Diario da Gaza 105
“Avrei voluto trasmettere ai miei figli i ricordi che i miei genitori mi hanno lasciato”
Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.
Giovedì 11 settembre 2025
È quasi una settimana che l’esercito di occupazione ci sta ordinando di lasciare la città di Gaza. L’Idf ha cominciato a circondarla. Gli abitanti si stanno concentrando nella zona ovest della città. È il risultato della nuova strategia israeliana: sfollare la popolazione con i bombardamenti. Visto che gli abitanti generalmente non rispondevano ai continui ordini di evacuazione, l’esercito ha concesso loro un quarto d’ora, 20 o 30 minuti nel migliore dei casi, per lasciare le loro case. Dopodiché l’edificio viene distrutto. A nord della città, nel distretto di Sheikh Radwan, ad est nei quartieri di Shajaya e Zeitun, o a sud nel quartiere di Sabra, l’esercito sta distruggendo i grattacieli uno dopo l’altro (da noi, quando un edificio ha più di nove piani, viene chiamato “grattacielo”).
La strategia sta funzionando. Chi vive in edifici a più piani sa di avere i giorni contati. Adesso la gente comincia lo sgombero senza aspettare gli ordini, per non perdere tutto. Fuggono verso ovest, verso il mare. Ma anche lì sono iniziate le distruzioni. Sono già state colpite decine di “grattacieli”. Una torre distrutta vuol dire 40 o 50 famiglie che si ritrovano in strada, ovvero tra le 300 e le 400 persone. Chi non è riuscito ad anticipare la partenza porta con sé solo una o due borse. C’è un caos tremendo.
Pronti a partire
Io vivo in uno di questi “grattacieli”. I miei vicini mi chiedono: “Allora Rami, che farai? Cosa facciamo?”. Di solito non mi piace dare consigli su questo genere di decisioni, non posso assumermene le conseguenze. Ho semplicemente risposto per me stesso: “Io resterò fino all’ultimo minuto. Ho già pronta una valigia e dei vestiti, perché la situazione può degenerare in qualsiasi momento. Perché bisogna essere pronti a partire. Non bisogna dimenticare nulla di importante”.
Consiglio, comunque, a chi ha deciso di andare al sud, perché ha trovato un posto dove stare, di portare con sé il più possibile. Noi abbiamo già vissuto un’esperienza simile quando siamo stati costretti ad andare a Rafah. Siamo partiti senza vestiti né scarpe di ricambio, senza niente, e abbiamo dovuto ricominciare da zero. Eppure, all’epoca, era ancora possibile comprare qualcosa nei mercati. Oggi non si trova più nulla, né vestiti, né materassi, né tende. Dico loro: “Se avete un posto dove tenere al sicuro i vostri beni, vi consiglio di andarci subito, perché tutti sappiamo bene che il nostro quartiere può essere bombardato in qualsiasi momento”. Qualcuno ha trovato un’altra soluzione. Ad esempio, alcuni amici hanno venduto sul posto i loro armadi, le loro sedie e i loro tavoli per ricavarne legna da ardere. Data la scarsità di legna, sono riusciti a ricavarne un bel po’ di soldi. Una camera da letto del valore di 7.000 shekel è stata venduta a 1.000 shekel (250 euro).
“Preferisco perdere tutto in una volta sola”
Da parte mia, ho detto a Sabah di preparare qualche borsa con l’essenziale per i bambini, soprattutto vestiti invernali. Insomma, quello che abbiamo. Potremo usare i vecchi vestiti di Walid per Ramzi, ma non ce ne sono per Walid, che cresce molto in fretta. Sabah mi ha detto: “E noi, perché non facciamo quello che consigli a tutti? Perché non spedisci almeno i mobili delle camere in un magazzino a sud, in modo da recuperarli più tardi, dopo la guerra?”. Le ho risposto che se gli israeliani riusciranno a farci lasciare la città, vorrà dire che il loro progetto andrà fino in fondo e che, a breve, questo significherà la deportazione in un paese straniero. Quindi non servirebbe a nulla spostare i mobili. Ho aggiunto: “Bisognerà viaggiare leggeri. E poi preferisco perdere tutto in una volta sola”.
Perché questa decisione? Perché le scelte sono molto difficili. Cosa prendere? Cosa lasciare? Per noi palestinesi, una casa non è solo cemento e mobili, è la nostra storia, la nostra memoria, la nostra famiglia. Qui nelle case vivono intere famiglie. I genitori vivono al primo piano e ogni figlio adulto ha il suo appartamento con la sua famiglia. In queste case i bambini nascono, crescono, completano gli studi, si sposano e a loro volta hanno dei figli. Distruggere queste case fa parte della strategia degli israeliani per sradicarci. Non è una novità. Non appena un palestinese viene accusato di un attacco militare o di qualsiasi altra cosa, la sua casa viene immediatamente demolita.
È come quando vengono distrutti gli ulivi. Per noi sono come dei figli. Crescono con noi, generazione dopo generazione. Alcuni sono più vecchi dello Stato di Israele. Gli israeliani lo sanno bene. Conoscono il nostro attaccamento alla terra. Ecco perché attaccano le case e gli ulivi.
Questa volta non ci sarà ritorno
Non porterò con me nemmeno i miei ricordi. Finora, li avevo conservati per metà nell’appartamento e per metà nella profumeria che avevo aperto con mia madre nel 2017, quando avevo smesso di lavorare come giornalista-fixer a causa dei problemi che avevo avuto con Hamas. Visto che con tutte queste guerre, e non solo l’ultima, bisognava essere sempre pronti a partire in fretta, ma con l’idea di tornare. Distribuendo gli oggetti in due luoghi diversi, ero quasi sicuro di salvarne almeno la metà.
