Crisi

Egitto. Un’economia al collasso

Rinunciando sul piano economico a due prerogative che spettano allo Stato, il presidente Abdel Fattah Al-Sisi ha preso le distanze dalla propria storia nazionale, con una buona dose di rischio. È ancora troppo presto per dire se le sue riforme avranno un reale effetto, ma si può dire già da ora che a perdere sarà la maggior parte dei cittadini.

Dal 2022, il prezzo di un dollaro è aumentato da 17 a oltre 30 lire egiziane.
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Mercoledì 6 marzo, l’Egitto ha compiuto un grande passo a tutto vantaggio degli uomini d’affari e del mercato azionario. Il regime militare ha preso due decisioni storiche che, se applicate nel tempo, potrebbero portare a un profondo cambiamento nell’economia nazionale. La prima e più evidente è la riforma del mercato valutario. Prima delle attuali riforme, era la Banca centrale d’Egitto (BCE), sottoposta al totale controllo dello Stato, che si occupava di regolare il valore della lira egiziana (LE) in rapporto al dollaro o all’euro. Con le riforme, il valore sarà determinato dal rapporto tra la domanda e l’offerta di valuta estera. E così mentre la valuta estera scarseggia da oltre due anni a causa della guerra tra Russia e Ucraina, sale il prezzo del cambio in lire egiziane, generando una carenza di liquidità. Dal 2022, siamo alla quarta svalutazione monetaria (la terza negli ultimi 12 mesi) da parte della Banca centrale d’Egitto, passando da 17 a oltre 30 LE per 1 dollaro. Sul mercato nero, il dollaro ha raggiunto gli oltre 70 LE. E nei prossimi anni, il rapporto tra la moneta nazionale e le altre valute potrebbe essere stabilito quotidianamente.

La rinuncia da parte dello Stato

La seconda riforma riguarda i mercati finanziari. Finora, il risparmio nazionale ha fruttato tassi di interesse inferiori all’aumento dei prezzi. Una sorta di “repressione finanziaria”, denunciata dalla minoranza benestante – oggi l’unica in grado di generare risparmi –, che però sembra destinata a finire. Da qui si è immediatamente verificata un’ondata di speculazioni. Per un periodo imprecisato, i tassi d’interesse dovrebbero essere superiori all’inflazione e rivisti giornalmente sulla base della domanda e dell’offerta di credito. Il 6 marzo, il tasso di spread è sceso grazie a un forte aumento dei tassi di interesse dal +6% a un valore compreso tra il 24% e il 30%.

La vera novità politica è che il governo egiziano ha di fatto rinunciato allo storico controllo, inaugurato dal presidente Gamal Abdel Nasser negli anni ’50, di due strumenti chiave sul mercato: il tasso di cambio e il costo del denaro. Una rivoluzione non nata in Egitto, come affermato dal primo ministro Mostafa Madbouly giovedì 7 marzo ad Alessandria, ma su pressione del Fondo monetario internazionale (FMI). La direttrice generale, Kristalina Georgieva, economista bulgara che si è formata in epoca sovietica, ha intensificato la sua presenza al Cairo, rifiutandosi ostinatamente, in assenza di un accordo sui tassi di cambio, di aumentare il valore dei prestiti: tre miliardi di dollari (2,76 miliardi di euro) in tre anni rappresentano una miseria per il paese arabo, di gran lunga, più popoloso.

A seguito delle riforme del 6 marzo, i prestiti del FMI ammontano a oltre nove miliardi (8,27 miliardi di euro), ma la Banca Mondiale e l’Unione Europea si sono impegnate a fornirne altri 15. A questo bisogna aggiungere un’oscura operazione immobiliare messa in piedi con i capitali degli Emirati Arabi Uniti, che porterebbe altri 35 miliardi di dollari (32,15 miliardi di euro), di cui cinque disponibili subito. Al Cairo contano anche sul denaro degli emigrati che transita per lo più sul mercato nero (circa trenta miliardi di dollari in un anno), ma che dovrebbe rientrare attraverso canali legali.

