
El-Fasher, Sudan. Una catastrofe annunciata
Il 26 ottobre 2025, la città di El-Fasher, capitale del Darfur settentrionale (Sudan), è caduta nelle mani delle Forze di sostegno rapido (FSR) dopo un assedio durato complessivamente 18 mesi. Nelle ore successive alla caduta della città, migliaia di civili sono stati giustiziati. Tre settimane dopo i massacri, sembra che si stia procedendo più verso la guerra che verso i negoziati.

Abdelwahab* (il suo nome è stato modificato) è un miracolato. Domenica 26 ottobre, mentre i soldati delle Forze di sostegno rapido (RSF) invadevano il centro di El-Fasher, è riuscito a sfuggire alla carneficina, una prima volta. “Siamo partiti con la paura e la fame. Ovunque c’erano cadaveri sparsi per le strade”, ricorda l’uomo, 57 anni. Interminabili colonne di civili sono fuggite dalla capitale del Darfur settentrionale, caduta nelle mani delle truppe del generale Mohammed Hamdan Dagalo, detto “Hemetti”, che si adoprano in massacri di massa tra i 260.000 civili assediati da oltre 18 mesi.
Abdelwahab è stato arrestato a un posto di blocco presidiato dai paramilitari alla periferia della città. Lì gli uomini erano stati separati dalle donne. Sotto la minaccia delle armi, sono stati spogliati e radunati nella polvere. Improvvisamente, si è sentita una raffica di proeittili. Nessuno dei cento uomini si è rialzato. “Avrei dovuto essere il centesimo. Per grazia di Dio sono sopravvissuto”, racconta, sopravvissuto una seconda volta. Ferito a una gamba, gli si sono voluti diversi giorni di cammino a piedi nudi per raggiungere la località di Tawila, ai piedi delle montagne del Jebel Marra.
Delle oltre 70.000 persone fuggite dai massacri di El-Fasher, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), meno di 10.000 sono riuscite a raggiungere questa zona sotto il controllo del Movimento di Liberazione del Sudan, uno dei pochi gruppi armati ufficialmente neutrali nel conflitto che ha devastato il Paese dall’aprile 2023. Circa 15.000 civili sono riusciti a fuggire nel nord del Sudan e alcune migliaia hanno trovato rifugio nel Darfur orientale.
“Dove sono finiti tutti gli altri?”, si chiede Iqbal* (il suo nome è stato modificato), inorridita. Questa madre, appena arrivata a Tawila, ha perso le tracce dei suoi sette figli. Quando le RSF hanno lanciato il loro assalto finale, lei stava vegliando su uno dei suoi figli nell’ospedale saudita di El-Fasher, dove, due giorni dopo, 460 pazienti sono stati uccisi dai paramilitari, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Iqbal è riuscita a fuggire per un soffio, finendo per nascondere il figlio ferito in mezzo a un boschetto di arbusti per sottrarlo alle grinfie dei soldati. Arrestata, Iqbal è stata detenuta per tre giorni, prima di essere rilasciata per poi raggiungere Tawila, da sola.
Diciotto mesi di assedio
“Dove sono i nostri uomini? Non ho trovato nessuno. Che Dio li protegga”, si dispera Iqbal. Nelle testimonianze video trasmesse da Orient XXI, i sopravvissuti di El-Fasher parlano a bassa voce sotto dei teli stesi su pezzi di legno come unico riparo di fortuna. Sono debilitati ed esausti, cercano le parole e faticano ad articolare il discorso. Oltre al trauma della fuga e dei massacri, è la fame a tormentarli. Sono oltre 18 mesi che El-Fasher è diventata, infatti, un labirinto a cielo aperto.
Man mano che i paramilitari hanno stretto la morsa sulla città, le risorse si sono esaurite. Mentre i proiettili piovevano sulla città, nessuno scatolone di aiuti umanitari era autorizzato ad attraversare la trincea di sabbia lunga 55 chilometri eretta dalle RSF intorno alla città per stremare la popolazione. Chi voleva fuggire doveva correre il rischio di essere arrestato ai posti di blocco, derubato e talvolta giustiziato sommariamente sul ciglio della strada. Al contrario, i commercianti che tentavano di contrabbandare sacchi di riso venivano fucilati a bruciapelo nelle trincee.

“Non c’è più niente da mangiare. Non ci sono più medicine. La gente consuma una volta ogni due giorni ambaz, un mangime per animali. Ma ultimamente non è nemmeno più disponibile sul mercato. Quindi mangiamo pelli di mucca bollite. Non resisteremo a lungo”, raccontava un fotografo locale pochi giorni prima dell’assalto finale a El-Fasher. Orient XXI ha perso ogni contatto con lui.
