Tunisia. Una rivoluzione paralizzata da istituzioni impotenti

Sullo sfondo di una crisi sociale, economica e politica, la Tunisia commemora i dieci anni di una rivoluzione che ha cacciato Zin El-Abidin Ben Ali dopo 23 anni di regno totale e aperto la strada alla primavera araba. Una manifestazione ha avuto luogo giovedì 17 dicembre davanti al Parlamento, su cui si concentra la collera dei cittadini. Ma l’Assemblea dei Rappresentanti del popolo non è la sola istituzione che trema nel paesaggio della seconda Repubblica: a dispetto del processo rivoluzionario, l’operatività delle istituzioni resta incompiuta.

Piazza Mohamed Bouazizi nel centro città di Sidi Bouzid, culla della rivoluzione del 2011. Il murale rappresenta la libertà attraverso un uomo che si trasforma in uccello.
Fethi Belaid/AFP

Le radici della crisi istituzionale che vive la Tunisia risalgono al 2011. L’elezione di una Assemblea costituente nel mese di ottobre 2011, la cui missione sarebbe stata la redazione della Costituzione della seconda Repubblica, ha portato alla vittoria del partito islamista Ennahda (al-Nahda), con una maggioranza relativa ma importante di 89 seggi su 217. Questo partito ha ottenuto quasi tre volte in più dei deputati del Congrès pour la République (CPR), arrivato secondo, di Moncef Marzouki (presidente tra il 2011 e il 2014). Insieme alla Pétition populaire dell’ex nahdaoui1 Hachemi Hamdi e altri indipendenti, queste due formazioni rappresentavano il blocco conservatore della Costituente, a cui una moltitudine di partiti hanno provato a fare da contrappeso.

Composto principalmente dagli oppositori del regime (sinistra radicale, socialdemocratici, panarabisti, liberali, etc.), una parte di questo magma si è cristallizzata intorno alla figura di Béji Caïd Essebsi, più volte ministro sotto Habib Bourguiba e primo ministro nella prima fase di transizione (marzo-dicembre 2011), e del suo partito Nidaa Tounes (L’Appello della Tunisia). Se la nuova formazione ha proposto anche ex militanti di sinistra, è stata soprattutto uno strumento per riabilitare una buona parte dei quadri del Rassemblement constitutionnel démocratique (RCD), il partito di Zin El-Abidin Ben Ali, sciolto nel marzo 2011.

Una parte della sinistra radicale e dei panarabisti hanno fondato il Front populaire, intorno alla figura dello storico oppositore Hamma Hammami, leader del Parti ouvrier communiste tunisien e di Chokri Belaïd, assassinato nel febbraio 2013. La gestione dilettante della troika (composta da Ennahda, CPR e socialdemocratici di Ettakattol), al potere tra il 2011 e il 2013, combinata con l’aumento della violenza politica, che ha mostrato il suo volto con tre assassinii politici e diversi attentati jihadisti, ha accentuato la crisi politica. Dopo l’assassinio, il 25 luglio 2013, del deputato del Front populaire Mohamed Brahmi, un gigantesco sit-in si è tenuto al Bardo, davanti all’Assemblea costituente, per rivendicarne la dissoluzione insieme alle dimissioni del governo. Di fronte alla determinazione dei manifestanti raggiunti da una parte dei costituenti e dopo il colpo militare in Egitto, Ennahda ha accettato di rivedere le sue posizioni per giungere alla redazione di una Costituzione “consensuale”, votata da 200 deputati.

PREVENIRE UNA CONCENTRAZIONE DI POTERI

Questo rapporto di forza tra conservatori e “modernisti” si è riflettuto nella scelta del regime politico. Mentre Ennahda auspicava una regia parlamentare sul modello turco di allora, la maggior parte delle altre forze politiche spingevano per un regime presidenziale in cui il Capo di Stato sarebbe stato controllato dal Parlamento. Il risultato è stato un compromesso tra questi due modelli. Il Presidente della Repubblica, eletto con suffragio universale diretto, dispone essenzialmente di prerogative in materia di diplomazia e difesa nazionale. Quanto al capo del governo, indicato dalla maggioranza governativa, questi detiene il potere esecutivo. Rispetto a ciò, la Costituzione del 2014 poggia su una logica coerente: si tratta di impedire la concentrazione di potere nelle mani di una persona o di un gruppo, mettendo in atto un numero importante di contro-poteri.

