“Rischio l’accusa di cospirazione se qualcuno mi vede con un ex deputato?” chiedo, in maniera ironica, a Nabil Hajji, segretario generale di Corrente Democratica (partito di centrosinistra) ed ex membro dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo (ARP), il Parlamento tunisino sciolto dal Presidente della Repubblica il 30 marzo 2022. E lui mi risponde a tono: “Tu sei una giornalista e vivi in Francia, sono io che rischio l’accusa di spionaggio perché parlo con un agente straniero”.
Pur se improntata sull’ironia, la nostra conversazione non ha però nulla di surreale. Dall’11 febbraio 2023, pochi giorni dopo il secondo turno delle elezioni politiche, largamente ignorate dalla popolazione, molti attivisti, oppositori e personaggi pubblici sono stati arrestati. L’arresto di 11 di loro rientra nell’ambito della legge contro il terrorismo1, che consente di detenere un individuo per 48 ore senza la presenza del suo avvocato. Da allora sono ancora detenuti dal gruppo dell’antiterrorismo. Dal ministero dell’Interno o dalla Procura non è arrivato per ora alcun comunicato stampa sul caso.
“Ben Ali sapeva fare meglio il suo lavoro”
Abbiamo avuto la possibilità di consultare una parte dei capi d’accusa che è stata diffusa, la cui autenticità è stata confermata dai legali degli imputati. Stupiscono le motivazioni e riportano ai periodi bui della storia nazionale: cospirazione contro la sicurezza dello Stato, piano di assassinio del Presidente della Repubblica, attentato alla sicurezza alimentare... Quanto alle prove, farebbero sorridere se le conseguenze non fossero così gravi: si tratta sostanzialmente degli screenshot di conversazioni su Whatsapp e resoconti di incontri con diplomatici stranieri. Gli attivisti della società civile ironizzano: “Almeno Ben Ali sapeva fare meglio il suo lavoro e fabbricava prove vere per far fuori i suoi oppositori!”. Islam Hamza, avvocato e membro del Comitato per la difesa dei detenuti, afferma: “Per il momento non ci sono novità, perché stanno ancora montando i dossier. Ci saranno altri arresti”.
Un grafico redatto dalla polizia mette insieme le foto degli imputati con quelle dei rappresentanti dei consolati esteri, tra cui l’attuale ambasciatore francese André Parant, il suo predecessore Olivier Poivre d’Arvor, l’ambasciatore italiano in Tunisia e due funzionari dell’ambasciata americana. Da quanto riferisce un diplomatico europeo, le procedure della polizia hanno provocato le ire di molte cancellerie occidentali, e i loro rappresentanti sono stati ricevuti dal capo del protocollo tunisino. Ma ormai il danno è fatto e regna la paura: “È un dato di fatto che i nostri abituali interlocutori tunisini ora evitano di incontrarci”.
Un terrore diffuso
La paura è una conseguenza del clima di soprusi, che ormai è la norma nel paese. Si parla addirittura di liste di proscrizione. Amine Ghali, direttrice del Centro Al-Kawakibi per la transizione democratica, conferma:
La paura è su due livelli: quella istituzionale, dettata dal cambio delle leggi che regolano le associazioni; l’altra fisica di essere arrestati, soprattutto quando noti persone molto più famose di noi che vengono arrestate per niente.
Oppositori politici e attivisti per i diritti umani sono passati all’applicazione di messaggistica Signal, ritenuta più sicura, scegliendo l’opzione “messaggi effimeri” che cancella automaticamente le conversazioni in chat dopo un determinato periodo di tempo. Le critiche al potere, finora molto diffuse sui social, vengono fatte in maniera meno pubblica, spesso ridotte a una ristretta cerchia di “amici”. Asrar Ben Jouira, attivista femminista e presidente dell’associazione Intersection Association for Rights and Freedoms (IARF) confessa: “Ora rileggo un post dieci volte prima di pubblicarlo”.
Alcuni avvocati si aspettavano pressioni straniere, soprattutto da parte europea, visto che nel cosiddetto dossier “cospirazione” erano coinvolti i diplomatici, o almeno per salvare quel che resta della primavera araba del 2011. Ma se, il 20 marzo, i ministri degli Esteri dell’Unione europea (UE) hanno invitato il governo tunisino a rispettare “lo Stato di diritto, i diritti umani, gli impegni per grandi riforme strutturali”, l’hanno fatto in primis per il timore di una nuova crisi migratoria in caso di fallimento economico.
