Inchiesta

“Haaretz”, il giornale di opposizione in Israele

“Israele è ora sull’orlo di una rivoluzione di destra, religiosa e autoritaria”, così titolava il quotidiano israeliano Haaretz all’indomani della tornata elettorale del 1 novembre 2022, che ha visto il ritorno al potere della coalizione dell’estrema destra e la negazione del sistema d’oppressione in Palestina. Dopo il fallimento delle forze tradizionali di sinistra, il giornale di area liberal, Haaretz, sta mantenendo la sua linea di coerente opposizione alle politiche ufficiali. Inchiesta su un quotidiano diverso dagli altri.

La redazione di Haaretz al 21 di Shoken Street a Tel Aviv, 24 luglio 2019.
Deror Avi/Wikimedia Commons

Arrivi in Israele, compri Haaretz e scopri un titolo del genere: “Mettete il materiale nei pozzi. Documenti puntano il dito contro l’esercito israeliano per la guerra batteriologica nel 1948”1. Mentre stai leggendo l’articolo, vieni a sapere che è stato dato l’ordine di avvelenare i pozzi dei villaggi palestinesi durante la guerra civile tra le forze dello Yishuv (l’insediamento ebraico in Palestina antecedente alla nascita dello Stato di Israele) e quelle della popolazione autoctona nel periodo precedente e successivo alla creazione di Israele, il 15 maggio 1948. Ideata sotto la guida del futuro primo ministro David Ben Gurion e del suo futuro capo di stato maggiore Yigael Yadin, l’operazione fu chiamata col nome in codice “Cast Thy Bread”2 (“Spargi il tuo pane”), per impedire il ritorno dei palestinesi dopo la loro espulsione. I documenti dimostrano che il generale Yohanan Ratner chiese un ordine scritto, che gli fu rifiutato. Yadin scrisse agli organi militari che dovevano agire “nel più assoluto segreto”. I primi avvelenamenti avvennero nell’aprile 1948 vicino a San Giovanni d’Acri e nei villaggi nei pressi di Gaza. Alla fine, questa tattica, assai poco efficace, fu rapidamente abbandonata.

Rivelazioni sui crimini del passato

Scoop di questo tipo, che parlano del modo in cui Israele ha espulso i palestinesi dalle loro terre, Haaretz, il “giornale di riferimento” israeliano, oggi li pubblica a un ritmo frenetico. Si basano, spesso, sul lavoro di un giovane storico, Adam Raz, che, nel 2015, ha creato un gruppo di lavoro, l’Istituto di ricerca sul conflitto israelo-palestinese Akevot, un termine che, in ebraico, vuol dire “tracce”. Raz cerca le tracce nascoste del passato israeliano che la storiografia ufficiale ha cancellato per mascherare, accuratamente, i fatti messi in ombra dalla versione epica. Lo storico pubblica sistematicamente i suoi scoop sulle pagine di Haaretz.

Il giornale impiega quasi a tempo pieno un giornalista (Ofer Aderet) che segue il lavoro degli storici che “decostruiscono” totalmente i vecchi racconti ufficiali. Lo stesso Raz, che ha scritto diversi libri (tra cui, nel 2018, Kafr Qasim Massacre sul massacro di Kafr Qasim), ha pubblicato negli ultimi anni su Haaretz o ha visto i suoi lavori citati lì da Aderet in una serie di articoli di fuoco sulla Nakba, sui massacri rimasti in ombra, ma anche su questioni come l’integrazione dei nuovi ebrei orientali arrivati negli anni ’50. “Né Yedioth Aharonot (il quotidiano più letto nel paese), né alcun altro giornale israeliano avrebbe pubblicato articoli simili”, ci confida. “A parte Haaretz”, secondo lo storico, “tutti i principali media difendono la “versione ufficiale” sul passato di Israele”.

