Il 30 gennaio 2011 Rached Ghannouchi toccava il suolo tunisino dopo oltre 20 anni di esilio. Il leader del partito islamista Ennahda veniva acclamato da migliaia di persone venute ad accoglierlo all’aeroporto di Tunisi al grido di “Tala’al badrou ‘alayna” (la luna piena si è levata su di noi), un canto islamico tradizionale che celebra l’arrivo del Profeta Mohammad a Medina.
Questo ritorno, due settimane dopo la caduta di Zine El-Abidine Ben Ali, segnava la rinascita di un partito che il regime autoritario aveva cercato di sradicare. Nonostante la prigionia e l’esilio di una parte importante dei suoi quadri, il partito Ennahda, che ha ottenuto la legalizzazione nel marzo 2011, ha potuto contare su una base militante radicata su tutto il territorio nazionale e nei principali paesi di accoglienza della diaspora tunisina. Con la nuova legge elettorale, che ha escluso d’ufficio i quadri del vecchio regime, il partito è divenuto così la più grande forza politica del paese. Di fronte a questa popolarità, una componente significativa delle nuove élite post-rivoluzionarie, essenzialmente risultato della vecchia opposizione a Ben Ali, ha definito la sua strategia elettorale in funzione di Ennahda, non esitando a riappropriarsi della retorica utilizzata dal vecchio regime per demonizzare il movimento di Ghannouchi. Così facendo, contribuendo a metterlo al centro del gioco politico.
Fino alle elezioni dell’Assemblea Costituente dell’ottobre 2011, Ennahda ha evitato ogni confronto diretto con il potere in carica. I suoi dirigenti hanno preferito ricordare le sofferenze patite durante la dittatura, ancorandosi saldamente al campo della rivoluzione presso una parte dell’opinione pubblica. Il discorso anti-islamista diffuso dai grandi media, inoltre, ha rinforzato questa postura vittimista. Numerosi elementi hanno contribuito al suo successo elettorale: arrivato in testa in tutte le circoscrizioni, il partito ha ottenuto il 37% dei voti e ha occupato il 42% dei seggi della nuova Assemblea Costituente.
Governare, ma non troppo
Ma come fare per governare un paese senza un minimo di adesione alle sue élite politiche, culturali, mediatiche e amministrative? Ennahda si è trovato schiacciato tra la pressione della sua base e l’ostilità di una parte non indifferente dei circoli influenti, sia in Tunisia che all’estero, suscitando timori presso alcuni tunisini segnati da uno scenario all’iraniana, o peggio all’algerina. Al fine di rassicurare e relativizzare l’immagine di un’egemonia islamista su tutte le istituzioni, il movimento ha quindi formato una coalizione con due partiti non islamisti: il Congresso per la Repubblica (CPR) di Moncef Marzouki; e il Forum Democratico per i Diritti e le Libertà (Ettakattol) di Mustapha Ben Jaafar. Le tre formazioni si sono divise le tre presidenze: quella del Governo (Ennahda), quella della Repubblica (CPR) e quella del Parlamento (Ettakattol). Di fatto, riservando i ruoli essenziali del potere esecutivo al capo del Governo, mentre i principali Ministeri e Commissioni parlamentari al controllo del partito islamista. Il posizionamento rispetto agli islamisti è divenuto così da allora un leitmotiv elettorale. Se non ha impedito al partito di Ghannouchi di arrivare in testa alle elezioni (con una maggioranza ogni volta più relativa), quest’ultimo ha ritenuto che il suo movimento non dovesse mai governare da solo, per evitare di concentrare su di sé la rabbia popolare. Béji Caïd Essebsi è stato Primo ministro durante il periodo di transizione (febbraio-ottobre 2011). Meno di un anno dopo, nel giugno 2012, ha approfittato dello sgretolamento dell’opposizione cosiddetta “democratica” per creare il partito Nidaa Tounès, aggregando oppositori storici, sindacalisti, e membri del vecchio regime il cui unico punto in comune era l’opposizione agli islamisti. Ma una volta al potere, questa squadra non sarebbe durata a lungo.
