Serie Tv

L’incredibile realismo di Fauda

La serie tv Fauda viene proposta dai giornali italiani (e non solo) come il prisma interpretativo dell’intero conflitto israelo-palestinese. Il suo realismo narrativo è considerato tale da trasformarlo sia in un dispositivo informativo che performativo, cioè da un lato descriverebbe in modo realistico i fatti e, dall’altro, indurrebbe alla loro realizzazione. Ma questa narrazione è davvero un racconto ricco delle vite “di entrambi i lati del conflitto” oppure è una semplice necessità narrativa per rendere questo realismo “credibile” agli occhi del pubblico globale, soprattutto occidentale?

Il 26 gennaio 2023, giorno del sanguinoso raid delle forze israeliane a Jenin, i media italiani hanno raccontato i morti e i feriti palestinesi evocando il serial televisivo Fauda, la cui quarta stagione era disponibile su Netflix da circa una settimana. Il Foglio ha dedicato all’argomento due articoli: uno dal titolo “Gli scontri di Jenin anticipati dalla serie Netflix Fauda1, il cui incipit enfatizzava le analogie tra realtà e fiction (“La trama di una fiction anticipa la realtà, precedendo l’irruzione delle forze speciali israeliane a Jenin. I tragici fatti di sangue in Palestina presentano sorprendenti analogie con la serie cult Fauda”) e un altro, dal titolo “Israele torna nella capitale del terrorismo, Jenin, e infuria una battaglia durissima”2, sul quale vi aggiungeva l’occhiello “La vera Fauda”, trasformando così il serial televisivo in categoria esplicativa del testo.

L’esplosione del confine

Il giorno successivo, Repubblica proponeva Fauda come prisma interpretativo dell’intero conflitto israelo-palestinese: “Fauda, quando una serie Tv aiuta a comprendere il conflitto israelo-palestinese”3. Un’ulteriore legittimazione della sovrapposizione tra cronaca e fiction è arrivata da un blog di Repubblica.it, nel quale si affermava: “Chi aveva visto la quarta stagione di Fauda, ambientata appunto a Jenin, ha fatto fatica leggendo le cronache a distinguere la realtà dalla finzione o – per meglio dire – a orientarsi nello sfasamento temporale”4. Qualche giorno dopo, La Stampa ha attribuito al serial anche una funzione performativa, legittimata dalle parole di uno dei suoi creatori, il giornalista Avi Issacharoff: “Fauda ha anticipato i fatti di Jenin […]. Avevamo capito che la città stava diventando un covo di militanti”5.

Per i giornali italiani (e non solo) il confine tra la realtà di Jenin e Fauda è saltato. Il realismo del serial è considerato tale da trasformarlo sia in un dispositivo informativo che performativo, cioè da un lato descriverebbe in modo realistico i fatti e, dall’altro, indurrebbe alla loro realizzazione.

Il “realismo credibile” di Fauda

Fauda (“caos” in arabo) narra le vicende di un’unità antiterrorismo dell’esercito israeliano che compie incursioni e operazioni sotto copertura nei territori palestinesi (Gaza, Cisgiordania) e in altri paesi (Belgio, Libano). Sin dalla prima stagione ha conosciuto un grande successo di pubblico, in patria e nel resto del mondo, accrescendo l’interesse globale per la serialità israeliana, già molto alto dopo la produzione di Betipul (2005-2008, riprodotto negli Usa con il titolo In treatment), Bnei Aruba (2010-2012, riprodotto negli Usa con il titolo Hostages e Hatufim (2010-2012, riprodotto negli Usa con il titolo Homeland). Il serial ha ottenuto diversi premi nazionali e internazionali e il New York Times lo ha definito “the best Tv show of 2017” classificandolo al secondo posto nel 2020. Ciò che è maggiormente apprezzato dai critici è la capacità di descrivere con realismo il “conflitto israelo-palestinese”6. Lo strapline – “Le storie umane di entrambi i lati del conflitto israelo-palestinese” – e l’ostentato bilinguismo del serial (ebraico e arabo) confermano quest’ambizione al realismo dei produttori.

Se per realismo si intende l’aderenza del racconto ai fatti reali, Fauda non può definirsi realistica. In particolare, la pretesa di fedeltà alla realtà fallisce nella rappresentazione dei palestinesi e della loro vita quotidiana. Si possono individuare diversi elementi che portano a questo fallimento: l’uso inappropriato di certe parole arabe (es. habibti o fauda)7; il modo di vestirsi dei personaggi palestinesi (arcaico e cheap) e la loro mobilità senza ostacoli e check point; i dialoghi improbabili e naïf (sempre infarciti di riferimenti religiosi): le relazioni parentali intrise di un certo primitivismo e le donne sottomesse al potere patriarcale; una diffusa antropologia della penuria (che nel serial li spinge sempre al tradimento di amici e ideali) nonché una generale spoliticizzazione delle loro azioni, le quali sembrano nutrirsi di un odio errante e inspiegabile verso gli israeliani. No storicizzazione degli eventi, no occupazione, solo caos (fauda). In campo, infatti, resta soltanto il misterioso “conflitto israelo-palestinese”, un conflitto senza storia in cui si confrontano due parti simmetriche.