Ma non è solo sul passato che il quotidiano rivela notizie che gli altri celano. Anche sulla realtà attuale, Haaretz si distingue per una copertura giornalistica unica nel suo paese. “Non abbiamo paura di affrontare i temi più controversi. Nessun altro quotidiano pubblica in maniera sistematica e coerente le informazioni come le diffondiamo noi”, spiega Hagar Shezaf, un giovane reporter che si occupa dei territori palestinesi occupati. “Un giornalista come Nir Hasson ha documentato in modo eccezionale per un decennio la giudaizzazione di Gerusalemme e la conseguente incredibile segregazione dei residenti palestinesi. È lui che incarna la nuova linea editoriale del giornale”, continua una delle firme più conosciute a livello internazionale, Amira Hass, che si occupa dei territori palestinesi dal 1993.

La “svolta” di cui parla Hass si articola in tre direzioni, spiega Noa Landau, vicedirettrice editoriale: “Prima di tutto, noi siamo un quotidiano liberal” – nel senso anglosassone del termine: di orientamento progressista. “Ed è chiaro che siamo specializzati su notizie che trattano l’occupazione della Palestina, le condizioni degli immigrati e i diritti umani”.

L’estrema colonizzazione della società

Per spiegare questa nuova fase, i giornalisti sottolineano due tendenze convergenti. La prima è il costante rafforzamento della colonizzazione israeliana dei territori occupati; la seconda è la radicalizzazione in senso coloniale sia della società israeliana che della sua rappresentanza politica. Tendenze che hanno gradualmente spinto la redazione verso forme di “resistenza” più o meno forti, dovute alla sensazione di un crescente pericolo, non tanto per i palestinesi quanto per la “democrazia israeliana”. Amos Schocken, amministratore delegato del giornale dal 1992, incarna la versione moderata, ma intransigente di questo nuovo orientamento.

Sul suo impegno politico, dice: “Sì, sono sionista. Però, quando si crede al sionismo espresso nella dichiarazione d’indipendenza di Israele, non si può accettare la legge sullo Stato-nazione del popolo ebraico, una legge di carattere fascista”, sostiene Schocken. Votata nel 2018, la cosiddetta “Legge fondamentale” (a carattere costituzionale) si riferisce a due categorie di cittadini: gli ebrei, che hanno tutti i diritti, e gli altri (cioè i palestinesi), che, anche se cittadini, non ne godono appieno. “Ci porterà alla rovina”, ripete Schocken. Haaretz si è opposto alla legge sullo Stato-nazione già nel 2011, fin dalla sua prima presentazione in Parlamento.

E proprio il 2011 è l’anno dell’assunzione dell’incarico dell’attuale caporedattore, Aluf Benn. Ma “il processo di scrivere liberamente sulla condizione dei palestinesi era già cominciato con l’ex direttore editoriale” (Dov Alfon, oggi direttore dello storico quotidiano francese Libération), sottolinea Gideon Levy, uno degli opinionisti più impegnati (sostiene anche il movimento di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni – BDS). A suo avviso, “per molto tempo è stato impossibile scrivere su Haaretz che il sionismo in sé induceva a un suprematismo ebraico. Sotto la guida di Benn, termini come crimine di guerra, apartheid, supremazia ebraica sono diventati legittimi” all’interno del giornale. Da allora, assistiamo a un paradosso: il governo israeliano sta cercando di convincere il mondo intero che l’uso del termine apartheid per qualificare il regime imposto ai palestinesi sia un’espressione di antisemitismo. E invece, all’interno della più famosa testata israeliana, dice Anat Kamm, una giovane giornalista che lavora alle pagine del sito web del giornale, “c’è un profondo dibattito sull’uso del termine apartheid. Ma è possibile solo perché si basa su un accordo collettivo: la libertà di parola è sacra”.

Cambiamenti semantici che vanno di pari passo con diversi altri. “Per molto tempo”, ammette Aluf Benn, “abbiamo pensato che l’occupazione della Palestina sarebbe stata temporanea. Adesso è chiaro che è diventata permanente. Trent’anni fa, quando i soldati uccidevano un bambino, ci si poteva aspettare l’apertura di un’indagine. Oggi l’esercito avalla tutto. Non si fanno più inchieste”. Questo spiega la nascita di organizzazioni come Breaking the Silence3, una Ong israeliana di veterani che rende testimonianza delle azioni dell’esercito nei territori occupati. E questo è anche ciò che ha spinto Haaretz a cambiare linea: “La maggior parte dei giornali non pubblica alcuna notizia sulla realtà dell’occupazione. Al contrario, su questo aspetto, noi occupiamo una posizione unica”.