I poveri sono le prime vittime

Questa manna dal cielo sarà in grado di stabilizzare un’economia che è esposta a uno shock senza precedenti? Un dollaro pari a 50 LE e i tassi di interesse del 30% stanno rendendo insostenibile la vita quotidiana di oltre 106 milioni di egiziani. Con un’inflazione annua superiore al 35%, le prime vittime sono i prezzi e il lavoro. Per i poveri, quasi il 60% della popolazione, sfamarsi sta diventando un compito arduo. Per le imprese, grandi e piccole, il prezzo delle importazioni, in gran parte da pagare in valuta estera, rende le materie prime quasi inaccessibili. Il giudizio di Moody’s, una delle due principali agenzie di rating americane, che oggi dà un giudizio positivo sugli investimenti in Egitto, cambia ben poco nell’immediato.

Le aspettative dei vari protagonisti del mondo economico sono destinate a giocare un ruolo chiave. Se prevedono una ripresa del circolo vizioso dei prezzi sul mercato interno e dei tassi di cambio, il dollaro a 50 LE sarà presto un ricordo, soprattutto perché, da inizio anno, è già arrivato a 72 LE. Se i prestiti promessi, spesso associati a progetti industriali o infrastrutturali, non dovessero arrivare o subire lungaggini, la stabilizzazione potrebbe essere compromessa o prorogata.

Un altro scoglio è rappresentato dallo stato disperato in cui versano le finanze pubbliche. L’onere del debito, cioè il pagamento degli interessi dovuti sul debito pubblico, grava sui due terzi delle entrate del bilancio. Resta a malapena un terzo per aiutare i più poveri a non morire di fame, per pagare (male) svariati milioni di dipendenti pubblici, per la formazione dei giovani e far fronte alle spese dell’esercito. La ristrutturazione del debito, come è stato fatto negli anni ‘90 all’indomani della prima guerra del Golfo, non rientra oggi tra le priorità. La diplomazia internazionale non è in grado di trovare un accordo per risolvere la crisi che sta colpendo quasi tutti i paesi emergenti, non produttori di petrolio.

Senza una soluzione, l’Egitto tornerà sui mercati finanziari internazionali come ha fatto tra il 2013 e il 2021? È alquanto improbabile. Bisognerà quindi ricorrere a iniezioni di liquidità, rilanciando la caccia al dollaro, prima di tornare sulle riforme del 6 marzo.

Impossibile “smilitarizzare” l’economia

Resta, in ultimo, il compito più difficile: adeguare il resto dell’economia alla nuova liberalizzazione del tasso di cambio e della moneta. Un provvedimento che richiede di “smilitarizzare” un’economia che è stata nelle mani dei generali per oltre 10 anni. Sovvenzioni, prestiti non restituiti, privilegi di ogni tipo, fiscalità assente, condoni hanno condotto l’economia su un binario morto. L’enorme debito del paese (tra i 160 e i 300 miliardi di dollari, secondo le stime) è andato soprattutto a finanziare il settore del cemento. Da sola, la nuova capitale amministrativa1, ad oggi non ancora attiva, è costata oltre 60 miliardi di dollari. Altre cinque nuove città sono perdute nel deserto e ce ne sono decine di altre in cantiere. Colossali investimenti che non hanno prodotto nulla, salvo fruttare affari per gli uomini in divisa che hanno le mani in pasta.

Nel resto dell’economia, non ci sono stati investimenti nella produzione. Solo gli stranieri hanno tentato qualche operazione nel campo dell’industria petrolifera e nel turismo. La borghesia, un tempo molto attiva sotto il governo dell’ex presidente Mubarak, non dà più segni di vita, arrecando ulteriori squilibri a un’economia fortemente indebita.

Il presidente Abdel Fattah Al-Sisi e il primo ministro egiziano hanno promesso, grazie alle misure introdotte, il ritorno dei dollari e un calo dei prezzi. Lo scetticismo resta però d’obbligo, dal momento che le riforme potrebbero non avere alcun effetto positivo né sull’economia, né per gli egiziani.

1Chiamata anche Wedian o Al-Masa, la nuova città, in costruzione dal 2016, è destinata a diventare la capitale al posto del Cairo. Il luogo si trova a circa 45 chilometri a est del Cairo, in mezzo al deserto.