Se i palestinesi sono descritti come soggetti premoderni (per quanto dotati di smartphone, tablet e razzi Qassam) e con relazioni affettive e familiari ferme al diciannovesimo secolo, gli israeliani sono rappresentati come individui collocati nel cuore della modernità: i membri dell’unità sono tutti poliglotti e vestono alla moda; hanno un sapere tecnologico illimitato (non v’è arma o dispositivo elettronico che non sappiano usare al meglio e in ogni contesto) e relazioni affettive paritarie; le donne sono emancipate e con ruoli dirigenziali; le famiglie tendono alla disgregazione, come tutte le famiglie moderne; i soldi non sono mai un problema; sono professionisti e non odiano i palestinesi (qualche volta se ne innamorano o, addirittura, evitano di colpirli con i droni se “innocenti”); le loro azioni sono politiche anche quando compiute per vendetta personale, perché in ogni circostanza agiscono in nome e per conto dello stato e del popolo israeliano, costantemente minacciati dall’inspiegabile odio palestinese.

Il realismo di Fauda non deriva allora dalla rappresentazione fedele della realtà, ma dal disegno realistico della serie, che si poggia essenzialmente sulla creazione di universi familiari e “abitabili” dal pubblico8, ossia mondi composti da rituali, oggetti, trame e stereotipi riconoscibili dagli spettatori e che riescono a suscitare in questi sensazioni di frequenti déjà vu. Si tratta quindi di “realismo narrativo”9, basato sull’attendibilità generale del racconto. L’attendibilità di Fauda è costruita operando dentro i confini dell’immaginario diffuso, senza mai provare a sfidarlo o demolirlo.

Le gerarchie e le differenze radicali nel trattamento delle “storie umane di entrambi i lati del conflitto” sono il prezzo che il serial paga per essere considerato “realistico”: dipingere una Palestina senza storia e abitata da soggetti premoderni o invasati e un Israele eterno, difensivo e abitato da soggetti razionali e ipermoderni è esattamente ciò che rende ‘credibile’ Fauda agli occhi del pubblico globale, soprattutto occidentale. È questa narrazione che in molti – non di certo i palestinesi – si aspettano di ‘scoprire’ vedendo il serial. Il che disvela non solo le intenzioni dei suoi creatori, ma anche la sostanza della “rocca dell’ovvietà”10 dell’audience globale, dice cioè del suo inconscio culturale11 e politico12, delle sue memorie latenti, che appaiono impregnate di stereotipi razzisti e permeate da una chiara ideologia di dominio.

La costruzione del realismo narrativo

Il realismo credibile di Fauda è costruito su diversi elementi, in primis sulla rappresentazione della vita quotidiana dei membri della squadra antiterrorismo israeliana, capeggiati dal carismatico Doron Kavillio, recitato da Lior Raz, ex membro della suddetta unità e anche uno degli sceneggiatori del serial (insieme al giornalista Avi Issacharoff). Il protagonismo di Raz assegna uno status speciale a Fauda, incrementando di molto il suo livello di attendibilità: chi meglio di un ex soldato di Mista’arvim può dire cosa accade dentro un’organizzazione non trasparente e inaccessibile al pubblico?

Con Fauda si inaugura, in questo senso, una svolta importante nelle fiction, di cui occorrerà tenere conto in futuro: i militari e gli agenti segreti non vogliono più esserne semplici consulenti, ma protagonisti in carne e ossa. Altro elemento che rafforza la credibilità della narrazione è l’attenzione ai dettagli e la stilizzazione dei particolari nella vita dei protagonisti. Il serial vuole trasmettere l’idea che i suoi ‘eroi’ conducono vite ordinarie, da soggetti normali, con famiglia, che soffrono, si confondono e talvolta sbagliano.

