Lunedì 30 settembre 2024.
Stamattina, all’alba, era l’ora della nostra chiacchierata quotidiana. È l’unico momento in cui Sabah ed io possiamo parlare tranquillamente. Durante la giornata, siamo sempre troppo occupati e circondati da tanta gente. Di notte, tutti teniamo sempre un occhio aperto per paura di quello che può succedere. Ma all’alba c’è un silenzio pressoché totale. I bambini dormono e possiamo parlare solo noi due.
Parlando del dopoguerra, ho detto: “Quando tutto questo sarà finito, ce ne andremo da qualche parte per cambiare un po’ aria, soprattutto per i bambini. Ce ne andremo in Francia e pianteremo una tenda in montagna”. Non ho nemmeno finito la frase che Sabah mi ha interrotto, dicendomi: “No, no, niente tenda! Mai più tende in vita mia, neppure per qualche giorno di vacanza! Anche se si trattasse di piantarla in paradiso!”.
Sotto le macerie delle loro case
La sua reazione mi ha ricordato un amico che vive in Giordania. Quando sono andato a trovarlo, gli ho chiesto di andare a vedere le rovine dell’antica città nabatea di Petra, nel deserto di Giordania. Ma lui mi ha risposto: “Non se ne parla nemmeno! Per tutta la vita ho vissuto in quartieri pieni di sabbia, sabbia e polvere dappertutto. Un posto del genere mi riporterebbe alla mente brutti ricordi! Non voglio andarci!”.
Mi rendo conto che tutto ciò che facciamo, tutto ciò che viviamo oggi ci sta facendo odiare il posto in cui abitiamo, ed è proprio quello che vogliono gli israeliani. Ecco alcuni esempi che mi sono venuti in mente durante la nostra conversazione. Ho pensato alla nostra vicina cristiana, Najwa, che mi aveva detto che non sarebbe più tornata nella chiesa, dove ora è rifugiata. Il motivo è che per lei quella chiesa è una prigione. Lo stesso vale per i bambini di Sabah, che non vogliono tornare nella loro scuola, che è stata bombardata e circondata dai tank israeliani. Ora detestano quel posto. Eppure, non hanno assistito alla distruzione della loro scuola, come molti dei loro compagni di classe... che hanno visto i loro genitori fatti a pezzi davanti ai loro occhi.
La stessa cosa succederà a chi ha trovato rifugio in un ospedale perchè non vorrà più tornarci. Anche chi si è rifugiato in spiaggia non vorrà più andarci. Per loro non sarà più un posto dove trascorrere le vacanze, ma il luogo in cui le ultime alte maree hanno spazzato via le loro tende. E quelli a cui hanno distrutto le case? In molti casi, i corpi dei loro cari sono ancora sepolti sotto le macerie...
Il caldo, i serpenti, gli insetti...
Come farà questa gente a tornare a casa? Come potrà più vivere lì? Ora, tutti odiano l’ambiente in cui vivono. Vivere in una tenda? È un’umiliazione totale. Il caldo, i serpenti, gli insetti, la sabbia dappertutto... Non esiste più una vita in famiglia sotto questi pezzi di stoffa che non proteggono nemmeno dalla paura e dai bombardamenti.
In futuro, l’intera popolazione di Gaza conserverà solo brutti ricordi. Chi ha trovato rifugio nei bungalow non vorrà più tornarci in vacanza. A Gaza, un bungalow è una villa con piscina che si affitta per un giorno o pochi giorni. Sono casette un po’ lontane dalla spiaggia perché, con il blocco, c’era un ammasso di rifiuti sulla riva, oltre alle fogne che scaricavano a mare. Erano posti dove le donne potevano fare il bagno in costume, lontano da sguardi indiscreti.
Quella che un tempo era una vita agiata oggi è diventata una vita di umiliazione. Oggi nei bungalow vivono stipate centinaia di persone. Anche il mio amico Mahmud vive lì dalla prima settimana di guerra. Originario di Zeitoun, Mahmud è stato uno dei primi a lasciare il distretto situato nell’area orientale di Gaza City. Ora ci sono circa 90 persone in questa villetta! Mi ha detto:
Prima della guerra era un posto dove rilassarsi e fare dei barbecue. Oggi dobbiamo farci in quattro per procurarci dell’acqua e l’energia elettrica. Non si può riempire la piscina e, anche se fosse possibile, a nessuno verrebbe in mente.