Uno scenario all’egiziana?
Forti della legittimità elettorale dell’ottobre 2011, i militanti di Ennahda hanno ingaggiato una battaglia senza quartiere contro tutte le espressioni di dissenso, assimilate sempre ad un rifiuto del verdetto delle urne. Così, molti membri dell’opposizione a Ben Ali sono stati tacciati di essere contro-rivoluzionari per la sola ragione di non sostenere l’azione di governo. Un’accusa che non ha risparmiato alcuni avvocati che avevano assicurato la difesa degli imputati islamisti sotto il vecchio regime. Durante l’inverno del 2012 era stato organizzato un sit-in davanti alla sede della televisione nazionale, accusata di non riflettere la volontà popolare: i leader di questa contestazione sarebbero andati presto a formare le Leghe per la Protezione della Rivoluzione (LPR), milizie che non avrebbero esitato ad attaccare fisicamente gli oppositori. Nidaa Tounès diventerà, allo stesso modo, uno dei loro obiettivi privilegiati, da quando il partito mostrerà nei sondaggi di essere sul punto di rappresentare una seria minaccia per Ennahda.
Parallelamente a questo scatenarsi della violenza in totale impunità, l’esecutivo mostra una certa tolleranza verso le espressioni più radicali dell’islamismo in nome della libertà religiosa. Numerosi predicatori estremisti, come l’egiziano Wajdi Ghoneim o il kuwaitiano Nabil Al-Awadi, vengono ricevuti in pompa magna dai leader di Ennahda. Il partito salafita Ettahir, che propone l’instaurazione di un Califfato islamico, viene autorizzato, e il movimento Ansar Al-Sharia affiliato ad Al Qaeda ha acquisito una posizione consolidata. Il tutto in un contesto di attentati terroristici contro le forze armate. Il 18 ottobre 2012, una manifestazione delle LPR a Tatouine degenera, e un responsabile locale di Nidaa Tounès viene linciato a morte. La violenza prosegue con l’assassinio dei dirigenti del Fronte Popolare (coalizione di sinistra ed estrema sinistra) Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi nel 2013. A fine luglio, un importante sit-in ha luogo al Bardo, davanti all’Assemblea Costituente, per chiedere la dissoluzione di tutte le istituzioni nate dal voto del 2011. Siamo qualche settimana dopo il colpo di Stato del generale Abdel Fattah Al-Sisi in Egitto, sostenuto (o tollerato) dalla maggior parte dei partner della Tunisia, contro il Presidente islamista eletto Mohamed Morsi.
Morire per sopravvivere
I dirigenti di Ennahda comprendono che la loro legittimità elettorale non li avrebbe protetti da un putsch. Decidono allora di riavvicinarsi ai nemici di un tempo, i desturiani, e di optare per una strategia del consenso. Questa svolta non è assolutamente un precedente: se il partito islamista e il CPR si erano ufficialmente lanciati in una lotta contro il vecchio regime nel 2011, proponendo in particolare una legge di “ripulitura” politica, non avevano esitato a nominare membri vicini al potere benalista a capo di amministrazioni e imprese pubbliche mostrando un cambio di fedeltà. Ennahda quindi accetta di lasciare il governo e di consegnare il potere a dei tecnocrati incaricati di dirigere il paese fino alle elezioni del 2014. Nidaa Tounès vince le legislative e Béji Caïd Essebsi le presidenziali. Colpo di scena dopo una campagna ai ferri corti: il partito islamista rifiuta di sostenere il suo vecchio alleato, il candidato uscente Moncef Marzouki, al secondo turno delle presidenziali. Arrivato secondo alle legislative, Ennahda finirà per allearsi persino con Nidaa Tounès in nome dell’interesse nazionale. Questo sarà il primo passo verso una lunga serie di concessioni per il partito islamista, diviso tra le esigenze della sua base nutrita di ideologia islamista, e l’imperativo del compromesso per garantire la sua sopravvivenza politica.