La vulnerabilità dei personaggi è funzionalizzata a consolidare la loro credibilità e, allo stesso tempo, a rendere più facile l’identificazione del pubblico con essi13. L’eccezionalità di Doron e compagni è tutta concentrata nell’ambito professionale, per sottolineare ulteriormente il fatto che membri della Duvdevan Unit non si nasce ma si diventa. Infine, il realismo narrativo di Fauda si regge anche sulla contemporaneità degli eventi raccontati, creando spesso l’impressione di trovarsi davanti a un notiziario oppure un documentario. Evocano le immagini del documentario The Gatekeepers (2012), infatti, alcune scene ripetitive di Fauda, come ad esempio l’inquadramento costante dei territori, delle case e delle strade palestinesi attraverso le telecamere dei droni israeliani. Assistito dall’occhio onnipresente di Shin Bet, il pubblico si sente catapultato, insieme alla poltrona su cui siede, nella situation room dell’operazione, osservando, passo dopo passo, le gesta dei protagonisti.

Complessità e mercato

Oltre che per il ‘realismo’, Fauda è apprezzata dalla critica per la sua complessità14. In particolare, è valutata positivamente una certa simmetria etica della narrazione e, soprattutto, il fatto che i personaggi palestinesi non sono piatti, ma presentano molteplici sfaccettature, ossia non si fanno soltanto esplodere in una discoteca o in una fermata del bus, ma parlano (nella loro lingua!), hanno sentimenti, sognano, mangiano, fanno l’amore, esprimono desideri e anche una certa razionalità e capacità di azione. Ciò che si apprezza, insomma, è l’umanizzazione dei palestinesi, fatto per nulla scontato nella storia delle fiction israeliane15.

Come si deve valutare questo bon ton del serial nella rappresentazione dei palestinesi? Come volontà di costruire un racconto ricco delle vite “di entrambi i lati del conflitto”, oppure come semplice necessità narrativa? Dopo 48 episodi suddivisi in quattro stagioni si può rispondere senza esitazione a tale domanda: è soprattutto il bisogno di costruire una fiction moderna, capace di parlare un linguaggio universale, a spingere i creatori ad assegnare spazio e una certa ricchezza psicologica ai personaggi palestinesi. In altre parole, è il mercato. La serialità di ultima generazione, com’è noto, è una serialità complessa16 che si distingue per il rifiuto delle trame schematiche oltre che per la ricercatezza estetica.

Non avrebbero molto spazio nel mercato delle piattaforme digitali quelle fiction in cui i personaggi (negativi) sono rappresentati senza storia, corpo, emozioni e cervello, non solo perché il pubblico le rifiuterebbe, avendo costruito negli anni di visione una certa prospettiva da sceneggiatore (“script-writer stance of the viewer” direbbe Herta Herzog17), ma anche perché non potrebbero prolungarsi in molte stagioni, respingendo così gli investitori, solitamente attratti da progetti lunghi che garantiscono maggiori profitti.

Anche l’ampio uso della lingua araba o la partecipazione di attori e comparse palestinesi in Fauda potrebbe essere letta nella prospettiva del mercato: costano molto meno degli israeliani e assicurano risparmi alla produzione18. Il mercato è un soggetto silente, ma fortemente prescrittivo nella costruzione delle narrazioni audiovisive a esso destinate. Non tenerne conto può portare l’interprete a formulare valutazioni superficiali o fuorvianti.

La complessità, in altre parole, non significa automaticamente volontà di rappresentare una storia senza manipolazione o disinformazione. Al contrario, attraverso la messa in scena della complessità si possono più agevolmente legittimare o normalizzare certe realtà concrete. Un esempio in questo senso è rappresentato dal numero di palestinesi (e altri arabi nella quarta stagione) uccisi dall’unità antiterrorismo nelle quattro stagioni di Fauda: 158 (14 nella prima, 29 nella seconda, 59 nella terza e 56 nella quarta), a fronte di 42 israeliani, i cui corpi morti sono raramente mostrati, al contrario di quelli palestinesi che vengono sempre esibiti. È proprio questo aspetto normalizzante della violenza spropositata nei confronti dei palestinesi (‘umanizzati’) a rivelare l’aspetto performativo del serial. L’incremento del numero delle domande dei giovani israeliani per essere arruolati nella Duvdevan Unit dell’esercito dopo la messa in onda del serial19 potrebbe essere interpretato come un indizio rilevante in questo senso.

