reale degli eventi è la relazione profonda che esiste tra gli abitanti palestinesi della Città Vecchiae lo spazio pubblico che circonda le loro case: una relazione che persino i palestinesi che vivono fuori dalle mura spesso sottovalutano.

Al di là delle evidenti responsabilità religiose e nazionali che gli abitanti della Città Vecchia sentono di avere nei riguardi della loro città natale, considerano i suoi spazi pubblici come i loro stessi cortili, dove si ritrovano tra terrazze e magnifici balconi fino a notte tarda, d’estate.

Una città come nessun’altra

Gerusalemme è una città che non somiglia a nessun’altra. Riconosciuta come sito patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco, è un concentrato di beni storici per il mondo intero. Le sue strade sono strette, le sue case sovrappopolate e pochissimi sono i permessi di costruzione o ristrutturazione che vengono accordati agli abitanti palestinesi dalle autorità israeliane. Questo spiega perché le famiglie, e i giovani in particolare, affluiscono abitualmente verso la grande Porta di Damasco per trovare un proprio spazio. Per tutta la mia vita, e ancora di più in questi ultimi anni, la Porta di Damasco - o Bab Al-Amoud, come la chiamiamo noi – è divenuta un luogo di assembramento e di vita sociale. I giovani si ritrovano qui, mangiano dolci, fumano. Nel corso degli anni, la piazza a forma di anfiteatro è diventata il palcoscenico per spettacoli culturali, eventi musicali, manifestazioni di street art e danze tradizionali, persino per il parkour.

Tutto questo è cambiato il primo giorno di Ramadan di quest’anno, quando le autorità israeliane hanno impedito alle persone di riunirsi intorno alle grandi scalinate (che gli abitanti di Gerusalemme vecchia chiamano semplicemente “le sedie”), mettendo alcune barriere metalliche e consentendo l’accesso solo a piedi attraverso piccoli gradini. I giovani palestinesi hanno considerato questa misura come una provocazione, e hanno organizzato manifestazioni notturne per riappropriarsi del loro spazio.

Dopo qualche giorno di scetticismo, la comunità palestinese si è riunita intorno alla causa dei giovani ed è aumentata la voglia e l’impegno per organizzare una forma di protesta pacifica. Le richieste erano chiarissime: rimozione delle barriere intorno alle scale e riaprire la zona delle «sedie».

La polizia israeliana ha cercato a più riprese di convincere i giovani ad accettare la chiusura delle scalinate, ma invano. E’ stato allora che ci siamo resi conto che non c’era alcuna guida per questo movimento di protesta, alcun partito né dirigente politico coinvolto. Naturalmente la disperazione, l’assenza di futuro, il senso di oppressione e discriminazione sono sempre fattori che alimentano la rabbia e il ciclo della violenza: il punto di rottura c’è stato quando dei gruppi di israeliani ultra-nazionalisti si sono riuniti e hanno marciato in città al grido di “Morte agli arabi”, prima che scoppiassero scontri per le strade di Gerusalemme con l’esercito israeliano.

Il 22 aprile la situazione è precipitata. Circa 120 palestinesi sono stati feriti nel giro di una notte. Le manifestazioni si sono moltiplicate ed intensificate. Due giorno dopo, la domenica sera, la polizia ha deciso di ritirare le barriere e di aprire le scalinate della Porta di Damasco.

Una piccola vittoria

Gli abitanti di Gerusalemme di tutte le età e origini si sono riversati nella piazza per celebrare l’avvenimento, per una notte di festa eccezionale. Non era che una piccola vittoria, ma 13 notti di continue manifestazioni avevano finalmente portato a un risultato, e lo spazio sociale più importante della città per i palestinesi era stato alla fine riaperto. Ma mentre scrivo, questa storia resta incompiuta: le forze armate israeliane continuano a schierarsi in gran numero alla Porta di Damasco e la tensione è alta. Opponendosi alle politiche israeliane attraverso la protesta – e diversamente dalla strada bloccata delle elezioni palestinesi – la gioventù di Gerusalemme ha mostrato un altro modello di leadership e di mobilitazione, caratterizzato dalla spontaneità e dalla partecipazione comunitaria e sociale.