Ma questa volta non ci sarà ritorno. So che tutto verrà distrutto. Ho tolto dai pacchi i miei ricordi mostrandoli a Sabah. Ricordi della mia infanzia. Diplomi dell’Università Araba di Beirut. Le foto dei miei genitori il giorno del loro fidanzamento e del loro matrimonio. Il loro certificato di matrimonio. Il piccolo vaso di cristallo offerto agli invitati della cerimonia, pieno di caramelle. Foto dei nostri compleanni, miei e dei miei fratelli. Foto di quando eravamo giovani. Noi a scuola. Ricordi della nostra vita in Tunisia. Ricordi dei miei studi in Francia, a Montpellier. Videocassette in formato VHS. Tutti i ricordi di mio padre, uno dei fondatori dell’agenzia di stampa palestinese Wafa. L’orologio che mi ha regalato il presidente dello Yemen e altri cimeli storici: il suo registratore a mini-cassette, con le registrazioni dei discorsi di Yasser Arafat. Dei fogli su carta intestata della Wafa. E il fax dell’agenzia: una macchina a rullo risalente al 1985, con cui Wafa inviava e riceveva articoli e comunicati. C’è persino un rotolo di carta, oggi annerito.
Ho mostrato tutto questo a Sabah con le lacrime agli occhi. È stata la prima e l’ultima volta, perché non riesco a fare una cernita. Ogni cosa mi sta a cuore. Non posso scattare una foto a destra e una a sinistra. O prendo tutto o lascio tutto. E prendere tutto è impossibile. Per fuggire, non bisogna caricarsi di bagagli. Avrò Walid alla mia destra, Ramzi nel mio braccio sinistro, uno o due zaini, e Sabah che dovrà portare due borse. Non potremo portare con noi anche una valigia piena di cassette e album fotografici.
Avrei mostrato loro le mie foto
So che, facendomi perdere tutti questi ricordi, gli israeliani taglieranno ogni legame tra le generazioni.
Quando eravamo piccoli, nostro padre ci mostrava le foto e diceva: “Questo è il giorno in cui ci siamo sposati. Guardate com’era bella vostra madre! E guardate com’era bello vostro padre!”. Ridevamo del loro modo di vestire, che era molto cambiato. E io sognavo di fare lo stesso con i miei figli, quando sarebbero stati un po’ più grandi. Avrei mostrato loro le mie foto in Libano, poi in Tunisia, in Francia e a Gaza. Le foto dei loro nonni. Gli avrei raccontato chi era il loro nonno, perché tante persone hanno scritto di lui dopo la sua morte. Avrei voluto conservare quei ritagli di giornale, che ho da quasi 25 anni. Avrei voluto essere il tramite di questa continuità culturale e sociale, avrei voluto trasmettere ai miei figli ciò che i miei genitori mi hanno lasciato.
Ci sono anche i gioielli di mia madre, l’anello e la collana che mio padre le ha regalato per il loro matrimonio. Quelli li porterò con me. Tutto questo è la nostra storia, ed è un pezzo della storia della diaspora palestinese. I miei genitori fanno parte degli espulsi del 1948 e del 1967. Mio nonno materno era originario di Jaffa. Era un importante commerciante, faceva affari tra Jaffa e il Libano e ha ottenuto la cittadinanza libanese prima del 1948. Quando è stato espulso, l’anno della Nakba, ha potuto stabilirsi in Libano. Mia madre è nata lì ed è in Libano che ha incontrato mio padre, che era nato a Nablus, espulso con la sua famiglia nel 1967, verso la Giordania. Era venuto a studiare a Beirut. È lì che, molto giovane, ha aderito all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e ha iniziato la sua carriera di giornalista. È una storia che si può raccontare a parole, ma servono anche oggetti tangibili, foto, giornali, gioielli...
Mio padre era riuscito a portare tutto con sé nei suoi vari esili. Ha seguito l’OLP e Yasser Arafat da Beirut a Tunisi, poi da Tunisi a Gaza, nel 1994, quando Arafat vi si è stabilito dopo gli accordi di Oslo. Mio padre ha garantito la continuità della nostra storia familiare. Purtroppo, credo che questa continuità finirà qui. Non posso scegliere. Tutto verrà distrutto.
L’ultimo muro prima della deportazione
Sabah mi ha detto: “Possiamo prendere un esemplare di ogni cosa, un album, una cassetta...”. Mia moglie ha insistito, dicendo che possiamo provare a ridistribuire i ricordi tra l’appartamento e il negozio. Ma lo so bene: Gaza città è l’ultimo muro prima della deportazione. Quando cadrà questo muro, la città verrà completamente distrutta. Non potremo portare nulla con noi e saremo tutti deportati. È per questo che ho deciso che resteremo qui, nel nostro “grattacielo”, fino all’ultimo minuto. È il mio modo di resistere, di affermare con forza la mia appartenenza a questa terra, a questo legame culturale e familiare, a questa continuità di ricordi. Finché ci saranno palestinesi, la Palestina esisterà.
Ma partire all’ultimo momento vuol dire partire senza portare nulla con sé. È per questo che ho voluto condividere questi oggetti, questi ricordi con i lettori di Orient XXI, affinché, dopo la loro distruzione materiale, continuino ad esistere nella loro memoria.
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