Da parte sua, l’Italia guidata dalla leader di estrema destra Giorgia Meloni, primo partner della Tunisia in materia di esternalizzazione dei confini, esorta l’UE e il Fondo Monetario ad aiutare il suo vicino nordafricano. Come non correre in aiuto di un paese che accetta di raccogliere i suoi irregolari espulsi e di intercettare le imbarcazioni dei immigrati?.
“Ci siamo messi alla prova”
In questo scenario, gli attivisti della società civile si sentono più isolati che mai. La smobilitazione delle organizzazioni è visibile, e alcune sono divise di fronte all’onnipotenza del Presidente, a cominciare dall’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT) che però conta anche alcuni arresti tra le sue fila. Il sindacato si rifiuta ancora di mettere in discussione la legittimità del “colpo di forza” del 25 luglio 2021. Il fatto che il suo segretario generale Noureddine Taboubi sia al suo terzo mandato dopo la modifica del regolamento interno, che al principio ne prevedeva solo due, rende difficile criticare l’abuso di potere dell’autocrate del palazzo presidenziale di Cartagine. Secondo una fonte, i dossier di accuse per corruzione nei confronti dei militanti limitano il margine di manovra dell’UGTT che ha avviato, all’inizio di febbraio, un’iniziativa di dialogo nazionale con la Lega tunisina per la difesa dei diritti umani (LTDH), l’Ordine degli avvocati e il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES). Ma l’annuncio della prevista tabella di marcia continua a essere rinviato. Inoltre, è chiara la volontà del Presidente della Repubblica di dividere le istituzioni che possono rappresentare un contrappeso alla sua autorità, come dimostra la nomina di un ex sindacalista alla carica di ministro dell’Istruzione avvenuta il 30 gennaio 2023.
La classe politica, invece, è stretta tra il rifiuto di una popolazione che non ha visto alcun miglioramento della propria vita quotidiana dopo 12 anni di “processo democratico”, e la sua incapacità di guardarsi allo specchio e di fare autocritica. Nabil Hajji, che fa parte di un partito che ha subito significative defezioni, soprattutto quella del suo ex segretario generale Ghazi Chaouachi, oggi agli arresti, riconosce che:
Se almeno Ennahda avesse accettato di rivedere un po’ le sue posizioni, se Rashid Ghannushi si fosse dimesso, avremmo potuto valutare di creare un fronte comune. Ma si rifiutano di riconoscere le proprie responsabilità di fronte alla situazione in cui siamo finiti.
L’adesione o meno al Fronte di Salvezza Nazionale, dove si riuniscono le principali figure dell’ultima coalizione al potere nel 2021 (Ennahda, Al-Karama e Qalb Tounes), rappresenta ancora una linea di demarcazione all’interno dell’opposizione politica. È palpabile anche il disagio di alcune organizzazioni della società civile che faticano a mobilitarsi di fronte agli arresti degli islamisti. Siamo lontani dal Fronte del 18 ottobre 2005, che aveva riunito parte della sinistra e gli islamisti contro Zin El-Abidin Ben Ali. “Ci siamo messi alla prova nel frattempo”, osserva Hajji, che è anche lucido sull’incapacità dei partiti politici, spesso poco presenti tra le classi popolari, di pensare a un modello economico e soddisfare le aspettative sociali dal 2011: “Una visione economica? Non siamo nemmeno riusciti a mantenere lo stesso livello di produzione di Ben Ali”. Maher Hanine, saggista e attivista politico, punta il dito su un problema più strutturale:
I partiti politici sono autosufficienti. Non hanno task force nelle regioni, non organizzano dibattiti su questioni politiche o sociali. Non c’è alcuna riflessione. Con tutto ciò che è accaduto dal 2011, sono nel movimento per il movimento.
Sostenitori e “sostenitori critici”
I lavori del nuovo ARP, eletto con appena l’11% di affluenza alle urne, sono iniziati ufficialmente il 13 marzo 2023. Sono stati boicottati da organizzazioni che seguono da 10 anni il lavoro dei parlamentari, come Al-Bawsala. Asrar Ben Jouira rimpiange il periodo precedente al 25 luglio 2021, malgrado tutti i limiti:
Almeno con gli islamisti avevamo un certo margine di manovra. Siamo riusciti a far approvare la legge 50 che [punisce gli atti di razzismo-2787], o la legge 58 contro la violenza sulle donne. Oggi c’è uno stallo totale. Prima facevamo appelli a favore dei parlamentari dell’opposizione che erano ideologicamente vicini a noi. Oggi, nella nuova Assemblea, ci sono solo sostenitori e “sostenitori critici” di Kaïs Saïed.