Un’altra svolta importante è l’aver affrontato la discriminazione degli israeliani di origine orientale, un fenomeno che negli anni si è molto esteso. A seguirla per Haaretz c’è Iris Leal, di origine orientale e che contribuisce anche alle pagine letterarie.

Leal riconosce al suo giornale di aver impedito che “la questione dei bambini yemeniti fosse nascosta sotto il tappeto”. Un caso risalente ai primi anni ’50 e che resta motivo di forti tensioni. Centinaia di bambini nati da genitori provenienti per lo più dallo Yemen e da altri paesi musulmani sarebbero stati illegalmente dichiarati morti ai loro genitori per essere dati segretamente in adozione a coppie ashkenazite incapaci di procreare (tra cui anche dei sopravvissuti ai campi di sterminio). Sono 50 anni che è in corso un acceso dibattito tra chi denuncia un “crimine di Stato” di portata insospettabile e chi nega questa ricostruzione “inventata”, senza che se ne venga a capo. Haaretz, sostiene Leal, ha dato ampiamente voce a chi sostiene che queste siano notizie false. Ma Alon Idan, che sta seguendo il dibattitto, ha aperto alle “voci discordanti”, dando ampio spazio ai sostenitori del presunto “crimine di Stato”.

L’arabizzazione della redazione

Ma il cambio più clamoroso di Haaretz è senza dubbio l’inizio della “arabizzazione” della sua redazione. Nel 2000, Noa Landau ha lanciato il progetto Haaretz 21 con l’obiettivo di reclutare giornalisti palestinesi con cittadinanzai israeliana. “La situazione non poteva più andare avanti. Avevamo bisogno di palestinesi nella redazione per due motivi: essere in linea con i nostri valori, basati sull’uguaglianza dei diritti dei cittadini israeliani, e, cosa più importante, dare ai nostri lettori una visione dell’altro, che gli israeliani non vedono quasi mai. Il problema è che, per un palestinese, non c’era alcuna possibilità di fare formazione nel campo del giornalismo all’interno del sistema israeliano. E così abbiamo lanciato l’iniziativa Haaretz 21, che è stata una fucina. Il primo corso ha visto la partecipazione di venti persone, cinque delle quali oggi lavorano al giornale”. Il secondo corso partirà tra un anno, e 5-6 nuovi giornalisti palestinesi saranno assunti.

Sheren Falah Saab è stata tra le prime prescelte. Oggi si occupa soprattutto di società e cultura dei palestinesi cittadini israeliani, quasi mai affrontate dalla stampa. I suoi articoli sono spesso pubblicati nel supplemento culturale Galleria. Quando le chiediamo della sua identità, risponde che è “complessa”. Senza rinnegare la sua cittadinanza israeliana, si sente “a volte palestinese, a volte araba, o spesso le due cose insieme”. Per di più, Saab è di origine drusa4, un’identità che riemerge in determinate circostanze. In breve, vive “i conflitti d’identità interiori della maggior parte dei palestinesi cittadini israeliani e che, per molti versi, sono dovuti alla politica imposta da Israele”.

Una palestinese che scrive su un giornale israeliano? All’inizio, gli amici la guardavano con sospetto. Ora non più. Dice anche di “non sentirsi un’estranea” all’interno della redazione. Uno dei suoi ultimi articoli, “La tragica vita di Ghassan Kanafani”5, parla di un uomo simbolo della lotta palestinese. Kanafani, poeta e portavoce del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), fu assassinato a Beirut da un commando israeliano, l’8 luglio 1972. Falah Saab gli ha dedicato tre pagine nel supplemento settimanale, a partire dal libro di un ex giornalista di Haaretz, Danny Rubinstein. All’epoca, tutta Israele aveva ritenuto legittima l’uccisione di un “terrorista”. Oggi, Rubinstein scrive che Kanafani “non aveva guardie del corpo. E non aveva nemmeno cambiato casa, perché non immaginava che Israele potesse considerarlo un terrorista”. Sheren racconta solo la storia di un uomo che una parte della società vede come un mostro, mentre l’altra lo considera un eroe.

“Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza l’editore del giornale, Amos Shocken”, un magnate progressista spesso oggetto d’insulti da parte della destra israeliana come lo è Georges Soros da parte dei circoli trumpisti americani, sottolinea Gideon Levy. “Se Yediot Aharonot scomparisse, Israele continuerebbe ad essere la stessa. Ma se non ci fosse Haaretz, nessuno parlerebbe più dei territori palestinesi, né dei rischi ambientali o della repressione nei confronti delle donne”. Anche Aluf Benn è dello stesso avviso. “Siamo diventati l’unico polo d’opposizione nel paese? In un certo senso, sì. La domanda - si chiede – è

Perché è successo? È l’espressione di una debolezza?. A parte i coloni e i militari, la gente non va nei territori occupati. In questo momento c’è un’insurrezione duramente repressa a Jenin e Nablus. Né il governo, né l’esercito hanno dato la benché minima spiegazione. E nessuno fa domande. Stessa cosa per i continui bombardamenti israeliani in Siria. In realtà, quindici anni dopo la fine della Seconda intifada, la maggior parte della gente non è interessata a ciò che accade ai palestinesi.

“Appunto per questo”, conclude il direttore editoriale, “se riportare i fatti che nessuno vuole conoscere ci rende unici, è anche perché molte cose sono cambiate negli ultimi decenni”. A modo suo, è d’accordo anche la giornalista Anat Kamm: “Sì, Haaretz costituisce de facto l’unica opposizione al governo israeliano, ma questo stato di cose ne maschera un altro: il giornale ha argomentazioni convincenti solo per chi era convinto già prima”.

Una critica di sinistra

Se Haaretz suscita reazioni indignate nella maggior parte degli israeliani, spesso arrivano critiche anche dai media alternativi contrari all’occupazione. E’ il caso, ad esempio, del sito Local Call con la sua versione inglese +972 Magazine. Alcuni suoi giornalisti e soprattutto utenti, criticano la propensione di Haaretz a mantenere una linea moderata nel criticare l’operato delle autorità israeliane. Soprattutto, nota la regista Anat Even, Local Call è l’unico media ad essere “davvero binazionale”. Tra le sue firme come tra i redattori, ci sono giornalisti sia palestinesi sia israeliani.

D’altronde, anche all’interno di Haaretz si levano voci critiche. Corrispondente dai territori palestinesi occupati dove vive dal 1993, Amira Hass riconosce che il suo giornale non ha eguali in Israele. “Oggi pubblichiamo articoli e notizie che non sarebbero mai apparse prima e offriamo ai palestinesi un’esposizione mediatica che non hanno nei media principali”. Ma aggiunge:

Haaretz dà la sensazione di riuscire a fare tanto. Rispetto ad altri, mi sembra anche ovvio. Ma avvengono talmente tante cose rispetto a quanto riportato - che si tratti di uccisioni di bambini da parte dei soldati, attacchi dei coloni contro agricoltori palestinesi o dei metodi israeliani per occupare territori. Forse con dieci giornalisti in più ce la potremmo fare, se il rating6 in più lo permettesse”.

Secondo Amira Hass, sarebbe necessario focalizzare l’attenzione tanto sulla società palestinese quanto sugli scontri quotidiani. Non è l’unica a far presente questa mancanza. Tra gli intervistati, molti mi hanno parlato dei cosiddetti “telaviviani”, in maggioranza per numero all’interno della redazione. Il termine si riferisce a una certa “sinistra radical chic”, che nel complesso è progressista, ma che non ha alcun reale interesse per la vita dei palestinesi. Amira Hass insiste anche sul “vocabolario” della redazione che, per quanto riguarda i palestinesi, “non è ancora abbastanza affrancato dal linguaggio ufficiale”.

