Giovedì 16 maggio 2024.
Oggi Rafah è una città fantasma. Prima c’erano quasi 1,5 milioni di persone ammassate l’una sull’altra, tende ovunque, sui marciapiedi, nelle scuole, nelle strade, in riva al mare, nelle zone dove c’è la sabbia, il deserto vicino al confine egiziano. Adesso è una città praticamente deserta. Come deserto è diventato anche il grande mercato alla rotonda di Nejma, dove prima si vendeva ogni sorta di prodotto in scatola, nonostante non rientri tra le zone da evacuare per gli israeliani. Lo stesso è capitato alla rotonda di Al Awda – che, per ironia della sorte, significa “ritorno” in arabo – che era piena di sfollati, al punto che non si riusciva a camminare per strada, e ci voleva un’ora per attraversarla in macchina. Oggi ci vogliono 5 minuti a piedi. Secondo l’Unrwa, sono oltre 450.000 le persone che hanno evacuato Rafah.
In realtà, credo che il numero sia molto più elevato, perché comprende la maggior parte di chi viveva già qui, e che oggi è costretto di nuovo ad andare via. Per qualcuno, questa è la quinta o addirittura la sesta volta. Anche gli abitanti di Rafah, i “locali”, sono in procinto di partire, abbandonando anche quei luoghi non sono indicati come “zone rosse” sui volantini lanciati dall’esercito israeliano. Qui la gran parte delle case sono residenze di famiglia. Negli edifici vivono i capofamiglia e i loro figli con le rispettive famiglie, ad ogni piano c’è un nucleo familiare.
Chi resta può andare via senza nulla, in maniera più rapida
Ci si dividono i compiti: su una famiglia di 6 persone, 3 partono con i loro figli per Al-Mawasi, vicino al mare, o in altri luoghi, per conservare un pezzo di terra nel caso si debba partire.
Trovare un posto non è facile. La Striscia di Gaza è già strapiena, ma la gabbia in cui gli israeliani ci chiedono di entrare lo è ancora di più. Chi ha la fortuna di avere una tenda la monta su un piccolo pezzo di terra, gli altri usano pezzi di legno e plastica per contrassegnare il luogo del loro rifugio di fortuna. Se arriva l’ordine di evacuare, il resto della famiglia si unirà a loro. Ora hanno imparato la lezione. Anche i commercianti fanno altrettanto, svuotando i loro negozi o le bancarelle, perché sanno che gli israeliani distruggeranno tutto.
Chi è partito ha portato con sé tutto quello che aveva, in modo che chi resta possa andare via senza nulla, in maniera più rapida. Si trova ancora qualche negozio aperto, ma c’è poca merce, spesso per terra. I grossisti che importano merci possono passare attraverso il valico di Kerem Shalom, riaperto due giorni fa, e che porta direttamente in Israele. La gran parte di queste merci è diretta a Deir el-Balah, dove sono stati allestiti molti campi di fortuna. Chi è rimasto a Rafah cerca di stare nei pressi delle Ong e dell’Unrwa, perché anche chi era abbiente ora dipende al 100% dagli aiuti alimentari.
I droni riproducono rumori di spari anche quando non ci sono scontri
I miei suoceri, i fratelli e le sorelle di Sabah, non volevano partire per la mia decisione di rimanere qui fino a quando un volantino non mi ordinerà di evacuare. Come al solito, mi considerano l’uomo che sa tutto.
Un giorno in più è un giorno conquistato rispetto all’umiliazione di dover vivere in una tenda. Ma alla fine, martedì, hanno deciso di andare via, perché tutti quelli che erano con loro alla rotonda di Al-Alam, a ovest di Rafah, sul lato della costa, hanno deciso di partire. A quel punto hanno cominciato ad avere davvero paura, perché il luogo dove vivevano era diventato un deserto e si sentiva il rumore degli F-16, ma soprattutto dei droni. Ora voglio parlarvi di questa nuova arma.
Quando siamo stati cacciati dalle nostre case a Gaza City, i droni venivano già utilizzati. Il drone è una sorta di Playstation, solo che, dietro lo schermo, c’è qualcuno che sorveglia tutti. Ma i droni usati qui servono più a fare fuoco sulla gente, o impartire ordini attraverso un altoparlante, come è stato fatto per l’evacuazione dell’ospedale Nasser.
Oltre a colpire, il drone ha anche il compito di incutere terrore. Durante la notte, questi dispositivi riproducono degli effetti sonori con la finalità di spaventare la gente: il suono di un bambino che piange tutta la notte, una donna che chiede aiuto, dei cani che abbaiano. Gli israeliani li usano anche per coordinare le attività dei camion. C’è un drone che controlla gli autisti. Si posiziona sopra il camion e si sente: “Devi aspettare un’ora” oppure “Ora procedi, prendi quella strada”. Nel nostro quartiere, a Tal al-Sultan, riproducono il rumore degli spari anche se non ci sono scontri.
