Un anno fa, il 22 marzo 2021, la Turchia ha annunciato il suo ritiro dalla Convenzione di Istanbul, un trattato internazionale volto a prevenire e combattere la violenza di genere, oltre a “contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne”. Una decisione entrata in vigore pochi mesi dopo, il 1° luglio. Secondo Amnesty International è «la prima volta che un membro del Consiglio d’Europa si ritira da una convenzione internazionale sui diritti umani”1.
La condizione delle donne in Turchia però continua a peggiorare. Com’era prevedibile. A fronte della scarsa disponibilità del governo nella lotta contro la violenza domestica, ci sono altre organizzazioni che si stanno mobilitando per sopperire alla mancanza di risorse e migliorare le condizioni di vita delle donne nel paese. E la decisione del ritiro da parte del presidente Recep Tayyip Erdoğan fa presagire numerose questioni giuridiche oltre ai problemi d’ordine strutturale.
« Devi restare in famiglia e obedire agli ordini »
Con il passare degli anni, il numero dei femminicidi è aumentato. In assenza di statistiche ufficiali, la rete d’informazione indipendente Bianet, ritenuta autorevole, registra un numero di 339 femminicidi nel 2021, contro i 284 del 2020. 339 féminicides, contre 284 en 20202. Un dato due volte superiore rispetto alla Francia e che potrebbe aumentare ulteriormente. “Le statistiche sono probabilmente sottostimate, perché i dati si basano sui media che riportano i casi di femminicidio, ma ne dimenticano altri”, lamenta Elif Ege, dipendente di Mor Çati, la prima associazione femminista in Turchia. Secondo l’attivista, responsabile del coordinamento dei programmi, le dichiarazioni dei politici contribuiscono ad incrementare il fenomeno. “Il punto è che il governo vuole risolvere le violenze contro le donne preservando il modello familiare tradizionale. La polizia e i giudici cercano di portare la pace tra le coppie perché ritengono che il nucleo familiare sia importante”. In Turchia, l’idea tradizionale di genere ha dominato questi ultimi decenni.
“Devi restare in famiglia e obbedire agli ordini. È questa la lingua ufficiale del governo”, afferma Ipek Bozkurt, avvocata e attivista dei diritti delle donne, che di recente ha fatto parte del film documentario candidato all’Oscar Dying to divorce3. “Il governo dichiara da parte sua tolleranza zero nei confronti della violenza contro le donne, ma le cose non stanno affatto così”. È un governo dagli ideali conservatori, ma non è solo questo. Il problema dipende anche dal sistema giudiziario: “Questa non è una normale questione penale. Di fronte ad una tale violenza sistemica, le norme legali non sono sufficienti. È necessario che i tribunali esaminino le violenze in base al genere”, continua.
L’associazione Mor Çati osserva inoltre che i tribunali lasciano sempre più impuniti gli autori delle violenze. Questione non certo nuova, secondo l’avvocata: “L’impunità esisteva già sotto la Convenzione di Istanbul. La giustizia penale non l’aveva tenuta in giusto conto. Per noi invece, in qualità di avvocate e come associazione, rappresenta una questione cruciale per sostenere la nostra posizione”.
Quando la polizia se la prende comoda
Il problema dell’impunità va ad aggiungersi alla scarsa attenzione da parte delle autorità nei confronti delle donne. Quando le vittime decidono di sporgere denuncia, la richiesta spesso viene respinta. “Gli agenti di polizia sostengono che non spetta a loro farsene carico, dal momento che la Convenzione di Istanbul è stata ritirata”, chiarisce Clémence Dumas, capo progetto, con l’Alto commissariato per i rifugiati (UNHCR), per le donne rifugiate all’interno dell’associazione Kadav (fondazione per la solidarietà delle donne).
“Economicamente, alcune donne sono costrette a vivere con mariti violenti, e non hanno alcun posto dove andare. Quando vanno a sporgere denuncia alla polizia, la risposta è che vivono ancora sotto lo stesso domicilio e devono farsene una ragione. I tribunali della famiglia emettono ordini di protezione e ingiunzioni per un periodo piuttosto breve. Alla scadenza di quest’ordine, bisogna fare nuovamente domanda. Il che rende le cose ancora più difficili”.
La mancanza di prove complica perfino l’accesso alle misure di protezione.
Alcuni comuni hanno istituito centri di accoglienza per le donne vittime di violenza. Ma dopo il ritiro dalla Convenzione, le condizioni di accesso sono ancora più limitate. Dumas osserva che “l’assenza di pressioni internazionali rende impossibile garantire l’effettivo accesso ai centri”. Le domande vengono rifiutate il più delle volte senza un valido motivo, a giudizio delle sue colleghe attive sul campo: “La mancata denuncia alla polizia, l’assenza di test anti-Covid-19, il numero troppo elevato di bambini o ragazzi con età superiore ai dodici anni”.
Per non parlare della mancanza di posti. “Le case di accoglienza [rifugi o centri] sono veramente sovraffollate. I posti hanno costi elevati, soprattutto perché non tutti i comuni dispongono di rifugi per donne”, aggiunge l’avvocata Ipek Bozkurt.