Un esempio: se aumenta il numero degli attacchi palestinesi, il termine escalation, subito ripetuto con insistenza dai portavoce militari israeliani, viene ripreso alla lettera, spesso per abitudine, all’interno del giornale. “Ma la rapida colonizzazione, il processo più costante e aggressivo di tutti, non viene mai definita un’escalation”. Altro esempio: “Una città o un villaggio palestinese sono spesso indicati dalla stampa, compresa Haaretz, in base alla loro vicinanza a una colonia. Cosa che dà una falsa impressione di coesistenza e di normalità. Invece di scrivere che la città di Salfit è vicina all’insediamento di Ariel (una grande colonia israeliana), io scriverei che si trova a sud-ovest di Nablus e che Ariel è stata costruita intorno al suo territorio”. Ma insiste anche sul fatto che ad Haaretz “si gode di una libertà di scrittura che non esiste negli altri grandi media israeliani, dove tutti praticano una diffusa autocensura non appena si affronta il tema dell’occupazione e della colonizzazione”.

Un impatto a livello internazionale

Da questo punto di vista, che impatto ha Haaretz sulla sua società? In questo caso, i giornalisti hanno opinioni un po’ diverse. Sheren Falah Saab ritiene che sia possibile “cambiare un po’ le cose”. Lo vede dai messaggi che riceve, anche se arrivano un bel po’ d’insulti. Hagar Shezaf risponde che “a volte ci sono delle piccole soddisfazioni, come ad esempio obbligare l’esercito a modificare una dichiarazione. Ma se facessi il mio lavoro con la speranza di cambiare le cose, sono convinta che cadrei in una profonda depressione”. Gideon Levy pensa, purtroppo, che l’influenza del suo giornale sulla società israeliana sia “quasi pari a zero”. Di contro, continua Levy, il suo impatto a livello internazionale è ormai avviato. In tutto il mondo, leader politici, uomini d’affari, diplomatici, accademici, chiunque sia interessato al Vicino Oriente “sa che non ci sono altri giornali come Haaretz per avere notizie affidabili”. Anche senza modificare i rapporti di forza internazionali o impedire i successi diplomatici di Israele, il giornale è diventato un’autorevole fonte del continuo danno d’immagine di questo Stato nel mondo.

Infine, Noa Landau ritiene che sia prematuro fare un vero bilancio della nuova linea di Haaretz. Ai suoi occhi, il più grande successo del giornale resta sostanzialmente quello di aver impedito il tentativo del governo israeliano di “cancellare la Nakba dal dibattito pubblico”, cosa che aveva cercato di fare Benjamin Netanyahu. E, soprattutto, è convinta che il successo più convincente del giornale si vedrà in futuro perchè “si stanno formando gruppi ebrei-arabi”. Come nel caso di Standing Together, un’associazione che lotta per la parità salariale tra israeliani e palestinesi in Israele. “Sempre più persone, a sinistra, capiscono che non ci sarà futuro in Israele senza tener conto dell’opinione araba. Si sta rafforzando e andrà avanti la tendenza a lavorare insieme, palestinesi e israeliani”. Solo il tempo ci dirà se la strada è giusta, ma in ogni caso è quella che Haaretz intende portare avanti.

1Ofer Aderet, « Place the Material in the Wells’: Docs Point to Israeli Army’s 1948 Biological Warfare » Haaretz, 14 ottobre 2022.

2Citazione biblica dall’Ecclesiaste 11:1-10.

4I Drusi sono gli appartenenti a un gruppo etnoreligioso costituito dai seguaci di una dottrina monoteista di derivazione musulmana sciita. Originari dell’Egitto, nel corso dei secoli hanno trovato rifugio in Libano e in Siria, dove ancora risiedono, come pure in Israele, nelle Alture del Golan, in Cisgiordania e in Giordania.[NdT].

5Sheren Falah Saab, “The tragic life of Ghassan Kanafani”, Haaretz, 11 ottobre 2022.

6Il rating è l’esposizione su un sito web di un argomento in proporzione al livello di interesse manifestato in precedenza dai lettori.