Diario da Gaza 69

“Prima di ricostruire Gaza, sarà necessario ricostruire noi stessi”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Il 12 ottobre 2024, Rami ha ricevuto, per il suo Diario da Gaza, tre riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine mostra una scala a chiocciola danneggiata all'interno di un edificio in rovina. La struttura presenta macerie sparse e parte del soffitto è crollato, creando un'apertura sopra la scala. Una persona, vestita con un abbigliamento rosso e coperta da un copricapo, sta camminando sulla scala tra le macerie. L'atmosfera è quella di un luogo in crisi, con segni evidenti di distruzione e abbandono.
Gaza, 11 dicembre 2024. Un bambino cammina tra le macerie verso una scala a chiocciola del centro culturale Rashad al-Shawa nella municipalità di Gaza, gravemente danneggiata dai bombardamenti israeliani.
Omar AL-QATTAA / AFP

Giovedì 9 gennaio 2025.

Oggi, nella Striscia di Gaza, sono entrati 70 camion di aiuti con forniture mediche, medicinali e carburante, consegnati direttamente all’ospedale da campo gestito dal governo giordano. Ci sono anche tante altre strutture allestite, con il consenso di Israele, dalle Ong internazionali: Medici Senza Frontiere, Medici del Mondo, International Medical Corps, l’ospedale britannico... poi ci sono gli altri punti medici gestiti dalle Ong più piccole. Non sono veri ospedali, ma strutture temporanee, progettate per zone di guerra e catastrofi naturali. Questo dimostra che gli israeliani, volendo, possono benissimo far arrivare degli aiuti umanitari senza che vengano saccheggiati o sottratti.

I camion possono entrare a Gaza per assistere una sola struttura straniera, un ospedale temporaneo, mentre i nostri ospedali, gli ospedali palestinesi di Gaza, soprattutto quelli del nord, ormai sono distrutti o inutilizzabili, come l’ospedale Kamal Adwan o l’ospedale indonesiano. Il direttore di Kamal Adwan, il pediatra Hussam Abu Safiya, è stato arrestato il 27 dicembre dall’esercito israeliano insieme ad altri del personale medico. Gli israeliani smentiscono gli arresti, il che fa temere il peggio. Al momento in cui scrivo, non ci sono notizie di questi coraggiosi medici.

“Occupati, accerchiati, bombardati”

Nella metà nord, resta solo una piccola struttura, l’ospedale al-Awda, per prestare assistenza alle circa 50.000 persone che sono ancora lì. Un chirurgo ortopedico, il dottor Adnan al-Bursh, è stato arrestato lo scorso aprile dall’esercito di occupazione. È morto sotto tortura in una prigione israeliana.

Anche nella metà sud, la situazione è ormai critica. Quando i 70 camion sono entrati nel territorio, il ministero della Salute di Gaza ha lanciato un appello per chiedere aiuto: gli ospedali ancora presenti nella metà sud presto saranno fuori uso per mancanza di carburante. È dal primo giorno di guerra che manca l’energia elettrica, da quando gli israeliani hanno bombardato le infrastrutture, spento la centrale elettrica e tagliato le tre linee ad alta tensione che rifornivano Gaza da Israele. Gli ospedali dipendono da generatori o pannelli solari, ma non bastano per far funzionare un’intera struttura. Per avere l’ossigeno, e far funzionare la terapia intensiva, i reparti di maternità, le incubatrici serve un grande generatore. Al momento della richiesta di aiuto, una donna in dialisi è morta a causa di un’interruzione di corrente elettrica.

Tutto questo chiarisce la strategia israeliana: chiudere l’intero sistema sanitario pubblico nella Striscia di Gaza. I due o tre ospedali ancora presenti nella metà sud, l’ospedale dei martiri di al-Aqsa a Deir al-Balah e l’ospedale Nasser sono stati attaccati a più riprese dall’esercito occupante. Ospedali occupati, accerchiati, bombardati più volte che ora hanno ripreso a funzionare, ma in modalità ridotta, sotto la direzione di una Ong, più come degli ospedali pubblici. Lo stesso vale per l’ospedale europeo di Rafah, bombardato e messo fuori uso. Ora si sta cercando di farlo funzionare di nuovo. Sono strutture dove manca tutto, attrezzature, carburante, medicine, ma, malgrado ciò, gli israeliani non permettono di far arrivare i rifornimenti agli ospedali.