Killer con cruccio

Nella quarta stagione, Doron e compagni sembrano di colpo invecchiati, sfiancati e, soprattutto, stanchi di uccidere e torturare i palestinesi. È proprio Doron a esprimere per primo questo disagio al capitano Gabi nel primo episodio:


Gabi: Sai, io sono più vecchio di te. Ho visto cose che neanche puoi immaginare, ma riesco ancora a dormire la notte. Mi alzo al mattino, preparo la colazione ai miei figli e sono un padre e un buon amico perché so come tenere vita e lavoro separati.
Doron: Ma non ti vergogni, Gabi? C’è qualcuno in questo mondo che non hai usato? Ho sentito come parlavi a quella tua fonte, quel dolce ragazzo che hai cresciuto.
Gabi: Sei davvero un ingrato. Non riesci nemmeno a capire che ti sto aiutando.
Doron: Mi staresti aiutando, tu? Ricordi quando volevo lasciare l’unità? Ti supplicai, ricordi, eh? E tu dicesti “Doron, un’ultima volta, solo un’ultima operazione”. Sapevi molto bene come tenermi con te. Certo che dormi bene. Non perché tu sia un buon padre e un buon amico, ma perché non te ne frega un cazzo, perché non sei mai tu ad ammazzare, ti assicuri che siamo sempre noi a premere quel fottuto grilletto […].

Qualche episodio dopo è Eli, il responsabile dell’unità, a comunicare al capitano Hila di volersene andare perché è in totale burnout. All’obiezione di questa, “Non puoi andartene ora. Siamo in guerra”, Eli ribatte: “Siamo sempre in guerra. Quand’è che cesserà il fuoco?”. Nonostante Hila provi a spiegargli che la guerra non cesserà mai (collocando così i traumi nel futuro, in ciò che deve ancora accadere), Eli formalizza ugualmente la sua volontà di mollare dando un preavviso di tre mesi ai suoi superiori. Anche Steve, uno dei veterani della squadra, vuole andarsene, lo promette solennemente alla moglie che lo vuole lasciare. Sagi e Nurit, invece, i più giovani del gruppo, nonostante provati da tanti morti, non solo non vogliono abbandonare il lavoro, ma sono disposti a sacrificare la possibilità di diventare genitori pur di continuare a stare nell’unità.

Lo stress post-traumatico per le uccisioni commesse, di cui soffrono i membri di Mista’arvim negli ultimi episodi di Fauda, rappresenta l’innovazione narrativa della quarta stagione. L’intento dei creatori, che evidentemente ambiscono a proseguire la produzione del serial, è quello di rendere più complessa la sfera professionale dei protagonisti: gli ordini gerarchici sono qui e lì messi in discussione; premere il “fottuto grilletto” pesa di più nelle coscienze; le autoriflessioni sul senso delle azioni compiute aumentano.

Tutto ciò accade però nei pochi momenti di pausa, perché quando l’azione incombe, gli uomini e le donne dell’antiterrorismo israeliano non conoscono l’esitazione. Infatti, uccidono 56 personaggi (palestinesi e arabi), tra Bruxelles, Cisgiordania e Libano, cioè soltanto tre in meno della stagione precedente. La complessità desiderata si risolve quindi con la sola aggiunta del cruccio, dell’afflizione del killer quando riposa, assumendo l’aria da superstite della propria violenza. La dialettica tra cruccio interiore ed eliminazione dei palestinesi (terroristi e non) diventa così il nuovo dispositivo ermeneutico degli eventi di Fauda, cancellando ancora una volta dall’orizzonte la storia, la realtà e le sofferenze dei palestinesi.

6O. Ben-Yehuda (2020), “The Retribution of Identity: Colonial Politics in Fauda”, Association for Jewish Studies, 44(1), pp. 1-21.

8U. Eco (1986), Travels in Hyperreality, San Diego, Harcourt.

9P. Blistène (2022), “The Bureau and the Realism of Spy Fiction”, Open Philosophy, 5, pp. 231-249.

10E. De Martino (2002), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi.

11P. Bourdieu, (2002), Campo del potere e campo intellettuale, Roma, Manifestolibri.

12F. Jameson (1990), L’inconscio politico, Milano, Garzanti.

13P. Blistène (2022), “The Bureau and the Realism of Spy Fiction”, cit.

14J. Munk (2019), “Fauda: the Israeli occupation on a Prime Time Television Drama, or, the melodrama of the enemy”, New Review of Film and Television Studies, 2, pp. 2-15

15N. Even (2019), “Chaos beyond the Screen: Fauda and Its Impact on Israeli and Palestinian Viewers”, Kedma: Penn’s Journal on Jewish Thought, Jewish Culture, and Israel, 2(4), pp. 36-53.

16J. Mittell (2015), Complex TV. The Poetcs of Contemporary Storytelling. New York, New York University Press.

17H. Herzog (1986), “Decoding Dallas”, Culture and Society, 24 (1), pp. 74-77.

18N. Lavie, A. Jamal (2019), “Constructing ethno-national differentiation on the set of the TV series, Fauda”, Ethnicities, 19(6), pp. 1038-1061.

19N. Ribke (2019), Fauda television series and the turning of asymmetrical conflict into television entertainment”, Media, Culture & Society, 1, pp. 1-16.