All’ospedale saudita di El-Fasher, l’unica struttura ancora funzionante della città, più volte colpita dall’artiglieria o dai droni dei paramilitari, la situazione era già critica da mesi. “Le bombe cadono fin dalla preghiera del mattino. Ci manca tutto. Viviamo nell’odore del sangue e della morte”, confidava un medico sul posto poche ore prima dell’assalto. Orient XXI ha perso ogni contatto anche con lui.

Un’intera città in attesa di morire
“Le madri non hanno più latte per nutrire i neonati. Se si trovano un po’ di soldi, i banchi del suk sono vuoti perchè sono esposti ai bombardamenti dei droni. Siamo gli emarginati degli emarginati. Il mondo ci ha dimenticati”, dice allarmata una donna sfollata in una scuola. I circa 260.000 civili – metà dei quali bambini – intrappolati prima dell’ultimo assalto, vivevano già come “ostaggi con la paura della loro imminente esecuzione”, secondo le parole di un abitante contattato prima della presa della città. Anche con lui Orient XXI ha perso ogni contatto.
Un’intera città attendeva la morte nel silenzio colpevole della comunità internazionale. Sebbene le organizzazioni umanitarie abbiano lanciato l’allarme già da mesi, descrivendo El-Fasher come “l’abisso dell’inferno” – secondo le parole dell’UNICEF – non è stata intrapresa alcuna iniziativa internazionale in grado di imporre la revoca dell’assedio evitando lo scenario peggiore: la carestia associata a massacri su larga scala.
La catastrofe era prevedibile. A seguito degli scontri iniziati a Khartoum il 15 aprile 2023 tra le RSF e le Forze armate sudanesi (SAF) guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan1, la guerra si è rapidamente estesa al Darfur, roccaforte storica dei paramilitari. Già nel giugno 2023, le RSF hanno conquistato la città di El-Geneina, nel Darfur occidentale, compiendo una pulizia etnica contro la comunità Massalit che, secondo le Nazioni Unite, ha causato tra i 10.000 e i 15.000 morti.
Tutti gli occhi si sono quindi rivolti verso El-Fasher. Il presidio militare che ospitava la 6a divisione di fanteria di El-Fasher, ultimo bastione nel Darfur, delle SAF, era difesa anche dalle Forze congiunte – una coalizione di ex movimenti ribelli – e da gruppi di autodifesa locali reclutati principalmente tra la comunità Zaghawa, un’etnia non araba a cavallo tra il Sudan e il Ciad. Con un milione e mezzo di abitanti, provenienti soprattutto dalle comunità non arabe del Darfur, la città avrebbe subito la stessa sorte di El-Geneina2?
Tutto lascia pensare di sì. Per conquistare El-Fasher, le RSF hanno radunato decine di migliaia di combattenti provenienti da ogni angolo del Darfur, reclutati soprattutto tra le tribù arabe della regione. Le loro truppe, rafforzate da mercenari ciadiani e da altre comunità arabe del Sahel, sono i discendenti delle milizie Janjawid, ex miliziani dell’esercito che hanno seminato il terrore nel Darfur a partire dal 2003, prendendo parte al genocidio commesso dal regime di Omar al-Bashir. Vent’anni dopo, in questa regione dove le ferite della guerra non si sono mai rimarginate, gli uomini di Hemetti incarnano lo stesso incubo tornato a tormentare i suoi abitanti, perseguendo nella loro strategia di accaparramento delle terre e di pulizia etnica iniziata nel 2003.
Quanti civili sono stati uccisi a El-Fasher? Ad oggi non è stata data alcuna risposta chiara. Nelle ore successive alla caduta della città nelle mani dei paramilitari, sono stati uccisi tra i 2.000 e i 3.000 civili. Da due settimane, diverse fonti concordano che il numero potrebbe essere doppio, se non triplo. Di fronte all’impossibilità di entrare nella città e all’interruzione delle telecomunicazioni – aggirata solo da un esiguo numero di attivisti e giornalisti locali che dispongono di router Starlink – gli unici indizi macabri erano le pozze di sangue visibili dallo spazio grazie alle immagini satellitari. Le RSF hanno anche documentato i propri crimini pubblicando una miriade di video sui social.
Questa è la testimonianza di una giornalista locale, appena scampata al massacro di El-Fasher, che ha chiesto di rimanere anonima:
Non abbiamo notizie di migliaia di persone scomparse. Medici, attivisti, politici sono stati presi di mira. Ci sono stati decine di casi di stupro. Quello che è successo a El-Fasher non è una guerra tra due eserciti, è un massacro. Un attacco motivato dall’odio che ha preso di mira popolazioni indifese sulla base di criteri etnici.