Quando finirà la guerra, anche lui non sa se avrà voglia di tornare in questo posto. Mentre prima, a Gaza, tutti amavamo la spiaggia, il mare, gli chalet, ci piaceva piantare una tenda sulla spiaggia, fare dei barbecue... Prima della guerra, mi piaceva preparare il foul (stufato di fave) per tutta la famiglia, cominciando dalle conserve, a cui aggiungevo una salsa fatta da me. Ora odio tutti i prodotti in scatola, perché non mangiamo che questo!
La non-vita
Prima, piaceva a tutti andare nei luoghi di culto, moschee o chiese. Ora, si ha paura di andarci perché possono essere dei bersagli, e chi è costretto a vivere nelle chiese le vede come una prigione.
Ai bambini piaceva molto andare a scuola, mentre oggi la odiano. È nelle scuole che sono avvenuti i massacri, vere e proprie carneficine durante i raid israeliani. E i bambini li hanno visti con i loro occhi. Per loro non sono posti sicuri, ma luoghi di cui avere paura. Una paura e un rifiuto che si trasmetteranno di generazione in generazione. Chi vive in tenda con i propri figli odierà le tende. Chi ha trovato rifugio in spiaggia odierà le spiagge. Tutti finiranno per odiare Gaza, convinti che non sia più un posto dove poter vivere. Dopo la guerra, Gaza diventerà un luogo invivibile. Non ci sarà più nulla. Si dice che la guerra è morte, ma dopo la guerra ci sarà solo una non-vita. Forse saremo ancora vivi, ma già morti.
Da tempo, non ci sono più pilastri o basi del vivere civile. La ricostruzione richiederà anni, mentre la gente continuerà a vivere in tende. Quelli che sono stati costretti a fuggire verso nord, quando torneranno in questa zona completamente distrutta di Gaza, pianteranno le loro tende dove hanno perso tutto, famiglia, amici, case. La paura, l’angoscia, l’umiliazione porteranno a una non-vita. I bambini che lavorano nei mercati come ambulanti o che trasportano merci odieranno il mercato. È vero che possono guadagnare dieci o venti shekel al giorno (tra i 2 e i 5 euro) e che molti di loro apprezzano l’autonomia e l’autorità che possono dare questi lavoretti. Ma non li fanno per piacere, ma perché costretti. I tre figli di Sabah sono stati assunti dai loro zii, che sono commercianti. All’inizio erano entusiasti, ma io ero contrario, perché non volevo che i bambini imparassero la cultura del mercato, e soprattutto quella del mercato di guerra. Ma la decisione spettava agli zii. I bambini mi hanno detto: “Siamo diventati uomini d’affari, presto anche noi creeremo un nostro giro d’affari”. Ma sapevo che non avrebbero resistito a lungo. Il quarto giorno, Moaz, il maggiore, mi ha detto: “Non vogliamo più andarci al mercato, non ce la faccio più, non vogliamo diventare degli uomini d’affari”. Hanno vissuto l’esperienza dell’umiliazione ed ora odiano il mercato.
L’Università al-Aqsa di Khan Younis, l’unica che non sia stata completamente distrutta, è diventata un rifugio per gli sfollati. Gli studenti la odieranno, perché per loro ora è un luogo di umiliazione. Gli ricorderà solo un posto dove avranno vissuto i momenti più brutti della loro vita, perché quel luogo è diventato invivibile.
Alla fine, finiremo per lasciare Gaza. Ecco il vero scopo di questa guerra. Netanyahu e l’esercito dicono di voler sradicare Hamas e rilasciare i prigionieri israeliani, ma è una cosa del tutto senza senso. Il loro vero obiettivo è quello di far evacuare 2,3 milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza.
Hamas è ancora lì perché Israele non sta combattendo contro un vero e proprio esercito, come sostiene la sua propaganda. Hanno a disposizione solo armi automatiche, lanciagranate RPG e razzi. Il vero obiettivo, lo ripeto ancora una volta, è quello di cacciare via 2,3 milioni di persone. Dopo la guerra, sapremo se la mia teoria era giusta o meno. In ogni caso, so bene cosa pensa la gente. La gran parte degli abitanti di Gaza, soprattutto i giovani, andranno via se ne avranno la possibilità. Per la semplice ragione che oggi non c’è più vita a Gaza.