Per prendere in considerazione il disequilibrio tra le regioni – aspetto fra i motori della rivoluzione - la legge fondamentale prevede la messa in atto di una decentralizzazione basata su una triangolazione comune-regione-distretto, al fine di trasferire una parte del potere alle collettività territoriali elette, senza però trasformare la Tunisia in uno stato federale. Sempre nell’ottica di prevenire il ritorno a un potere troppo forte, la creazione di istanze costituzionali indipendenti è stata prevista al fine di rinforzare la democrazia e lo Stato di diritto. Queste istanze, cinque per la precisione, sono incaricate di organizzare le elezioni, regolare i media audiovisivi, lottare contro la corruzione, vegliare al rispetto dei diritti umani e promuovere lo sviluppo sostenibile. Inoltre, una Corte Costituzionale doveva garantire la conformità delle leggi attuali e future con i nuovi principi supportati dalla Costituzione. La sede giurisdizionale più alta sarebbe stata composta da tre quarti di specialisti in diritto e i suoi membri designati dal Presidente della Repubblica, dai deputati e dal Consiglio Superiore della Magistratura.

L’IMMOBILISMO SI INSTALLA

Lottare contro ogni rischio di egemonia è stato anche il leitmotiv della legge elettorale. Adottata nel 2011, secondo un sistema di scrutinio detto «del quoziente e dei più alti resti»2 è stato ufficialmente pensato per un’Assemblea costituente che fosse il più plurale possibile. In realtà si trattava di limitare la morsa di Ennahda, il solo partito realmente ristrutturato dopo la dissoluzione del RCD nelle prime elezioni post Ben Ali. Ma il risultato è stato diverso: con il 37% dei voti espressi, il partito islamista controllava il 41% dei seggi. A rigor di logica, si è dunque deciso di conservare lo stesso sistema elettorale per le prime elezioni legislative. Dopo il ciclo elettorale del 2014 (presidenziali e legislative), i due grandi partiti Nidaa Tounes e Ennahda, che avevano fatto campagna elettorale l’uno contro l’altro, si sono alleati. Una decisione giustificata dall’imperativo di portare a compimento la transizione democratica. Totalizzando più del 70% dei seggi, gli ex nemici disponevano così di una solida maggioranza all’ora di governare e mettere insieme le diverse istanze previste dalla Costituzione. Tuttavia, il seguito è stato ben diverso. La Corte costituzionale, che doveva essere creata al più tardi nel novembre 2015, non è ancora stata configurata. Sui quattro giudici previsti, uno solo è stato eletto. Più votazioni sono state organizzate con lo stesso esito: l’annuncio di un consenso trovato e un voto a scrutinio segreto dopo il quale però nessuno ha ottenuto i due terzi dei voti necessari. Nel 2019, è stata evocata l’idea di abbassare la soglia necessaria alla maggioranza semplice. Ma si sarebbe rischiato che la maggioranza parlamentare «sistemasse» i suoi e si limitasse così l’indipendenza della Corte. Le cinque istanze costituzionali non hanno fatto eccezione a questo immobilismo e solo l’Istanza Superiore indipendente per le elezioni (ISIE) è stata messa in funzione. La lotta contro la corruzione e la regolamentazione dei media sono sempre affidate a delle istanze provvisorie la cui legittimità è contestata da una parte della classe politica.

AUMENTO DELLA FORZA DEI REAZIONARI

C’è stato bisogno di attendere il 2018 perché il processo di decentralizzazione potesse avere avvio. Un codice delle collettività territoriali è stato promulgato appena un mese prima delle prime elezioni municipali, che hanno avuto luogo il 6 maggio. Il sistema elettorale è stato mantenuto con una soglia minima del 3%. Se questa disposizione ha limitato la dispersione delle voci, non ha tuttavia permesso di avere delle maggioranze stabili. In appena due anni, più di una decina di consigli municipali sono stati dissolti a seguito di dimissioni di gruppo. D’altra parte, i due altri livelli territoriali non sono ancora stati messi in funzione: i consigli regionali continuano a dipendere dal potere centrale e i distretti non sono ancora stati creati. La combinazione di tutti questi intoppi contribuisce largamente alla crisi attuale. La morte del Presidente della Repubblica Béji Caïd Essebsi nel luglio 2019 ha fatto precipitare la tenuta delle elezioni presidenziali, inserendo le legislative entro i suoi due turni. Il Parlamento ottenuto dal voto del 6 ottobre 2019 è stato il più frammentato di tutta la storia della Tunisia post Ben Ali. Ennahda, anche se sempre in testa, stavolta non ha ottenuto che un quarto dell’Assemblea. Questo disequilibrio si è tradotto nel rifiuto del governo Jemli (proposto da Ennahda) nel gennaio 2020. Un mese e mezzo dopo, i deputati hanno accordato la fiducia al nuovo capo di governo Elyès Fakhfakh, scelto dal presidente Kaïs Saïed, per paura di una dissoluzione del Parlamento.