I miei suoceri non sapevano se questi droni avessero sparato tutta la notte, o se avessero solo emesso il rumore dei proiettili. In ogni caso, alla fine hanno deciso di lasciare la rotatoria. I membri della famiglia stanno cercando di trovare un posto dove possano stare tutti insieme, perché la vedono come una sorta di protezione. Non solo restando con le loro famiglie, ma anche tra la gente del quartiere, tra persone che conoscono. La famiglia di Sabah è originaria di Shajaya, quindi cercherà di stabilirsi con gente della stessa zona.
Lasciare il luogo dove sono sepolti i genitori
Quella di oggi è la versione 2024 del 1948. I campi profughi hanno preso il nome dai villaggi d’origine da cui erano stati espulsi gli abitanti. Ad esempio, il campo profughi di Yibna ospitava gli abitanti cacciati da quel villaggio, e lo stesso è successo al campo di Falluja. È una forma di protezione perché tutti si conoscono, quindi se gli uomini se ne vanno, possono affidare la loro famiglia a un vicino.
Siamo andati a salutare i fratelli e le sorelle di Sabah. È stato un momento molto triste perché sono andati via già tante volte, ma stavolta mancava il pilastro della famiglia, mio suocero Suleiman. È stato sepolto a Rafah, accanto ad altri martiri. Le sorelle di Sabah non smettevano di piangere e dicevano: “Anche se è morto, è sempre con noi. Ci sentivamo al sicuro perché eravamo accanto a lui”.
Non so se riesco a spiegare ciò che si prova quando si deve lasciare il luogo dove sono sepolti i propri genitori. Anche se non si va molto lontano, restando nella Striscia di Gaza. Gli israeliani sono riusciti così tanto a restringere il nostro spazio geografico che evacuare equivale a lasciare un paese per un altro, anche se ci si sposta solo di qualche chilometro. I miei suoceri mi hanno chiesto un parere, ma per me è stato difficile consigliarli, perché volevano rimanere a Rafah, come ho deciso di fare io. Ma ho detto:
Voi avete tende, teloni, molte cose da mettere in valigia. Io ho solo due borse e una piccola tenda, posso partire anche all’ultimo minuto. Voi siete in tanti, avete bisogno di un camion e il giorno in cui dovrete partire non ne troverete uno. Siete una cinquantina mentre noi siamo solo in 6, per noi basta un carretto.
Un giorno conquistato contro l’umiliazione
Alla fine, si sono convinti che quella fosse la soluzione migliore. Però non andranno tanto lontano, così avremo la possibilità di vederli. Ma, per la prima volta, mia moglie Sabah ha cominciato ad avere paura. Mi ha chiesto:
Perché non partiamo anche noi? Perché andare via all’ultimo minuto, con il rischio di rivivere ciò che abbiamo vissuto quando siamo fuggiti da Gaza sotto le bombe e i proiettili dei cecchini?
La mia è stata una risposta semplice: “Un giorno in più è un giorno conquistato contro l’umiliazione”. Ma non commetteremo lo stesso errore fatto a Gaza. In quell’occasione, il portavoce dell’esercito aveva ordinato all’intera popolazione di Gaza City e del nord di andare verso il sud. Anche per questo, voglio restare fino all’ultimo minuto. All’epoca, avrei preferito morire piuttosto che partire, perché so benissimo cosa vuol dire andare via di casa per vivere in una tenda.
È un’umiliazione che voglio risparmiare alla mia famiglia. E così ho detto: “Viviamo in un albergo a cinque stelle rispetto agli altri, a quelli che vivono in tenda”. La piccola tenda Decathlon che mi ha mandato un amico è una tenda da campeggio, per trascorrere un bel periodo di vacanza. Ho chiesto ai miei contatti, ma non sono riuscito a trovarne una vera, un po’ più grande e che ci protegga dal caldo e dal freddo. Dobbiamo dormire uno sull’altro, ma non importa.
Questa non è solo una guerra fatta di bombardamenti, ma è anche psicologica ed emotiva. Perdiamo parenti, li seppelliamo, ci separiamo da loro. In me sono presenti vari sentimenti dalla tristezza alla paura, dall’angoscia alla preoccupazione. Finora abbiamo provato solo emozioni negative. Non c’è né tranquillità, né speranza. E quando vedo gente lasciare Rafah, guardo questa città con lo sguardo di chi aspetta la morte in una sala operatoria, dove regna una calma totale. Si può solo sentire il rumore della macchina collegata al cuore. Ma quello è un dispositivo che almeno può salvare delle vite umane. In questo caso, il paziente è Rafah, ma gli unici dispositivi che ci sono qui sono i droni e i rumori che sentiamo 24 ore su 24. Invece di salvare il paziente, la macchina gli infonde paura per tenerlo tra la vita e la morte.