Une decreto presidenziale illegitimo
“Il ritiro dalla Convenzione di Istanbul pone un vero e proprio problema di legittimità democratica”, sostiene Zeynep Pirim, docente di Diritto internazionale all’Università di Galatasaray. Per comprendere il suo punto di vista, occorre tornare indietro di qualche anno. Tutto ha inizio nel gennaio 2017, quando un emendamento costituzionale trasforma il sistema parlamentare turco in un “sistema di governo presidenziale”. Vengono aboliti il Consiglio dei ministri e la carica di primo ministro. Il Presidente della Repubblica diventa capo dello Stato e rappresenta da solo il potere esecutivo, giudiziario e legislativo. In Turchia, non esiste più alcuna separazione dei tre poteri. La docente chiarisce che “il Presidente può sciogliere il Parlamento senza alcuna motivazione, in quanto plenipotenziario, inoltre i decreti presidenziali sono atti indipendenti che hanno la stessa forza giuridica delle leggi approvate dal Parlamento”. In particolare, il Presidente ha una fortissima influenza sulla magistratura: “A lui spetta la nomina di sei dei tredici membri del Consiglio superiore della magistratura e dei pubblici ministeri, tra cui il ministro della Giustizia e il suo sottosegretario”. Può nominare inoltre dodici dei quindici membri della Corte costituzionale.
Una trasformazione profonda del sistema che ha sconvolto notevolmente il modo di siglare o concludere un trattato internazionale. Nel sistema parlamentare, un trattato internazionale richiedeva l’approvazione del Parlamento prima di essere ratificato e promulgato dal Presidente della Repubblica.4 Nel 2017, al momento dell’abolizione dei due “pilastri” ministeriali, è stato necessario ridistribuire i poteri di cui godeva il Consiglio dei ministri. Il decreto presidenziale n. 9 adottato nel 2018 ha risolto radicalmente la questione. L’articolo 3 (comma 1) prevede infatti che tutti i poteri conferiti al Consiglio dei ministri in merito alla ratifica dei trattati siano d’ora in avanti trasferiti al Presidente della Repubblica. In altre parole, Erdoğan può decidere in piena autonomia di ratificare un trattato internazionale senza assumersi alcuna responsabilità politica o penale. Un potere che non aveva spazio nel sistema parlamentare. “Il Consiglio dei ministri era politicamente responsabile nei confronti del Parlamento, e il Presidente che ratificava il trattato non faceva parte di alcun partito politico, dunque imparziale. Oggi è soggetto esclusivamente all’autorità di un leader politico”, analizza Zeynep Pirim.
Le varie Costituzioni turche successive non hanno mai regolamentato la cessazione, la sospensione e la revisione dei trattati internazionali. In un sistema parlamentare, la legge 244 autorizzava per decreto il Consiglio dei ministri a sospendere l’applicazione o mettere fine ai trattati internazionali. Potere che ora appartiene al capo dello Stato. Ed è sulla base dell’articolo 3 del decreto presidenziale n. 9 che Erdoğan ha deciso, nel marzo 2021, di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul.
“La soluzione è tornare al sistema parlamentare”, propone la docente. Una grande sfida per le elezioni presidenziali che si terranno nel giugno 2023. Lunedì 28 febbraio, i leader dei sei partiti di opposizione hanno firmato un programma congiunto per abolire il regime presidenziale in vigore e instaurare un sistema parlamentare rafforzato. Una prospettiva che rappresenterebbe un passo avanti per la tutela delle donne vittime di violenza nel paese. Ma è ancora da vedere se e quando si terranno le elezioni presidenziali.
Una cacofonia giuridica
“Penso che la decisione di far uscire la Turchia dalla Convenzione di Istanbul non sia valida ai sensi di legge”, afferma invece Pirim. Più di duecento istituzioni (partiti politici d’opposizione, l’Ordine degli avvocati e varie organizzazioni) si stanno mobilitando per chiedere al Consiglio di Stato l’annullamento della decisione del ritiro. Il 28 giugno 2021, l’istanza è stata respinta – decisione confermata dalla Corte d’Appello nell’ottobre 2021. “La decisione in merito è ancora all’esame del Consiglio di Stato, ma quest’ultimo per ora ha rifiutato di sospendere la mozione di recedere dal ritiro”, specifica la docente. A suo avviso, l’invalidità e l’incostituzionalità del ritiro sono fuori discussione: “Il Presidente ha deciso da solo l’uscita dalla Convenzione di Istanbul senza aver prima consultato il Parlamento, che tuttavia l’ha approvata nel 2012”, spiega. [C’è anche un abuso del potere legislativo da parte dell’esecutivo. Secondo la Costituzione, i trattati internazionali hanno forza di legge e le leggi possono essere modificate o abrogate solo dalla Grande assemblea nazionale turca, ovvero il Parlamento]”.
Resta un’incoerenza giuridica. Nell’agosto 2012, il Parlamento aveva infatti adottato la legge n. 6284 per la protezione della famiglia e la prevenzione della violenza contro le donne, che applicava nell’ordinamento giuridico nazionale le disposizioni della Convenzione di Istanbul. Ebbene, questa legge è ancora in vigore; ma il ritiro dal trattato avrà di certo ripercussioni sul piano diplomatico. Perché il paese è ormai privo di obblighi internazionali agli occhi degli altri trentaquattro paesi firmatari.
1«Il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul rilancia la lotta per i diritti delle donne nel mondo”, Amnesty International, 1° luglio 2021», Amnesty International, 1o luglio 2021.
2Evrim Kepenek, « Men kill at least 339 women in 2021 », 14 février 2022.
3Dying to divorce, un film di Chloe Fairweather, 2021.
4Tuttavia, alcuni trattati, tra questi quelli con i paesi della NATO, prevedono deroghe a quest’obbligo parlamentare, ma devono passare sotto il decreto in Consiglio dei ministri.