Il quinquennio di Essebsi è senza dubbio il momento più vantaggioso per Ennahda, ma anche il periodo durante il quale ha conosciuto i suoi più grandi cambiamenti. Partecipando al potere senza essere in prima linea, il partito vedrà la sua influenza aumentare via via che il partito presidenziale si disintegra, minato da lotte intestine. Gli islamisti non esitano a sostenere progetti di legge controversi, come quello detto della “riconciliazione”, un’amnistia accordata ai funzionari condannati per fatti di corruzione avvenuti durante il vecchio regime. È ancora durante questo periodo che il partito rivede la sua organizzazione interna. Al di là dell’immagine che mette l’accento sulla separazione tra l’azione politica e la predicazione, il decimo congresso di Ennahda nel 2016 accresce considerevolmente le prerogative di Ghannouchi, permettendogli di nominare i membri del bureau esecutivo che saranno validati dal Consiglio della Shoura. Un paradosso per un partito che propone la creazione di un regime parlamentare, che dovrebbe limitare le derive legate al potere personale. Alcuni candidati alle elezioni legislative del 2019 ne pagheranno il prezzo, dal momento che il capo non ha esitato ad apportare modifiche sostanziali nelle liste delle primarie organizzate a livello di ogni circoscrizione.
Contrariamente a quanto affermano molti detrattori degli islamisti, l’alleanza tra Ennahda e Nidaa Tounès non è totalmente contro natura. I partiti convergono su molti punti, in particolare sulle scelte economiche e sociali. I sostenitori di Ennahda concordano su domande di “riforme” richieste dai finanziatori, e non rimettono assolutamente in causa il modello di sviluppo che il paese ha seguito dopo gli anni Ottanta, basato su un disimpegno progressivo dello Stato e sull’apertura ad accordi di libero scambio diseguali.
I limiti del doppio gioco
Questo andirivieni tra una retorica rivoluzionaria e un esercizio del potere ambivalente sarà pagato nelle urne. Se il partito arriva in testa alle legislative del 2019, controlla a malapena un quarto dell’Assemblea e continua a vedere il suo peso elettorale ridursi progressivamente ma ineluttabilmente, passando da 1,5 milioni di elettori nel 2011 a 560.000. Durante gli scrutini, il partito s’inscrive nuovamente nel campo “rivoluzionario”, ma l’emergere di due blocchi reazionari – il Partito Desturiano Libero (PDL) di Abir Moussi e la Coalizione Al-Karama (Dignità) – rendono fragile la politica del consenso. Il primo rifiuta a gran voce tutto l’apparato politico nato dalla rivoluzione, mentre il secondo, benché fedele alleato di Ghannouchi, si pone alla sua destra e conta un certo numero di militanti delle LPR. Stretto tra un’ala destra che gioca al rilancio delle questioni identitarie – quelle alle quali Ennahda ha rinunciato – e il trauma di una messa in minoranza che condurrebbe a uno scenario all’egiziana, il partito fa nuovamente la scelta di un’alleanza con il vecchio sistema. Si riavvicina a Qalb Tounès, il partito di Nabil Karoui, uomo d’affari attualmente in detenzione provvisoria per sospetti di riciclaggio. Quest’ultimo si è fatto conoscere sotto Ben Ali ed è stato parte del nocciolo duro di Nidaa Tounès. Questa alleanza permette a Ghannouchi di diventare Presidente dell’Assemblea, una consacrazione dal momento che sa che l’ostilità nei suoi confronti gli avrebbe impedito di candidarsi alla Presidenza della Repubblica con un suffragio universale diretto.
