È da un po’ di giorni che la città di Jenin ha ritrovato il suo orgoglio. Sono tornate di nuovo anche le sentinelle con tanto di fucili e passamontagna. La città del nord della Cisgiordania è dunque tornata a fare notizia. Il motivo di questa sorveglianza armata è l’evasione avvenuta lunedì 6 settembre dal carcere di Gilboa, nel nord di Israele. I sei prigionieri che hanno umiliato con la loro fuga le forze di sicurezza israeliane provenivano tutti dalla città di Jenin. Successivamente, prima quattro e poi gli ultimi due sono stati catturati dalle forze israeliane; tra gli evasi c’è anche Zakaria Zubeidi, di cui ci occuperemo nell’articolo. La fuga era disperata e le forze in campo troppo impari. Per questo non sono riusciti ad entrare in Cisgiordania.
Ma la loro impresa, scappare sotto il naso e in barba alle guardie di un carcere di massima sicurezza ritenuto inespugnabile attraverso un tunnel scavato per mesi, è stata però acclamata anche al di fuori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Durante le manifestazioni a sostegno dei fuggitivi, sono stati agitati molti cucchiaini, lo strumento grazie al quale sono riusciti a fuggire. Non bisogna inoltre dimenticare che i prigionieri detenuti nelle carceri israeliane occupano un ruolo importante nella società, nella politica e nell’immaginario palestinese. Alcuni di loro hanno diretto anche dei ministeri. Complessivamente sono 850.000 le persone che sono state detenute nelle carceri dello Stato ebraico a partire dal 1967, e 4.400 quelle in cella nel marzo 2021. In altre parole, ogni famiglia ha, o ha avuto, almeno uno dei suoi membri direttamente coinvolto.
Dopo anni d’isolamento e disinteresse da parte del mondo intero, dopo aver accantonato senza memoria né clamore il “processo di pace” nonché la prospettiva di un futuro stato palestinese – come dichiarato, senza che la cosa abbia suscitato la benché minima condanna internazionale, dal primo ministro israeliano Naftali Bennett, un religioso sionista – la fuga ha consegnato alla società palestinese dei nuovi eroi.
Tra i sei evasi, ce n’è uno più eroico degli altri: Zakaria Zubeidi, un figlio del campo profughi di Jenin. È lì che è nato nel 1976, lì è cresciuto, lì ha frequentato le scuole dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA); da bambino è lì che è stato ferito ed arrestato; lì che ha perso alcuni dei suoi familiari; lì che ha combattuto. Per me, il destino di Zakaria Zubeidi coincide con quello del processo di pace. Incarna il fallimento di quest’ultimo, fino alla fuga e al nuovo arresto di venerdì 10 settembre durante la notte. L’ho incontrato un anno dopo l’operazione israeliana “Scudo difensivo” nella primavera del 2002 e l’assedio di Jenin, dopodiché il campo profughi è stato in gran parte raso al suolo dai bulldozer corazzati dell’esercito israeliano.
Nell’estate del 2003 Hamas, la Jihad islamica e Fatah annunciano una tregua di tre mesi, in altre parole la sospensione degli attentati suicidi e degli attacchi ai coloni. Le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si dimostrano restie. Tra i capi del gruppo armato nato da una costola di Fatah di Yasser Arafat, ce n’è uno che si distingue per un “no” categorico: è Zakaria Zubeidi, leader del campo profughi di Jenin.
In questo periodo, nessun giornalista è ancora interessato a lui. Il suo nome non circola tra quello dei confratelli e delle consorelle. È solo uno sconosciuto dirigente come ce ne sono tanti. Del resto, la città Jenin è lontana da Gerusalemme ed è difficile raggiungerla dalla Cisgiordania, in più ci sono strade dissestate e molti checkpoint. E anche se il cosiddetto “muro di separazione” non esiste ancora, attraversare Israele è tutt’altro che semplice. Ci sono continui posti di blocco militari.
L’INCONTRO CON UN CLANDESTINO
Ma Jenin è anche un simbolo, ed incontrare un leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa indipendente dalla linea di Fatah è sempre interessante. Ci sono voluti parecchi giorni dopo il primo contatto, indiretto, per accettare l’intervista. Era già un [matlub], un ricercato dagli israeliani. D’altronde, una certa dose paranoia è addirittura un segno di longevità nei territori palestinesi martoriati dalla sorveglianza israeliana. Dopo una serie di telefonate, vengo accolta all’ingresso del campo profughi. A questo punto, mi portano in una casa che costeggia il vasto terreno incolto di cui un tempo, prima dell’invasione dei blindati israeliani nella primavera del 2002, era il centro. Delle piccole casette separate da stretti vicoli distrutte dall’esercito israeliano non rimangono che delle macerie sotto la sabbia. I segni della guerra sono ancora evidenti nei luoghi e nella mente di tutti. Aspetto a lungo, al pianoterra, in una stanza spoglia con pareti color giallo pallido e sedie di plastica.
