Martedì 3 settembre 2024.
Oggi ho ricevuto una telefonata della nostra cara vicina Najwa. È di religione cristiana, come molti dei condomini che abitano nella nostra “torre” di Gaza City, un edificio di 13 piani (da noi, appena un edificio supera i 6 piani viene chiamato “torre”) che abbiamo dovuto lasciare all’inizio della guerra.
Nell’edificio abitano soprattutto anziani. Najwa ha 75 anni e viveva con sua sorella Aida che ne ha 74 anni. Dopo l’offensiva israeliana, le sorelle si sono rifugiate, come gli altri cristiani, nella chiesa di San Porfirio, nel quartiere al-Zaytun nella Città Vecchia. A Gaza, c’è la chiesa cattolica della Sacra Famiglia – più simile a una parrocchia – e quella greco-ortodossa di San Porfirio, una chiesa costruita nel 1150 dai crociati su una preesistente chiesa che risaliva all’inizio del V secolo.
All’inizio degli anni 2000, i cristiani di Gaza erano circa duemila, così divisi: 1.500-1.600 ortodossi e 400-500 cattolici. Circa la metà di loro se ne è andata via a poco a poco dopo l’arrivo al potere di Hamas nella Striscia di Gaza. Dall’inizio della guerra, sono andati via, a loro volta, metà di quelli che erano rimasti. Oggia Gaza restano dunque circa 500 cristiani: quasi 250 profughi sono ortodossi e vivono nella chiesa di San Porfirio, qualche decina è nella Sacra Famiglia e gli altri disseminati nei campi profughi.
San Porfirio è un luogo storico con un museo che ospita collezioni risalenti all’Antichità romana. I cristiani, ma anche i musulmani, vi si rifugiavano durante le guerre perché consideravano le chiese come luoghi sicuri. “Gli israeliani non hanno remore a bombardare le moschee, ma risparmiano le chiese”, dicevano.
Un’enciclopedia vivente
Ad ottobre 2023, con lo scoppio della guerra, gli israeliani hanno cominciato però a bombardare la chiesa di San Porfirio. Un anno fa, nella chiesa avevano trovato rifugio 500 persone, sia cristiani che musulmani. Nei raid, sono morte 18 persone, tutti cristiani. Tra questi, c’era la nostra cara vicina Hélène, che riposi in pace. Era un po’ la nostra madre Teresa. Era amata da tutti. Diventata vedova nei primi anni 2000, era stata insegnante, poi aveva diretto varie scuole della Striscia di Gaza. Hélène conosceva tutti. Era una vera enciclopedia vivente delle famiglie di Gaza. Bastava farle un nome, e lei ti diceva da dove veniva quella persona, che aveva avuto tra i suoi studenti suo padre, sua madre, suo figlio...
Tra i morti c’era anche un’altra vicina di casa, Eva, di 73 anni. Nubile, ha vissuto con sua sorella fino a qualche anno fa. Eva è stata uccisa insieme a suo fratello, a sua moglie e alla loro giovane figlia.
La morte di tutti i vicini cristiani della nostra torre – eravamo un po’ come una famiglia –, è stato un gran dolore per noi, è stato davvero un duro colpo. Najwa e sua sorella Aïda sono sopravvissute al bombardamento, ma Aïda è morta quaranta giorni fa perché non c’erano medicine. Telefonavo ogni giorno a Najwa e Aïda, per cercare di tirarle su di morale. Mi consideravano un po’ come un loro figlio. È impossibile recarmi a Gaza City, dove si trova la chiesa di San Porfirio, poiché gli israeliani hanno totalmente separato il nord dal sud della Striscia di Gaza. Per me era importante almeno a chiamarle, perché le due sorelle non hanno nessuno. Il loro unico fratello è morto sei o sette mesi prima della guerra, e le altre sorelle vivono in Canada o in Giordania.
Solo un mucchio di macerie
Se vi parlo di Najwa tra tutti i cristiani rifugiati a San Porfirio, è perché oggi Aïda riposa in pace. Sono quasi sette mesi che Najwa vive da rifugiata all’interno della chiesa. Per lei è diventata una prigione. Non è proibito uscire, lo fanno anche tanti altri rifugiati, ma lei ha paura. Con la sorella sono uscite appena due volte: una a novembre, quando c’è stata l’unica tregua, e l’altra, quando Aida è stata portata in ospedale.
Najwa è rimasta profondamente scioccata da quello che quello che ha visto fuori casa. L’ambulanza ha portato lei e sua sorella all’ospedale Al-Awda di Jabaliya perché l’ospedale Al-Ahli, noto anche come ospedale Battista, che si trova accanto alla chiesa, non poteva operare Aïda, mentre il grande ospedale Al-Shifa è completamente distrutto. “Gaza non esiste più”, ha detto Najwa.
Non c’erano più strade, né infrastrutture, né case, nient’altro che un mucchio di macerie. Ovunque aleggiava un senso di morte, dappertutto c’era il deserto. Mia sorella era su una barella, in gravi condizioni. Non è stato un cammino verso la guarigione, ma verso la morte.