Inoltre l’elezione di Kaïs Saïed alle presidenziali con una maggioranza comoda, e la sua popolarità poco intaccata dall’esercizio del potere, costituiscono un motivo di imbarazzo per i sostenitori di Ennahda. Contrariamente al suo predecessore, il nuovo Presidente non è un uomo del compromesso. Ricorda costantemente le contraddizioni e i compromessi dei suoi avversari senza nominarli, il che rivela i livelli di fiducia di cui gode nonostante un bilancio piuttosto debole. Questa posizione è al cuore dell’attuale crisi politica. Il 16 gennaio 2021, dopo un rimescolamento parziale nel governo di Mechichi dettato da Qalb Tounes e Ennahda, Saïed ha rifiutato di organizzare la cerimonia di giuramento dei nuovi ministri, conditio sine qua non per il loro incarico. Dal momento che alcuni partiti e organizzazioni hanno tentato la mediazione tra il Presidente e il capo del Governo, Ennahda ha deciso di giocare la carta dello scontro. Il 27 febbraio 2021 il partito ha fatto appello ai suoi sostenitori per scendere in strada a sostegno “delle istituzioni e della legittimità”. Noncuranti del divieto di spostarsi tra regioni a causa della pandemia, e ignorando i divieti, migliaia di manifestanti venuti dai quattro angoli del paese hanno sfilato su Avenue Mohamed V, una delle principali arterie della capitale. Una dimostrazione di forza che ha permesso di serrare le fila intorno a un Ghannouchi minacciato di perdere il suo seggio di Presidente dell’Assemblea.
Se la sua capacità di adattamento permanente ha permesso a Ennahda di mantenersi al potere a medio termine, non di meno minaccia la sua integrità nel lungo periodo. Innanzitutto l’elettorato del partito tende a ridursi a uno zoccolo duro di militanti storici tenuti insieme da un passato di sofferenze patite sotto la dittatura. Anche i più stretti collaboratori di Ghannouchi stanno gettando la spugna. Inoltre, l’onnipotenza di Cheik, alla testa del partito da oltre 30 anni senza interruzioni, è sempre più fragile. Le conseguenze del decimo congresso sono ancora presenti e l’undicesimo, costantemente rimandato, dovrà decidere del futuro politico di Ghannouchi, impossibile da confermare al suo posto secondo lo statuto attuale, o della sua successione. Nel settembre del 2020, cento alti quadri del partito hanno firmato una lettera aperta chiedendo al Presidente di non ripresentarsi, un atto inedito in una struttura nota per la sua disciplina interna.
Infine, se Ennahda ha integrato tutti gli strati della vita pubblica, il movimento continua a suscitare rigetto in una parte dei tunisini, al di là dei soli “sradicatori” (una parte della sinistra e del vecchio regime). Alcuni atteggiamenti, eredità del periodo della clandestinità, provocano la sfiducia dei cittadini. Così si è potuto osservare a più riprese responsabili amministrativi o politici presentati come indipendenti fare il loro “coming-out” per Ennahda, sollevando dubbi sull’esistenza di strutture parallele, un classico per i movimenti politici legati alla Fratellanza Musulmana. Questa accusa è stata rafforzata dagli ultimi scontri in seno all’Unione mondiale degli Ulema musulmani (UMOM), anticamente presieduta dal predicatore egiziano Youssef Al-Qaradaoui. La presidente del PDL, Abir Moussi, ha organizzato nel novembre 2020 un sit-in davanti alla sede tunisina dell’organizzazione, considerata la matrice ideologica dei Fratelli Musulmani. Il 9 marzo 2021, vi è entrata e si è appropriata di parte del suo materiale pedagogico. Un contro sit-in è stato organizzato in seguito da personalità legate all’Islam politico. Tra loro, i deputati della coalizione Al-Karama, una parte dello stato maggiore di Ennahda, ma anche vecchi responsabili del partito che lo hanno lasciato con fragore. Questa difesa incondizionata rinforza l’idea che al di là del partito esista una fedeltà a un movimento sovranazionale che intende attaccarsi allo Stato nazionale tunisino. Questa retorica ha già giustificato la repressione di Bourguiba e Ben Ali: rischia di convenire ad Abir Moussi, che vuole fermare la parentesi rivoluzionaria.