
Martedì 14 gennaio 2025.
È da due settimane che gli abitanti di Gaza sono fiduciosi su un imminente cessate il fuoco, convinti che l’accordo avverrà prima dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump. Sono tutti pronti, c’è un clima di felicità perché la gente pensa che questa volta la speranza non sarà delusa. Ne parlano tutti, i miei amici, i miei vicini, la gente al mercato... E naturalmente se ne parla anche sul mezzo di fortuna su cui viaggiamo, un carro bestiame trainato da una vecchia auto. Di solito, quando salgo su uno di questi camioncini, mi limito ad ascoltare le conversazioni senza intervenire, per tastare il polso di Gaza. Questa volta, però ho fatto una domanda. Quella che faccio a tutti quelli che incontro in questi giorni: “Quando ci sarà il cessate il fuoco, qual è la prima cosa che farai?”. Le risposte mi hanno spezzato il cuore.
“È da un anno e mezzo che non vedo mio padre”
Il mio amico Ahmed mi ha risposto: “La prima cosa che farò sarà andare a trovare mio padre”. Ahmed è con noi nella parte sud della Striscia di Gaza. La sua famiglia viveva a Gaza City. All’inizio della guerra, spinto dall’esercito di occupazione israeliano, è partito per il sud con tutta la sua famiglia. Tutti tranne suo padre, che si è categoricamente rifiutato di obbedire ed è rimasto nel nord, nel campo di Jabaliya.
L’esercito israeliano ha tagliato in due la Striscia di Gaza, vietando il passaggio da nord a sud.
È da un anno e mezzo che non vedo mio padre. Non vedo l’ora che arrivi quel momento. Spero solo che sia ancora vivo quando il cessate il fuoco ci permetterà di andare al nord. Lì bombardano 24 ore al giorno. Temo da un momento all’altro di scoprire che mio padre è stato ucciso e che riposa in pace.
Sul carro bestiame, un passeggero mi ha detto:
Non ho più notizie di mia cugina. Nel suo ultimo messaggio, mi ha scritto: “Stiamo tutti bene, grazie a Dio”. Ma il messaggio è di quasi un mese e mezzo fa. Lei è con suo marito e i loro quattro figli. Vivevano a Saftawi [un sobborgo di Gaza City]. Quando si sono intensificati i raid aerei, sono fuggiti e si sono stabiliti a Tall Zaatar [il campo profughi di Jabaliya], in un edificio che apparteneva a un loro amico. L’esercito israeliano ha circondato il campo e da allora non abbiamo più notizie. Sono ancora vivi? La casa è stata distrutta? Sono stati arrestati dagli israeliani?
L’uomo ha chiesto notizie a tre ospedali della parte nord, Al-Awda, Kamal-Adwan e l’ospedale indonesiano, quando le strutture ospedaliere erano ancora funzionanti. Nessuna notizia. Non c’erano morti o feriti con il cognome di sua cugina. Ora è ancor più preoccupato perché alcuni gli hanno detto di aver visto le immagini satellitari del luogo in cui si era rifugiata sua cugina, e che la sua casa era stata distrutta. Il mio compagno di viaggio non sa se sua cugina sia ancora viva o se è stata sepolta sotto le macerie con il marito e i figli.
Voglio solo seppellire dignitosamente mio fratello
Un altro passeggero del carro bestiame mi ha detto che la prima cosa che farà sarà andare a recuperare il corpo di suo fratello, ucciso da un quadricottero, dei piccoli droni armati che possono spuntare ovunque e in qualsiasi momento. Un paio di settimane fa, un drone ha sparato a suo fratello proprio al centro della strada tra il campo di Jabaliya e Gaza City.
La gente ha visto che era morto, ma nessuno ha osato avvicinarsi perché era troppo pericoloso. Quello che voglio è solo trovare il suo corpo e seppellirlo dignitosamente. Spero che non sia stato sbranato dai cani. E spero anche che abbia ancora i suoi vestiti, in modo da poterlo riconoscere.
Aveva le lacrime agli occhi.
Un altro mi ha risposto:
Se ci sarà un cessate il fuoco, spero di poter portare mia madre fuori da Gaza in una struttura ospedaliera per le cure oncologiche. È malata di cancro e l’unico ospedale specializzato che effettua la chemioterapia, il Turkish-Palestinian Friendship Hospital, vicino a Gaza City, è stato bombardato dagli israeliani. È dal secondo mese di guerra che l’ospedale è fuori uso. È una corsa contro il tempo perché non può essere curata qui.
