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Mio figlio non è solo. Milioni di giovani hanno commesso il suo stesso crimine

Lo scorso 20 dicembre un tribunale egiziano ha condannato l’attivista Alaa Abd el-Fattah a 5 anni di carcere, senza appello. Sua madre, l’accademica Laila Soueif, in quest’articolo scritto alla vigilia del verdetto, si rivolge alla comunità internazionale affinché si mobiliti per liberare una generazione che rischia di morire in prigione.

L'immagine mostra un uomo visto attraverso una rete metallica. La luce crea ombre sul suo viso, evidenziando la sua espressione seria. Indossa occhiali e ha una barba, mentre lo sfondo risulta scuro e indistinto, contribuendo a un'atmosfera di introspezione o solitudine.
Alaa Abdel Fattah durante il suo processo nell’istituto di polizia di Tora, annesso della prigione, il 23 febbraio 2015
Khaled Desouki/AFP

Il Cairo. In piedi davanti al complesso carcerario di Tora, dove è detenuto mio figlio, una madre mi chiede: «Per cosa è dentro tuo figlio?». “Politica”, le dico. Sembra sorpresa, non perché si può essere incarcerati per la politica (non c’è nulla di strano in questo in Egitto) ma perché la gran parte dei prigionieri politici sono islamisti,e non le sembro la madre di un islamista. “Era uno degli shabab al-thawra”, aggiungo, i giovani della rivoluzione. Non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni.

Perché mio figlio, Alaa Abd el-Fattah, è in carcere? È uno delle decine di migliaia di prigionieri politici in Egitto. È lì da più di sette anni, attraverso diversi governi, con poche speranze di una via d’uscita. È stato processato molte volte, e sarà di nuovo condannato lunedì [20 dicembre]. Il suo crimine è che, come milioni di giovani in Egitto, e ben al di là dell’Egitto, ha creduto che un altro mondo fosse possibile. E ha osato tentare di realizzarlo.

Adesso sembra che il mondo esterno, un tempo tanto ispirato dai rivoluzionari egiziani, abbia voltato lo sguardo altrove, mentre i governi democratici rivolgono un’attenzione poco più che formale alle questioni di diritti e giustizia.

Forse queste parole dello stesso Alaa sintetizzano al meglio la situazione:

La mia generazione è diventata maggiorenne all’epoca della seconda Intifada. Abbiamo mosso i primi passi nel mondo quando le bombe cadevano su Baghdad. Intorno a noi, i fratelli arabi gridavano: «Sui nostri cadeveri!», e gli alleati del Nord urlavano: «Non nel nostro nome!», mentre i compagni del sud esultavano: «Un altro mondo è possibile». Noi ci siamo resi conti che il mondo che avevamo ereditato stava svanendo, e che non eravamo più soli.

Ritratto di un attivista in prigione

Questo passo è tratto da “Ritratto dell’attivista fuori dalla sua prigione”, un saggio che Alaa ha scritto nel 2017, e che compare in una raccolta dei suoi scritti da poco pubblicata col titolo Non siete stati ancora sconfitti. Adesso, invece, devo tentare di delineare un ritratto dell’attivista dentro la sua prigione.

Alaa è stato arrestato nel settembre del 2019, nel quadro dell’ennesima ondata di arresti politici. Aveva appena finito di scontare una condanna di cinque anni, con l’accusa di aver “organizzato una protesta”. Stava ricostruendo la sua vita. Era fuori da sei mesi in libertà vigilata, costretto a dormire ogni notte nella stazione di polizia del suo quartiere, quando sono venuti di nuovo a prenderlo. Da allora è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tora 2. (Le condizioni nel più draconiano carcere di massima sicurezza di Tora 1, dove sono detenuti migliaia di altri prigionieri, sono di gran lunga peggiori).

