Diario da Gaza 50

“Rendo omaggio e dico grazie ai medici rimasti a Gaza”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine mostra un gruppo di persone in uno spazio pubblico. Alcuni individui indossano camici verdi, suggerendo che potrebbero essere operatori sanitari. In primo piano, ci sono due corpi avvolti in lenzuola bianche. Alcuni membri del gruppo sembrano essere in uno stato di lutto, mentre altri osservano la scena in modo serio. L'atmosfera complessiva è di tristezza e riflessione.
Gaza, 14 giugno 2024. Il personale medico dell’ospedale Al-Ahli Arabi piange davanti al corpo avvolto nel sudario di una loro collega, un’infermiera uccisa durante un bombardamento israeliano la notte precedente nel campo profughi di Shati, nei locali dell’ospedale.
Omar Al Qatta / AFP

Giovedì 12 settembre 2024.

Le cattive notizie si susseguono. Mercoledì, il fratello di Sabah, ‘Abdelbasset, ci ha chiamato per dirci che suo figlio Youssef, di quattro anni, era tra la vita e la morte. Con il fratellino Zein, che ne ha sette, hanno lasciato la casa di sua zia, la sorella di ‘Abdelbasset e Sabah, ad al-Bureij (nel centro della striscia di Gaza), dove era rifugiata la sua famiglia. Volevano comprare dei biscotti al negozio di alimentari che si trova a poche centinaia di metri di distanza. In quel momento, ci sono stati intensi bombardamenti.

I bambini sono stati scaraventati per centinaia di metri. Quando ha sentito l’esplosione, la madre è accorsa fuori, ma c’erano i suoi figli tra i feriti. Con suo marito ‘Abdelbasset, hanno subito fatto il giro degli ospedali. Il più vicino è quello di Al-Awda, dove i medici hanno detto che c’erano due bambini, di quattro e sette anni, di cui non conoscevano il nome, che erano stati ricoverati e trasferiti all’ospedale Shuhada al-Aqsa di Deir el-Balah. L’ospedale di al-Awda copre tutto il centro della striscia di Gaza, al-Bureij, Nuseirat, Maghazi... ma poiché è un ospedale privato, gestito da un’associazione, non può prendersi cura dei pazienti in condizioni critiche, per mancanza di carburante e forniture sanitarie.

Chi è ferito è spesso condannato a morire

Youssef è arrivato al pronto soccorso in arresto cardiaco. Sono riusciti a rianimarlo, ma è subito caduto in coma. Ha riportato ferite alla testa e ai polmoni. Giovedì, era ancora in condizioni critiche.

Zein, invece, ha ferite meno gravi. L’hanno subito trasferito all’ospedale Nasser, a Khan Younis, perché il reparto di radiologia dell’ospedale Shuhada al-Aqsa non può fare una TAC. Per fortuna, Zein non ha un’emorragia interna, ma lo shock gli ha fatto perdere parte della memoria, oltre ai denti.

L’ospedale è sovraffollato e i pazienti sono stipati nei corridoi. L’unità di terapia intensiva ha solo cinque posti letto, per cui i medici devono fare una cernita tra i feriti, dando la precedenza ai giovani rispetto ai più anziani.

Youssef e Zein sono solo due esempi tra le migliaia di bambini di Gaza. Sono stati feriti durante i bombardamenti perché stavano andando a comprare dei biscotti. Non hanno nulla a che fare con Hamas. Non sono né “terroristi”, né un pericolo per la “sicurezza di Israele”.

La loro situazione dà un’idea del sistema sanitario nella striscia di Gaza. Prima della guerra, il sistema era già in sofferenza a causa del blocco israeliano e per la mancanza di molte risorse e attrezzature sanitarie. Chiaramente oggi è ancora peggio. Quando gli israeliani decidono di entrare in una città, il loro primo obiettivo è colpire l’ospedale. Nel nord, hanno già distrutto gli ospedali al-Shifa e Kamal Adwan, ma, in genere, colpiscono sia strutture pubbliche che private. L’obiettivo è quello di distruggere l’intero sistema sanitario. Sono già ridotti in macerie l’ospedale al-Shifa, l’ospedale Nasser e l’ospedale europeo a est di Rafah. Chi è ferito spesso è condannato a morire. Manca tutto: farmaci anestetici, attrezzature sanitarie, medicinali.

La ONGizzazione degli ospedali pubblici

L’obiettivo di Israele è quello di distruggere sia l’ala civile che quella militare di Hamas, e di conseguenza tutto il settore pubblico. Per loro, gli ospedali sono tutti gestiti da Hamas. Oggi ci sono numerosi ospedali da campo allestiti dalle Ong internazionali, soprattutto nelle zone indicate come “umanitarie” dagli israeliani, in particolare ad Al-Mawasi. Ma a Khan Yunis, Deir al-Balah, Nuseirat, persino a Zawaida, ci sono solo piccole strutture sanitarie.