Arriva Zakaria Zubeidi. Carnagione scura, faccia butterata e un’arma infilata nella cintura. Motiva il suo rifiuto di una tregua e promette di inviare uomini a farsi esplodere a Tel Aviv, anche se Yasser Arafat non è d’accordo: gli israeliani occupano ancora i territori palestinesi e sono centinaia i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri di Israele. C’è una serie infinita di motivi per continuare a lottare. E poi c’è anche il dolore e la vendetta. Fa scorrere delle foto sullo schermo del suo cellulare, un telefonino a conchiglia. “Martiri”, civili e combattenti, tutti uccisi dall’esercito israeliano, spiega. Decine di facce, più o meno sorridenti. Poi si sofferma su una di queste. È una donna di una certa età, ha l’aria seria resa più evidente da un austero hijab. “È mia madre”. “Neanche lei è stata risparmiata”. È stata uccisa in un raid contro il campo profughi nel marzo 2002, poche settimane prima dell’assedio. Zakaria non si trovava a Jenin nel momento cruciale della tragica vita della sua famiglia e di tutto il campo. Era ricoverato in ospedale (non mi dirà dove), dopo l’esplosione accidentale di una bomba che stava fabbricando. Ne conserva i segni sul viso, una dozzina di minuscoli puntini grigi. Fa scorrere di nuovo le foto. “Io ci ho creduto davvero alla pace”. Mi chiede di seguirlo. Percorriamo poche centinaia di metri nel campo, a piedi e senza scorta. È nella sua roccaforte e anche gli israeliani rispettano la tregua, anche se non è ufficiale.
“È QUI CHE GIOCAVO CON GLI ISRAELIANI”
Eccoci qui sul tetto di un edificio. Non è un granché nemmeno dal punto di vista della sicurezza. Ma, ancora una volta, c’è la tregua. Non si sente alcun rumore d’elicottero. Il tetto è un groviglio di sedie e vari oggetti. C’è un palco malridotto e grandi tende lacere di un rosso sbiadito. “Era il nostro teatro. L’hanno creato gli israeliani al termine della Prima Intifada. È qui che giocavo con gli israeliani. L’anno scorso, dei missili hanno distrutto tutto”. Sulle prime, non riesco a crederci. Dopo aver verificato, so che ha detto la verità. Nel 1989, un’israeliana, Arna Mer, sposata con un palestinese di Nazareth, fonda una Casa per Bambini nel campo di Jenin. Lì i bambini possono imparare a recitare e a capire soprattutto che non esiste solo la violenza, come non esistono solo soldati tra gli israeliani. Il piccolo Zakaria Zubeidi fa parte di quel gruppo di ragazzi. È appena uscito di prigione, condannato a 13 anni per aver lanciato delle pietre, il che fa di lui il più giovane prigioniero palestinese.
Siccome conosce l’ebraico, che ha imparato in carcere, fa da traduttore. Dopo la morte di Arna Mer-Khamisnel 1995, continuerà a farlo anche con il figlio di Arna, Juliano. I due diventeranno amici e insieme gestiranno il Teatro della Libertà, prosecuzione della Casa per Bambini. Juliano verrà assassinato nel 2011 a Jenin, ma da chi non lo sapremo mai.
Lì sul tetto, in quell’estate del 2003, Zakaria Zubeidi mantiene lo sguardo fisso sulle tende rosse strappate. Il suo sguardo è cambiato. Con la mente è tornato agli anni di quando era un adolescente che stava scoprendo il teatro. I suoi occhi si portano dietro cose meravigliose. Riaffiora l’emozione, non lo nasconde. “Lo capisci che non ho niente contro gli israeliani. Ci ho creduto davvero alla pace, sai”.
Qualche giorno dopo, l’Ambasciata israeliana in Francia protesterà con il canale televisivo che ha trasmesso il mio servizio su Zakaria Zubeidi, accusandomi di aver falsificato le cose. La rappresentazione in TV di Zakaria Zubeidi non corrisponde all’immagine di un “terrorista”. Ma è la stessa ambasciata a non avere molta fortuna: quel breve reportage l’ho montato insieme al montatore israeliano che ha lavorato al film di Juliano Mer-Khamis, in cui viene raccontata la sua esperienza teatrale. Zakaria apparirà insieme agli altri nel documentario [I bambini di Arna] che uscirà nel 2004. Di tutti i bambini ripresi, Zakaria Zubeidi è oggi l’unico sopravvissuto. Gli altri sono tutti morti in attentati suicidi che hanno commesso o sono stati uccisi da soldati israeliani.
NELLE CELLE PALESTINESI
“Ho creduto nella pace”, ripete. Tuttavia, dopo gli accordi di Oslo, si è dovuto presto disilludere. Impegnato nella neonata forza di polizia palestinese, ha fatto sentire la sua voce contro la wasta (i favoritismi), la collaborazione per la sicurezza con gli israeliani. Solo Yasser Arafat incontrava il suo favore. La cieca obbedienza non è mai stata nelle corde di Zakaria Zubeidi. Dopo la Seconda Intifada, le sue continue critiche all’Autorità Palestinese (AP) gli varranno qualche mese di carcere… nelle celle palestinesi questa volta. Eppure, era stata proprio l’Autorità ad assumerlo, come molti altri veterani.
Ecco il motivo per cui ha dovuto deporre le armi nel 2007. La Seconda Intifada è terminata con un senso di stanchezza generale. È in quel momento che l’ho incontrato. Era un responsabile sportivo con un ufficio a Ramallah. Ma non per questo è rimasto in silenzio, anzi le sue critiche le ha rivolte all’Autorità, incapace di portare avanti la causa palestinese.
Il processo di pace era già ad un punto morto, ma nessuno all’epoca lo diceva, nei vertici o nei mezzi d’informazione occidentali. Bisognava far finta di crederci. Anche se proseguivano i raid israeliani, anche se si estendevano gli insediamenti, anche se Tel Aviv aveva annullato l’amnistia concessa a Zakaria Zubeidi, rendendolo di nuovo un [matlub].
Due anni fa, l’ex comandante delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa di Jenin è stato arrestato dagli israeliani a Ramallah e rinchiuso nel carcere di Gilboa. Il processo di pace è stato accantonato da tempo, il suo ricordo è sfiorito senza clamore, mentre i palestinesi sono stati cancellati dall’agenda internazionale.
Come il destino di un ragazzino di Jenin che coincide con quello di una speranza infranta.