Quello che Alaa ha descritto ai suoi avvocati e a me è straziante: la notte in cui è stato portato in carcere è stato denudato e picchiato in uno spettacolo che i detenuti chiamano la “festa di benvenuto”. Mi ha raccontato che lo hanno minacciato dicendogli di non raccontare l’accaduto, ma lui ha sporto una denuncia alla procura. Gli vietano letture di qualsiasi tipo. Non gli è permesso avere una radio. Non gli è permesso avere un orologio. Non gli è permesso fare esercizio fisico al di fuori della sua cella. Lo fanno uscire dalla cella solo per le visite e per le udienze in tribunale. Eppure, lui denuncia tutti gli abusi e le violazioni di cui è a conoscenza, ci racconta di quando viene a sapere di persone scomparse che compaiono nel sistema carcerario, ha presentato una denuncia riferendo di aver sentito che una persona veniva torturata nella cella accanto alla sua. Gli agenti che ha denunciato continuano a mantenere la propria carica e ad avere autorità su di lui.

Una lenta tortura

A causa delle restrizioni dettate dal Covid-19 le visite in carcere sono state sospese per cinque mesi. Quando sono state ripristinate, sono state ridotte ad una al mese, per 20 minuti, con un solo membro della famiglia. Le visite avvengono dietro una barriera di vetro. Parliamo attraverso un telefono; diamo per scontato che tutto quello che diciamo è registrato. Da un po’ di tempo mi racconta di avere pensieri suicidi.

Quando è in giudizio, compare nell’aula di tribunale dentro una gabbia. Attraverso le sbarre mi ha detto che morirà in prigione. All’inizio di quest’anno due uomini, un giornalista che si chiama Mohamed Ibrahim, noto con lo pseudonimo Mohamed Oxygen, e il blogger Abd el-Rahman Tarek, conosciuto come Moka, hanno tentato di togliersi la vita dopo aver trascorso anni in carcere senza un capo d’accusa, in quella che viene chiamata “detenzione preventiva”. E questi sono solo due tra gli innumerevoli esempi possibili.

Alaa ha sopportato due anni di questa lenta tortura, e non c’è una fine all’orizzonte. Insieme a Mohamed Oxygen e a Mohamed al-Baqer, un avvocato per i diritti umani arrestato mentre rappresentava Alaa, è accusato di diffusione di notizie false. Il giudice si è rifiutato di far avere ai legali della difesa una copia del fascicolo d’inchiesta così che non possano costruire una difesa. Ma noi sappiamo che Alaa è sotto processo per aver ripostato un tweet riguardante un prigioniero morto dopo esser stato torturato, nella stessa prigione in cui Alaa oggi è detenuto. Alaa e i suoi coimputati saranno condannati lunedì. E la sentenza non può essere impugnata.

L’ipocrisia europea e americana

La pressione che gli Stati Uniti e l’Europa dichiarano di esercitare sul governo egiziano perché ripulisca la propria condotta in materia di diritti umani ha il solo scopo di placare determinati settori del proprio elettorato. Le autorità egiziane agiscono di conseguenza. Sanno che “ripulisci la tua condotta in tema di diritti umani” significa in realtà “noi ti sosteniamo, ma per favore cerca di non metterci in imbarazzo”. Per questo l’Egitto ha recentemente pubblicato una Strategia nazionale per i diritti umani estremamente autocompiacente. Due mesi dopo, in seguito a un incontro tra il Segretario di Stato Antony J. Blinken e Sameh Shoukry, il suo omologo egiziano, gli Stati Uniti hanno diffuso una dichiarazionein cui affermano che “accolgono con favore la strategia” e che intendono “continuare il dialogo sui diritti umani”.

Coloro che hanno davvero a cuore i diritti umani non devono farsi ingannare dalle strategie scritte, ma cercare atti reali: tanto per cominciare, liberare la generazione che viene lentamente uccisa in carcere per aver pensato liberamente e ad aver espresso il proprio pensiero.

Le parole di Alaa nel saggio citato sopra sono rivolte, in parte, agli “alleati del nord che scandivano ‘Non nel nostro nome’ mentre le bombe cadevano su Baghdad”. Le persone che vivono negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o negli altri paesi del Nord globale spesso mi chiedono come possono aiutare. Io dico loro di passare al vaglio le politiche estere dei propri governi con la stessa risolutezza con cui vigilano sulle politiche interne. La risposta di Alaa è questa, sempre:

Aggiustate la vostra democrazia. Proteggetela. Non c’è modo migliore di aiutarci.