La bassa affluenza alle elezioni la dice lunga sull’indifferenza che circonda questo clima liberticida. La spinta rivoluzionaria si sta esaurendo. Ma la disaffezione per la politica è dovuta anche dall’inflazione galoppante (il dato ufficiale è 10,4% nel mese di febbraio), nonché da carenze specifiche, croniche, che stanno spingendo ampi strati della popolazione a rivedere le proprie priorità. Sono in pochi ad essere turbati dagli arresti. “C’è anche chi sembra contento”, nota un attivista prima di proseguire: “Hanno arrestato delle brave persone, ma con una fedina penale sporca, è quello che sentiamo”.
Secondo i sondaggi di fine febbraio, il 52% dei tunisini sarebbe soddisfatto del bilancio dell’inquilino del palazzo Cartagine, cioè 4 punti in più rispetto a dicembre 2022, ma siamo lontani dall’82% dell’agosto 2021, pochi giorni dopo il colpo di Stato. Nabil Hajji non cerca scusanti: “In 12 anni la democrazia è stata usata da alcuni solo come strumento per arrivare o mantenere il potere”. E risulta convincente il discorso presidenziale di una presunta epurazione a trecentosessanta gradi.
Asrar Ben Jouira e Mahdi Jelassi, il segretario generale dell’Unione Nazionale dei Giornalisti Tunisini (SNJT), sono imputati per vari capi d’accusa, per aver manifestato – o coperto la manifestazione – contro il referendum costituzionale organizzato dal presidente Saïed il 25 luglio 2023. Alcune Ong straniere stanno andando via, poco ottimiste circa la possibilità di continuare a svolgere la loro attività nei prossimi mesi. Sotto la grottesca “Terza Repubblica”2, la polizia ha riacquistato l’onnipotenza di un tempo e la giustizia è sotto controllo. La ragazza scherza per non lasciarsi sopraffare dalla paura: “Anche la professione di giudice è diventata precaria. Perfino le banche non concedono più credito, perché la loro carica può essere revocata in qualsiasi momento!”.
Senza una narrazione condivisa
Tra isolamento e divisioni, Mahdi Elleuch, ricercatore presso l’Ong Legal Agenda, stila un bilancio severo:
La società civile deve guardarsi allo specchio. Non siamo stati all’altezza. Siamo rimasti nella confort zone dell’attivismo, nella nostra bolla, completamente isolati dal campo e dalla politica nel vero senso della parola.
Un’analisi condivisa da Maher Hanine, che sottolinea l’incapacità delle organizzazioni storiche di rinnovarsi dopo il 2011, e quella dei partiti di adottare un nuovo linguaggio in grado di creare un ampio consenso:
Nessuno spazio è stato creato perché si avesse un fermento intellettuale. Nessuna piattaforma per creare una coscienza collettiva. Le strutture classiche a cui abbiamo dato vita prima della rivoluzione non si sono mai sviluppate. E anche i partiti politici risultano intollerabili per i giovani. Non siamo riusciti a sostituire l’assenza di ideologia con una narrazione condivisa. È facile parlare al proletariato, ci sono già molti testi scritti. Ma il pubblico di oggi? È un problema universale, certo, ma il suo impatto è più forte in un paese con istituzioni fragili.
Tuttavia, andare oltre la propria classe, il proprio microcosmo, e parlare a una popolazione attiva, di cui quasi la metà lavora nel settore informale, è una sfida che i partiti non hanno cercato di raccogliere.
Giovedì sera, presso la Maison de la Culture Ibn Rachiq, nel cuore del centro di Tunisi, centinaia di persone, giovani e meno giovani, si sono ritrovate come ogni settimana nell’ambito del Club degli innamorati di Cheikh Imam. Tra commozione ed entusiasmo, studenti poco più che ventenni hanno cantato a squarciagola le canzoni, scritte in carcere, del cantante egiziano:
Fino a quando durerà la prigione e la repressione,
fin dove possono arrivare gli abusi di un aguzzino,
chi potrà imprigionare l’Egitto, anche solo per un’ora?
A poche centinaia di metri dal ministero dell’Interno, ormai luogo privilegiato per i discorsi del presidente Kaïs Saïed, la canzone suona come una pia illusione, nel mezzo di una lunga notte che è appena iniziata.
1Approvata nel 2015, dopo gli attentati al museo nazionale del Bardo e a Susa, dalla maggioranza parlamentare formata ai tempi di Nidaa Tounès ed Ennahda, questa legge è stata all’epoca molto contestata dalle organizzazioni per i diritti umani.
2La Costituzione di Kaïs Saïed, adottata ufficialmente il 17 agosto 2022, porta la Tunisia nella Terza Repubblica.