Il settore sanitario è un esempio tra tanti. Lo stesso vale per il Ministero degli Affari Sociali. Normalmente, è il ministero che si occupa di gestire gli aiuti umanitari, gli assegni familiari, i sussidi per i più poveri, ma ora se ne occupano anche le Ong internazionali. Stesso discorso per l’istruzione. Le scuole sono tutte chiuse. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), sono tra 70 e 75 le scuole parzialmente o completamente distrutte, mentre le restanti vengono utilizzate come rifugi per gli sfollati, che non hanno più alcun posto dove andare. Sono scuole e ospedali che ospitano rifugiati che vengono regolarmente bombardati dall’esercito israeliano. È lì che sono avvenuti molti dei massacri di uomini, donne e bambini.

Curati, educati e soccorsi in tenda

Si comincia a vedere qualche iniziativa, spesso sostenuta dall’UNICEF per cercare di riprendere l’istruzione, ma non si tratta di vere e proprie scuole. Sono corsi informali per studenti, come gli ospedali, o i centri di distribuzione degli aiuti umanitari allestiti nelle tende. Si poteva allestirli in edifici più solidi. Già viviamo in tenda, ma l’intenzione degli israeliani è far sì che i nostri occhi si abituino a non vedere altro, in qualsiasi luogo. Dobbiamo accettare di essere curati per sempre in tenda, educati in tenda, soccorsi in tenda. Abituarci a vivere con gli aiuti distribuiti da organismi non governativi. La nostra dev’essere una vita di umiliazione dalla A alla Z, lontana da ogni modernità. Anche se la guerra finisse ora, la ricostruzione non sarebbe immediata. Tra il 70 e il 75 % della popolazione dipende ormai dagli aiuti umanitari.

Io la chiamo l’internazionalizzazione di Gaza perché finiremo per dipendere tutti dagli aiuti internazionali. Se in quel momento la guerra non sarà finita e noi saremo ancora a Gaza, mia moglie, Sabah, partorirà in un ospedale da campo. I figli di Sabah e nostro figlio Walid faranno i loro studi in una tenda.

È questa la guerra psicologica israeliana. La guerra non è fatta solo di israelerie, massacri, migliaia di morti, ma è anche distruggerci come esseri umani. Ci rassegniamo a cose che abbiamo categoricamente rifiutato fino a non molto tempo fa. Dopo quindici mesi di guerra, prima di poter ricostruire Gaza, sarà necessario ricostruirci come esseri umani, ricostruire noi stessi. Ma è il più forte che decide, e il più forte ha deciso di privilegiare tutto ciò che viene dall’estero, tutto ciò che può contribuire a modificare la psiche dei palestinesi. Netanyahu ha detto che avrebbe riportato Gaza indietro di 60 anni: in realtà, ci ha fatto tornare molto più indietro.

Siamo in uno stato di instabilità permanente. Instabilità geografica, per i continui spostamenti. Sotto gli ordini dell’esercito e la minaccia dei bombardamenti, vanno smontate le tende, raccogliere le proprie cose, prendere i bambini, cercare un carretto per trasportare tutto, trovare un altro posto, un pezzo di terra dove trovare rifugio. Instabilità securitaria, alimentare e sanitaria. E tutto questo per morire alla fine sotto i bombardamenti, oppure perdere ogni senso d’umanità. Non sentire più dolore. Fino ad arrivare al punto in cui, il giorno in cui ci diranno “dovete andarvene”, noi non ce ne andremo, anche se sappiamo che verremo bombardati. E questo sta accadendo sempre più spesso. Ora sono in tanti a non avere voglia di spostare ancora una volta, troppe volte. Stanno perdendo la loro umanità.

Siamo all’interno di una gabbia e ci trasciniamo verso un angolo più tranquillo, ma i fendenti di un coltello ci costringono a spostarci. Fino a quando alcuni non si muovono più perché non riescono più a sentire il coltello che affonda i colpi o, peggio, perché sono morti.

È questa la guerra a Gaza. Ora sono in corso dei negoziati, un cessate il fuoco, ecc. La popolazione è contenta perché è probabile che si arrivi a un cessate il fuoco, che tutto questo finisca presto. Ma la vera guerra la vedremo nel dopoguerra. Bisognerà ricostruirsi come esseri umani, a partire dalle relazioni sociali. Ricostruire i nostri pensieri, il nostro modo di vivere. Ci vorrà tanto tempo. Se ne avranno la possibilità, in molti lasceranno Gaza. Ma l’entità dei problemi psicologici sarà enorme tanto per chi andrà via quanto per chi deciderà di restare.