Diario da Gaza 36

“Vi racconterò la nostra vita in tenda e quella di migliaia di persone che vivono qui”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine ritrae un campo profughi improvvisato, con tende e strutture temporanee visibili in lontananza. In primo piano, c'è una giovane ragazza che sorride mentre si trova accanto a una tenda. I vestiti pendono da un filo tra le tende, e il terreno appare polveroso e irregolare. Sullo sfondo, il cielo è sereno e blu, creando un contrasto con la situazione circostante. La scena trasmette un senso di resilienza nonostante le difficoltà.
Una giovane profuga palestinese si appoggia a uno stendibiancheria vicino alla tendopoli a Deir el-Balah, nel sud della Striscia di Gaza, il 3 giugno 2024.
BASHAR TALEB / AFP

Domenica 9 giugno 2024.

Oggi vi parlerò di come si vive in una tendopoli. Come sapete, è la seconda volta che veniamo espulsi. Dopo essere partiti da Gaza City per andare a Rafah, al confine con l’Egitto, ora siamo a Deir el-Balah, più a nord, ma sempre all’interno della parte meridionale della Striscia di Gaza, secondo la divisione dell’esercito israeliano in due settori: nord e sud.

Questa volta ci siamo sistemati in tenda. È dal 1948 che la tenda rappresenta il simbolo dei profughi palestinesi. La popolazione che era stata costretta a lasciare le città di Jaffa, Akka, e in generale della Palestina storica, si stabilì in tende per sfuggire ai massacri e alle stragi dell’epoca. Poi si rifugiò all’estero, in Libano, in Giordania, in Siria; o all’interno, in Cisgiordania e a Gaza, trovando sistemazione per strada, in zone abbandonate, ovunque ci fosse un posto. I profughi erano convinti che non sarebbe durato a lungo, che, dopo i massacri, le milizie israeliane avrebbero lasciato le città e i villaggi, e, col tempo, i palestinesi sarebbero tornati a casa. È da 76 anni che attendono il ritorno.

“Vivere in una tenda è umiliante e rende la vita un inferno”

Oggi stiamo vivendo la stessa situazione. Abbiamo lasciato Rafah per sfuggire ai massacri e alle stragi. Siamo andati via, nostro malgrado. Il nostro è stato un esodo forzato. La maggior parte dei profughi ha trovato solo una sistemazione in tenda. Nel 1948 furono le Nazioni Unite a fornire le tende ai profughi. Ed è quello che sta avvenendo ancora oggi, anche grazie all’aiuto delle Ong.

Degli amici francesi mi chiedono com’è vivere in una tenda. Non si tratta solo di passare da una casa in muratura ad un alloggio fatto di tela. No, vivere in tenda è umiliante e rende la vita un inferno. Chissà se saremo costretti a sopportare questa vita ancora per mesi o forse anni. La guerra va avanti da 8 mesi e nessuno sa quando finirà.

Avevo preparato la mia famiglia a questo inevitabile e radicale cambiamento di vita. Finora si sono adattati bene. Ma ho l’impressione che i bambini comincino ad essere stanchi. Tra l’altro, fanno avanti e indietro con me per prendere l’acqua, e stanno scoprendo un po’ alla volta che non è affatto bello vivere in queste tende. Non so se si renderanno conto che questa è una vita durissima e che il giochino divertente che avevo escogitato non esiste. E non è ancora chiaro quando finirà questa situazione umiliante. Non è facile scherzare, dimostrarsi forti, far credere alla gente che vada tutto bene.

“Una tenda è come una sauna piena di mosche”

Vivere in una tenda non significa solo avere un posto dove dormire e sopravvivere per qualche settimana, mese o anno nell’attesa di tornare a casa. È una vita molto dura. È di questa vita che voglio parlarvi, la nostra e quella di migliaia di persone che vivono qui. In confronto, la nostra è una tenda a cinque stelle, e noi siamo in 6. Ma tra il milione e mezzo di profughi, ci sono tante altre famiglie che vivono in 12 persone nella stessa tenda, spesso un rifugio improvvisato fatto con teli impermeabili. La nostra tenda è lunga 4 metri per 5 di larghezza ed è alta 1 metro e 80, l’unico posto dove si può stare in piedi. È giusto un posto per dormire, perché la tenda è interamente occupata dai materassi.

Vivere in tenda significa anche sopportare un caldo infernale durante il giorno, con le mosche che entrano dentro, anche se chiudi tutto, e non smettono mai di infastidirti. Una tenda è come una sauna piena di mosche. E di notte è l’esatto contrario: fa freddo, perché dormiamo su un terreno incolto dove c’è solo sabbia, non molto lontano dal mare. Bisogna portare almeno due o tre coperte. Vivere in tenda significa svegliarsi con dolori dappertutto, perché si dorme su un suolo che non è perfettamente piatto, anche se abbiamo fatto il possibile per livellarlo.

Vivere in una tenda significa anche dipendere dagli aiuti umanitari, mangiando solo cibo in scatola. È andare a cercare ogni giorno un posto dove ricaricare i cellulari e le lampade a batteria, per avere un po’ di luce di notte.