È lo stesso caso del nipote di Sabah, Yussef, un ragazzo che è stato gravemente ferito in un bombardamento. È stato dimesso dall’ospedale ma non sta bene. In ospedale, i medici hanno fatto una richiesta di trasferimento. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), tra le 20.000 e le 40.000 persone a Gaza sono tra la vita e la morte. Hanno urgente bisogno di cure all’estero.
Molti di loro sono in attesa di un intervento chirurgico. Non sono ricoverati in ospedale, che non hanno più posto, almeno quelli che ancora funzionano, ma in una tenda o un telone, in condizioni di vita durissime. Un altro passeggero mi ha detto:
Vorrei sapere se la nostra casa è ancora in piedi. Si trova nella parte nord, a Beit Hanun. Mi hanno detto che è stata distrutta. Ho lavorato per oltre 25 anni in Israele per costruire quella casa di sei piani, per me e i miei figli. La casa ha anche un grande terreno con un orto e degli alberi da frutto. Non ho più notizie e nessuno può andarci.
Pianteremo le nostre tende sulle rovine delle nostre case
Quello che mi colpisce di tutte queste persone è che il loro sogno possa trasformarsi un incubo. Il loro sogno è quello di sapere se un cugino è vivo o morto, seppellire un fratello abbandonato in mezzo a una strada, vedere se la loro casa è stata rasa al suolo dalle bombe. Decine di migliaia di persone sognano di ritrovare i corpi dei loro cari sepolti sotto le macerie, per dare loro una degna sepoltura, se ci sono ancora le spoglie. O per vedere se un fratello è stato rapito dagli israeliani, e se è ancora vivo. È dal primo giorno di guerra che gli israeliani non danno alcuna notizia delle persone catturate. In passato, almeno informavano la Croce Rossa degli arresti in Cisgiordania o a Gaza. Sono migliaia le persone che risultano scomparse, di cui non si sa se sono state arrestate, dove si trovano o se sono ancora vive. Molti abitanti di Gaza vogliono andare a nord, soltanto per ritrovare i resti di un parente. Ma quello che li attende è un incubo, perché la persona scomparsa potrebbe essere morta o trovarsi in un carcere israeliano.
Gli israeliani che vivevano nella cosiddetta “Gaza Envelope”1, cioè i kibbutz costruiti al confine della Striscia, torneranno alle loro case, scuole, asili, parchi e a una vita normale. Noi, invece, saremo costretti a piantere le nostre tende sulle rovine delle nostre case. Non avremo né scuole, né asili, né parchi. Non ci sarà più alcuna infrastruttura. Non ci sarà un sistema sanitario.
Anche gli israeliani che vivevano vicino al confine libanese, e che sono stati evacuati, torneranno a casa, dopo il cessate il fuoco stipulato con Hezbollah. Migliaia di abitanti di Gaza non potranno fare la stessa cosa, perché Israele parla di creare una zona cuscinetto, una no man’s land larga almeno un chilometro all’interno della Striscia di Gaza. Anche gli altri abitanti di Gaza, se Israele permetterà loro di ritornare a casa durante la prima o la seconda fase del cessate il fuoco, vivranno un incubo. Non troveranno più nulla. Quasi tutte le città della Striscia di Gaza sono state interamente rase al suolo, da Rafah a sud a Jabaliya a nord. Sembra sia passato un terremoto. Un “israelismo” che ha distrutto tutto.
Dopo il cessate il fuoco, non ci sarà un ritorno alla vita normale. Ci sarà una seconda guerra. Il trauma psicologico è così forte che, anche se sappiamo che ci aspetta un incubo, resta un nostro desiderio. Servirebbe uno psichiatra in grado di spiegarmi come siamo arrivati fino a questo punto. Dopo il cessate il fuoco, non riusciremo più a vivere una vita normale. Si fermerà la macchina da guerra, ma ci sarà ancora il blocco, la ricostruzione richiederà molti anni, il rischio di carestia durerà ancora a lungo perché sarà impossibile consegnare tutte le provviste necessarie in una volta sola. Oggi quasi nessuno ha più i mezzi per comprare del cibo, per cui saremo costretti a dipendere al 100% dagli aiuti umanitari. Aiuti che saranno sempre controllati da Israele. Stiamo sognando un incubo creato dagli israeliani.
1Con Gaza Envelope si indica l’area a sud di Israele che si trova entro circa dieci chilometri dal confine con la Striscia di Gaza. Il termine è solitamente usato in riferimento ai villaggi e alle città israeliane più a rischio di essere bersaglio di missili e attacchi provenienti dalla Striscia. [NdT].