C’è sempre più la tendenza a trasportare i feriti negli ospedali da campo. Se mio figlio ha bisogno di cure, non andrò più all’ospedale pubblico, ma in una di queste strutture. Quando Ibtissam, la sorella di mia moglie Sabah, è rimasta gravemente ferita, è stata portata all’ospedale del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Lì ci sono i mezzi per fare delle radiografie, degli interventi chirurgici complessi, oltre ad avere disponibilità di farmaci. Inoltre, sono strutture gestite dalle Ong e quindi attirano i medici palestinesi che operano nel pubblico. È una cosa che vedo ogni giorno. Sono strutture che offrono tre o quattro volte lo stipendio degli ospedali pubblici.

A Gaza, le condizioni per i medici sono disastrose. Va considerato che gli unici settori della collaborazione tra Hamas e Fatah, vale a dire l’Autorità Palestinese (ANP) in Cisgiordania, sono l’istruzione e la sanità. Anche dopo che Hamas ha preso il potere a Gaza, l’Autorità ha continuato a finanziare ospedali e scuole. Oggi i medici e primari assunti da Hamas, invece, non ricevono più regolarmente lo stipendio. È il motivo per cui chi poteva permetterselo è andato via da Gaza con tutta la famiglia, anche per sopravvivere al genocidio in corso.

Altri hanno scelto di lavorare per gli ospedali delle Ong, non solo per lo stipendio, ma anche per avere i mezzi per poter operare. Ormai il servizio pubblico sta lentamente scomparendo. Gli ospedali pubblici che sono distrutti o danneggiati da Israele li stanno ristrutturando le Ong internazionali. Una parte dell’amministrazione resta palestinese, ma la vera direzione è di competenza delle Ong. So bene che non è una loro intenzione, perché le Ong cercano di fornire aiuto in un momento di estrema gravità, ma dipendono dagli israeliani, che favoriscono l’importazione di medicinali e anestetici per le Ong, ma non per gli ospedali pubblici palestinesi.

Sostituire il pubblico con l’internazionale

Credo che purtroppo, prima della fine e dopo la guerra, non ci sarà più alcuna assistenza sanitaria pubblica. Sono convinto che gli ospedali da campo siano temporanei, ma che resteranno ancora a lungo. Credo anche che sarà un sistema che verrà esteso ad altri settori: gli aiuti umanitari, per esempio, o l’istruzione. Gli israeliani hanno intenzione di abolire i ministeri degli Affari sociali, della Sanità, dell’Istruzione... sostituendoli con delle Ong, in modo da facilitare il compito.

È certo che non permetteranno né ad Hamas, né all’Autorità Palestinese di ricostruire o gestire le scuole. Forse vedremo scuole francesi, americane o scuole gestite da Ong. Tutto per motivi “umanitari”, perché sono quasi 620.000 gli studenti che per il secondo anno consecutivo non potranno andare a scuola. All’inizio, forse ci saranno anche scuole nei campi profughi, che diventeranno a poco a poco scuole permanenti. Anche su questo, credo che le Ong non abbiano cattive intenzioni, anzi fanno un grande lavoro, ma sono gli israeliani che stanno approfittando della loro buona fede per portare avanti il loro progetto, che è quello di sostituire il “pubblico” con “internazionale”, in modo da farci dirigere, in un modo o nell’altro, dall’“Internazionale”. Solo così non avremo più bisogno di un governo o un’Autorità Palestinese, ma solo di una piccola amministrazione con il compito di coordinarsi con l’occupazione e le Ong.

Gaza diventerà quindi un luogo in cui si potrà solo sopravvivere. E chi riuscirà a sopravvivere al genocidio non avrà né uno Stato, né un governo, né alcuna forma di autonomia. È ciò che ho visto e sentito in ospedale quando ho fatto visita a Youssef. Comprendo le ragioni dei medici che hanno scelto di andare via, ma ringrazio quelli che sono ancora qui, quelli che non hanno lasciato il loro lavoro, che hanno scelto di non abbandonare Gaza, ma di rimanere qui per dare una mano. Sono in prima linea, lontani dai riflettori. Di loro non si parla mai, ma fanno un grande lavoro rischiando lo sfinimento. Dopo un anno di guerra e un flusso quotidiano di feriti, interventi chirurgici e morti, i medici sono ancora qui. È per questo che voglio rendere omaggio a tutto il personale sanitario che ha deciso di restare a Gaza e dico loro: grazie.

Quando ha fatto irruzione all’ospedale al-Shifa, l’esercito israeliano ha arrestato molti di quei medici, uccidendone altri. Il chirurgo Adnan al-Bursh, capo reparto di ortopedia in quell’ospedale, è morto nelle carceri israeliane a causa delle torture. Altri medici, arrestati e poi rilasciati, sono tornati al loro posto perché convinti di fare un lavoro nobile, come in questo caso. Perciò dico grazie a tutti loro. Spero che il settore sanitario pubblico resista e che si riesca a ricostruire delle buone infrastrutture, sia nel settore della sanità che in quello dell’istruzione. Spero, inoltre, che i medici palestinesi continuino a lavorare ancora nel settore pubblico in modo che si possa sempre dire “c’è un ospedale in Palestina”. E spero anche che un giorno potremo finalmente uscire da questo genocidio senza fine.