Purtroppo, sua sorella non ce l’ha fatta. Se n’è andata a riposare in pace perché non c’era un modo per continuare a curarla. In chiesa, ora sono 250, per lo più cristiani, e qualche musulmano. Tra questi ultimi, c’è la famiglia che ha gestito la chiesa per 25 anni e che abitava proprio lì accanto. Nei pressi della chiesa si trova anche la Moschea Katib al-Wilaya. Lì c’è un pozzo, che garantisce il rifornimento d’acqua alla chiesa. A sua volta, la chiesa, che dispone di un generatore, fornisce l’energia elettrica alla moschea. Ma le condizioni restano precarie. “Se la gente crede che la chiesa sia un alloggio a cinque stelle, si sbaglia”, racconta Najwa. “Dormiamo su dei materassi uno accanto all’altro”. Siccome Aïda era malata, le hanno dato, in via eccezionale, quattro materassi su cui sdraiarsi. A San Porfirio, vivono una cinquantina di persone ad ogni piano, con servizi igienici e una doccia su ogni pianerottolo. C’è un angolo cottura ma non lo usano perché manca il gas. Cucinano nel cortile su un fuoco. La chiesa può distribuire solo un pasto ogni 2 giorni, una zuppa di lenticchie, o lenticchie con pane, del riso, o delle scatolette. Niente di più.
Oggi mi ritroverei da sola
Nei giorni in cui la chiesa non distribuisce pasti, Najwa si arrangia con una scatoletta di tonno o delle fave. “Al mercato, è tutto troppo caro”, dice.
La mia colazione consiste in un pezzetto di pane pita con un po’ di zaatar – se c’è – a volte, con un po’ di formaggio. Ma ho perso l’appetito. Mangio solo per poter sopravvivere. Negli ultimi tempi, ho mangiato il minimo indispensabile per aiutare mia sorella, ma era lei a non voler più mangiare. Il suo stato psicologico peggiorava ancora di più di quello fisico. Non voleva più vivere perché desiderava una vita migliore dove ci sarebbe stata giustizia, tranquillità e pace.
Con Najwa abbiamo parlato anche della situazione politica perché mi ha chiesto se c’è qualche speranza, se le proteste in Israele possono portare a un accordo per un cessate il fuoco. Come gli altri, anche Najwa è convinta che io conosca, da giornalista, tutti i vari retroscena... Le ho risposto che stavolta ero ottimista, perché ho visto Netanyahu un po’ in difficoltà, che Biden, in un suo discorso, lo ha apertamente criticato dopo quanto accaduto, la morte dei sei prigionieri, tutta quella storia, insomma che ci sono le condizioni per un cessate il fuoco. A quel punto, Najwa, dopo una pausa, mi ha detto:
Ma davvero credi che, dopo un cessate il fuoco, sarà tutto rose e fiori? Io non so come vivrò, in che condizioni tornerò a casa. Nella torre, non ci saranno più i nostri vicini. C’era Hélène, c’era Eva, c’era mia sorella Aïda. Oggi mi ritroverei da sola. Tutti sono andati via dal nostro edificio, il lato sud è stato quasi del tutto abbattuto. Come potrei vivere lì? Uscirò da questa prigione, ma non so se sarò davvero libera. La paura mi circonda, e non vedo via d’uscita. Non parlo della paura di morire, ma di vivere male, senza tranquillità, di vivere nell’angoscia, di restare prigioniera della paura.
Dopo ha aggiunto: “Non è forse meglio lasciare questo mondo, seguendo Hélène, Eva e mia sorella, piuttosto che restare da soli in questa vita?”. Non sapevo cosa rispondere. Così le ho detto che questo era l’anno peggiore, che sarebbe andata meglio in futuro, che la guerra sarebbe finita, che avremmo ritrovato la tranquillità. E lei mi ha risposto:
Sai Rami, ho 75 anni, ne ho davvero passate tante: il 1948, il 1967, il 1973, la prima e la seconda Intifada... ma è niente rispetto a ciò che viviamo oggi. Non ho mai avuto il desiderio di preferire la morte alla vita. Non è per una questione di età. Dovrei avere più fede, visto che sono in una chiesa, ma non vedo un futuro. Non capisco come possano sparare in un luogo sacro, come possano uccidere della gente che si è rifugiata in un luogo sacro. E non vedo come tutto questo potrà avere una fine.
Dopo la guerra, Najwa non vuole tornare nella chiesa di San Porfirio, nemmeno per pregare sulle tombe di sua sorella e delle sue amiche che sono state sepolte nel cimitero: “Per me, San Porfirio rimarrà sempre la prigione dove sono confinata, e non voglio più rivederla”. Parole che mi hanno fatto riflettere. Così le ho detto: “Forse usciremo da questa guerra, ma sarà difficile togliercela dalla testa. Non solo perché è durata così lungo, ma anche perché abbiamo vissuto cose terribili. Spero che la guerra finisca presto, e che la chiesa torni ad essere, come prima, un luogo di preghiera e di culto, e non un rifugio precario dove si ha paura di essere bombardati.