Oltre alla disgregazione parlamentare, l’elezione del 2019 ha visto emergere due forze politiche che mettono in discussione i consensi raggiunti dopo la caduta di Ben Ali. Da una parte, il Parti destourien libre di Abir Moussi mostra un legame con l’antico regime e guarda alla chiusura della parentesi rivoluzionaria, che rifiuta in blocco. E dall’altra, la Coalizione della dignità (Al-Karama), un fronte islamico-conservatore che si situa a destra di Ennahda, contesta i compromessi fatti da islamisti e laicisti su questioni sociali. Dall’inizio della legislatura, il confronto tra questi due poli reazionari non cessa di agitare la vita parlamentare. Nel frattempo, ha visto la luce un’alleanza opportunista tra Ennahda, partito di maggioranza governativa, e i due gruppi di opposizione: Qalb Tunis dell’uomo d’affari Nabil Karoui e Al-Karama. Da questa configurazione è rimasto escluso Fakhfakh a causa di alcuni sospetti di conflitto d’interesse, mentre è stato incluso il suo successore Hichem Mechichi. Il principale punto di convergenza di questo trio riguarda l’opposizione a ogni regolamentazione del settore audiovisivo, considerato il ruolo dei loro media (Nessma TV che rifiuta di conformarsi alla legge e Zeitouna TV che trasmette senza licenze) nella loro rielezione.

LA SECONDA REPUBBLICA NELLIMPASSE

L’instabilità politica, coniugata alla crisi economica, sociale e sanitaria, non ha fatto che aumentare la sfiducia dei tunisini verso un parlamento che gode di un’opinione molto scarsa nei sondaggi. Il 4 dicembre 2020, un deputato di Al-Karama ha approfittato della discussione del budget del Ministero della Donna per avanzare delle proposte apertamente misogine. Alcuni deputati, a causa delle sue dichiarazioni, sono arrivati alla violenza fisica. Di fronte all’accaduto, il Presidente della Repubblica ha promesso un intervento severo. Da allora, sempre più personalità chiedono lo scioglimento dell’Assemblea. In realtà, quest’eventualità non è prevista dalla Costituzione, che prevede l’organizzazione di elezioni anticipate solo in caso di mancata formazione di un governo in quattro mesi di tentativi. Inoltre, senza un profondo cambiamento del sistema di voto, è molto probabile che nuove elezioni portino al rinnovo della stessa maggioranza parlamentare. Mentre nel paese si diffondono numerosi movimenti di contestazione e la crisi riguarda un numero sempre maggiore di cittadini, la speranza di una democrazia che porti a un avvenire sereno svanisce di giorno in giorno. Di fronte all’impossibilità di sbarazzarsi di una classe politica percepita come irresponsabile, posizioni radicali si esprimono sempre più apertamente, facendo temere una restaurazione autoritaria. In assenza di un sussulto da parte dei principali attori politici, la seconda repubblica rischia di sparire, e con essa un’esperienza rivoluzionaria che ha fatto soffiare in tutta la regione un vento di speranza.

1Membro di Ennahda

2Con questa modalità di scrutinio si calcola il quoziente elettorale dividendo il numero dei voti per il numero dei seggi. Si effettua la divisione intera del numero dei voti ottenuti da ciascun partito per questo quoziente elettorale. Si ottiene il quoziente intero e si calcola il resto della divisione. I seggi sono prima di tutto assegnati secondo il quoziente intero. Poi i seggi non ancora attribuiti sono distribuiti tra i partiti nell’ordine dei resti più alti.