Divisione de facto
All’alba di domenica 26 ottobre, l’esercito regolare è stato infine sconfitto dalle RSF, che hanno potuto contare su un maggiore supporto logistico e militare da parte degli Emirati Arabi Uniti, che dall’inizio delle ostilità hanno fornito alle truppe del generale Hemetti armi all’avanguardia, droni e persino mercenari colombiani. Di fronte all’assalto finale dei paramilitari, il contingente delle SAF presente nella 6a divisione di fanteria ha negoziato indirettamente il suo salvacondotto fuori dalla città, lasciando i civili senza protezione, in balia di combattenti infuriati da 550 giorni di assedio e centinaia di assalti ripetutamente respinti.
Con la caduta di El-Fasher si apre un nuovo capitolo della guerra in Sudan. Le RSF possono ora rivendicare un controllo quasi incontrastato sui cinque Stati del Darfur, un territorio grande quanto la Francia. Allo stesso tempo, le SAF del generale Abdel Fattah al-Burhan hanno consolidato il proprio controllo sulla parte orientale del Paese, in particolare dopo la riconquista della capitale Khartoum nel mese di marzo.
Man mano che la guerra si trascina, il Sudan si frammenta da est a ovest, avvicinandosi sempre più allo scenario di una divisione de facto del Paese in due zone di controllo distinte, sul modello libico. La divisione politico-economico-militare del Paese si è aggravata in agosto con la proclamazione di un governo parallelo da parte dell’ala politica delle RSF – un’alleanza ribattezzata “Tasis” – con sede nella città di Nyala, nel Sud Darfur. Conosciuta con il nome orwelliano di “Governo della Pace”, questa nuova autorità, presieduta dallo stesso generale Hemetti, si pone come rivale del governo temporaneamente insediato a Port Sudan dalle SAF, compiendo un ulteriore passo verso la divisione del Paese.
Sul campo, tuttavia, nessuna delle due parti belligeranti rivendica alcuna volontà di dividere il Sudan, ma continuano a mostrare la loro intenzione di controllare l’intero territorio. Ora le linee del fronte si stanno spostando nella provincia del Kordofan, nel centro del Sudan, teatro di aspri combattimenti da diversi mesi e dove si sta combattendo una guerra sempre più tecnologica. L’altra svolta nel conflitto sudanese è infatti il crescente utilizzo di droni da parte di entrambe le fazioni belligeranti.
Mentre le RSF dispongono di droni di fabbricazione cinese forniti dagli Emirati Arabi Uniti, le SAF possono contare su droni turchi e iraniani. La guerra non ha infatti arginato il saccheggio delle risorse naturali del Sudan a vantaggio delle potenze regionali e internazionali che si arricchiscono rifornendo entrambi gli schieramenti di armi all’avanguardia, causa del perpetuarsi del conflitto. Visto che le due forze possono beneficiare di alleanze internazionali antagoniste, ogni tentativo di mediazione sembra al momento vano.
La guerra va avanti
L’ultimo tentativo, promosso sotto l’egida di Washington dal Quartetto composto da Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto, è già fallito. Pochi giorni dopo la presa di El-Fasher, le RSF hanno annunciato di essere disposte a firmare un accordo di cessate il fuoco con l’esercito regolare, nel vano tentativo di riscattare la propria immagine dopo l’ondata di condanne internazionali per i crimini commessi nel Darfur. Ma già il giorno dopo, i paramilitari hanno condotto una serie di attacchi con droni contro infrastrutture civili e militari nella parte orientale del Paese.
Da parte loro, le SAF e le autorità di Port Sudan, supportate dal movimento islamista sudanese, assumono un atteggiamento sempre più bellicoso. Il generale Omar al-Burhan ha respinto qualsiasi negoziato con le RSF fin a quando le truppe paramilitari non si saranno ritirate dalle zone popolate da civili. Pur chiedendo un maggiore sostegno ai suoi sponsor egiziani e turchi, l’esercito regolare ha invocato la mobilitazione generale.
Dopo la caduta di El-Fasher, sembra che si stia procedendo più verso la guerra che verso i negoziati. Si sta aprendo un nuovo capitolo nell’incubo senza fine di quasi 44 milioni di sudanesi, metà dei quali sono sull’orlo della fame.
1Generale e Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, de facto capo di Stato del Sudan dopo il colpo di Stato del 25 ottobre 2021, che ha rovesciato il governo di Abdalla Hamdok. [NdT].
2Capitale dello stato sudanese del Darfur Occidentale. [NdT].
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