A meno di un chilometro dalla Porta di Damasco, il quartiere di Sheikh Jarrah è diventato teatro di una nuova manifestazione la scorsa settimana. In questo storico quartiere, i proprietari di 28 case sono minacciati di espulsione da un gruppo di coloni israeliani ultra-nazionalisti. I palestinesi del quartiere hanno manifestato pacificamente in solidarietà con le famiglie, e sebbene la battaglia giuridica non sia ancora terminata, è chiaro che il tribunale israeliano sta manipolando ancora una volta la legge in favore delle organizzazioni dei coloni, che rivendicano la proprietà delle case di chi viveva lì molto prima della stessa creazione di Israele.

Ogni giorno i residenti palestinesi sono sottoposti alla violenza militare dell’esercito e a quella dei coloni armati, che attaccano i civili riuniti in grandi tavoli all’aperto per celebrare insieme la rottura del digiuno (iftar) in segno di solidarietà con le famiglie minacciate. Il 6 maggio scorso l’esercito israeliano si è schierato in forze per proteggere il membro della Knesset Itamar Ben Gvir, un politico di estrema destra al cui confronto Benjamin Netanyahu appare un comunista. Ancora una volta l’esercito è stato utilizzato per difendere un gruppo di coloni: è questo il volto più ignobile di Israele.

Nella Città Vecchia e nei pressi della Moschea di Al-Aqsa, i palestinesi sono intanto costretti a sopportare gli atteggiamenti violenti e aggressivi dei soldati israeliani, che spesso non hanno più di 18 o 19 anni. Militari inesperti, che imbracciano mitragliatrici con proiettili di gomma o veri, in piedi dietro barriere metalliche installate là dove migliaia di palestinesi tentano di accedere al loro luogo sacro. Sono costantemente pronti a intervenire, considerando ogni palestinese che si muove come un rischio potenziale, che si tratti di un uomo, di una donna o di un bambino. Hanno alle spalle anni di indottrinamento per dire che difendono il loro popolo contro un nuovo Olocausto, come se noi avessimo qualcosa a che fare con il nazismo europeo. Salvo pagarne il prezzo più alto: perdere la nostra patria, e vivere sotto l’oppressione e il razzismo dal 1948.

Escalation israeliana

Nella notte del 7 maggio, l’esercito israeliano ha portato avanti un’escalation. Disturbato dalla presenza di 70mila fedeli palestinesi ad Al-Aqsa, ha preso d’assalto la Spianata delle Moschee ed ha letteralmente sparato sulle persone raccolte in preghiera. Oltre 200 palestinesi sono stati ricoverati in ospedale, di cui molti feriti alla testa e agli occhi. Almeno una persona ha perso la vista.1

Tutto ciò accade in un contesto di crisi della democrazia israeliana, incapace di formare un governo stabile dopo quattro elezioni in due anni, ed una quinta probabilmente in vista. I casi di corruzione e gli scandali abbondano, coinvolgendo dalla testa dello scacchiere politico israeliano fino ai suoi dirigenti politici e religiosi. Ancora una volta, sono i palestinesi a pagare il prezzo di una tale anarchia.

La società israeliana e il suo establishment politico sono profondamente irrequieti, ma rifiutano di vedere che l’occupazione militare, qui, è il vero problema. In effetti, per noi l’occupazione è il principale ostacolo alla liberazione e alla libertà.

Ne abbiamo abbastanza, e non possiamo continuare a fare gli psichiatri per la società israeliana. Noi siamo gli occupati, non gli occupanti; gli oppressi, non gli oppressori. Noi siamo i colonizzati, non i colonizzatori. Per il bene di tutti coloro che vivono “tra il fiume e il mare”, bisogna porre fine a questa occupazione. È durata già abbastanza.

1Secondo quanto riportato dalla Mezzaluna Rossa palestinese, le persone ferite al 12 maggio sono 520, di cui 300 ricoverate in ospedale, NdT