Vivere in tenda significa fare la fila ogni giorno, per l’acqua, per il cibo. Bisogna camminare per centinaia di metri, a volte chilometri, per riempire secchi dai 7 ai 10 litri. Inoltre, bisogna anche avere dei secchi, che ora costano tra i 50 e i 60 shekel (tra i 12 e i 20 euro) mentre prima costavano solo due shekel (un euro). E al ritorno, serve avere anche una cisterna per poter immagazzinare l’acqua.

“Vivere in tenda significa dormire con gli occhi semiaperti”

Per cucinare serve un forno di argilla, e bisogna procurarsi la legna. Quando non c’è si usa qualsiasi cosa. Molti bruciano cartoni o materiale plastico. Quasi tutto il giorno siamo costretti a respirare il fumo della combustione della plastica. Facciamo il bucato nei secchi, indossiamo gli stessi vestiti per tre o quattro giorni per risparmiare acqua. Per i servizi igienici, scaviamo una buca.

Vivere in tenda significa anche tenere costantemente d’occhio insetti, serpenti e scorpioni. Di notte chiudo tutto, ho la possibilità di farlo perché ho una tenda “a cinque stelle”, ma chi vive sotto i teloni impermeabili, direttamente sulla sabbia, corre seri pericoli, soprattutto di notte. Di recente, sul nostro terreno, abbiamo trovato uno scorpione. I nostri vicini hanno avvistato dei serpenti. Per questo vivere in tenda significa dormire con gli occhi semiaperti, sempre con la paura che qualcosa si intrufoli. Ho paura soprattutto per mio figlio che ha due anni e mezzo. Quando Walid ha visto delle formiche, ne ha avuto paura. Allora gli ho canticchiato una canzone che conosce, e che parla di formiche che camminano in coppia, poi gliele ho fatte toccare per fargli capire che non erano pericolose: “Guarda mamma, sto toccando le formiche!”. Ho cercato di fargli capire che tutto ciò che è intorno, tutto ciò che vede non è necessariamente un pericolo, perché non voglio instillare in lui la paura. Ma ovviamente, il mio timore è che, imbattendosi in uno scorpione o in un serpente, lo possa toccare credendo che nulla possa fargli del male...

Vivere in tenda significa non avere alcuna intimità. Come sapete, ci siamo stabiliti su un piccolo terreno circondato da un muro, insieme ad altre due famiglie, tra cui quella del mio amico Hassoun. Tre tende in tutto. Ma il nostro spazio è circondato da un campo profughi, dove vivono ammassati l’uno sull’altro in accampamenti di fortuna. Sentiamo un rumore continuo, quello delle conversazioni di migliaia di persone. Si sente tutto ciò che viene detto nelle tende più vicine. Inoltre, dobbiamo restare vestiti ventiquattr’ore al giorno. Vi ho già descritto i cambiamenti apportati dalla guerra nella nostra società conservatrice, come non ci sia più intimità per le donne, e come la vita riservata, dove si evitava la promiscuità, stia scomparendo. Abbiamo costruito un piccolo angolo cottura a ridosso del muro di cinta, per risparmiare un po’ di spazio, economizzando su teloni e legname. Appena dietro il muro ci sono le tende, si sente la gente che parla, si può ascoltare ogni segreto della loro vita privata.

“Sentire il rumore dei droni 7 giorni su 7”

Vivere in tenda significa anche essere esposti a malattie dermatologiche. Moaz, il figlio maggiore di mia moglie, ha la schiena tutta rossa per una puntura d’insetto e per un’allergia. In ospedale, questo genere di infortuni non viene considerato una priorità, perché sono sommersi dall’ondata di feriti gravi a causa dei raid israeliani. Siamo stati da medici e farmacisti, ma per il momento nessuno ha trovato un rimedio.

Vivere in una tenda significa sentire il rumore di continui bombardamenti, oltre a quelli dei droni 7 giorni su 7. È avere la sensazione che non ci sia più un tetto o quattro mura che possano almeno proteggere dalle granate, che potrebbero lacerare i teli delle tende, causando enormi danni nei campi profughi, come s’è visto in varie occasioni, a Deir el-Balah o in altre zone.

Vivere in una tendopoli è anche una vita di umiliazione. È da sempre che insisto su questa parola, ed è quello che gli israeliani vogliono: umiliarci. Lo fanno dal 1948. È a quell’epoca che i nostri genitori hanno cominciato a vivere in tende, talvolta in accampamenti di fortuna come oggi. I campi di fortuna si sono lentamente trasformati. Chi poteva permetterselo ha cominciato a costruire alloggi in muratura nei campi dove si trovavano. Non li hanno lasciati perché quei campi erano per loro il simbolo del ritorno. Era un modo per dire: io sono di Jaffa, di Haifa, di Akka, appartengo a questa città o quel villaggio da cui sono stato espulso. Per loro, il campo rappresentava il luogo da cui provenivano. Anche se oggi vivono in una casa, sentono di vivere ancora in una tenda, in un rifugio temporaneo, in attesa di poter fare ritorno a casa un giorno.

Ma la tenda è soprattutto il simbolo della resilienza palestinese, nonostante tutto ciò che si può vivere al suo interno. Noi ci siamo sistemati nelle tende per non lasciare la Palestina. Ne abbiamo fatto un simbolo politico, per dire che ritorneremo a casa. Perché un giorno tutto questo finirà, e non ci saranno più tende.