Libano. I medici temono lo scenario peggiore

La situazione sanitaria in Libano si fa sempre più tragica: ospedali al collasso, carenza di bombole d’ossigeno, mancanza di personale, diffusione incontrollata del virus, oltre a un lockdown mai così rigido. Sono molti gli operatori sanitari che temono una catastrofe in un paese ancora senza governo e che sta sprofondando in una crisi economica e sociale.

“Siamo stanchi”, murales
Ibrahim Chalhoub/AFP

«L’ultima possibilità» per il paese. Così dichiarava, nel corso di un’intervista andata in onda il 7 gennaio 2021, il ministro della Salute uscente Hamad Hassan alla vigilia del quarto lockdown per il Libano. Una disposizione d’urgenza proclamata per rispondere all’impennata mai raggiunta prima di contagi da Covid-19, a seguito degli oltre 5.500 casi al giorno lamentati dalle autorità contro i circa 400 dell’autunno 2020. Dopo le feste di fine anno, il paese ha adottato una serie di misure restrittive, decretando la limitazione della circolazione e un coprifuoco dalle 18 alle 5 del mattino. Ciononostante, le disposizioni introdotte sono state ritenute insufficienti ad arginare la crisi.

Da lunedì 11 gennaio, la voce di un ulteriore inasprimento del lockdown tiene in allarme la popolazione. Il presidente dell’Ordine dei medici, così come molti esperti incaricati di monitorare il diffondersi del virus, hanno richiesto nuove e più drastiche misure igienico-sanitarie. Intanto il presidente Michel Aoun ha convocato d’urgenza un consiglio di sicurezza, manifestando l’intenzione di dichiarare lo Stato d’emergenza sanitaria. I media nazionali hanno parlato di un possibile lockdown totale dai 7 ai 14 giorni con l’introduzione di un coprifuoco stretto di 24 ore su 24. Al contrario del primo entrato in vigore ad aprile 2020, qui si tratterebbe di limitare ogni minima uscita, anche per andare nei supermercati e nei negozi di alimentari.

Misure non ancora ufficiali che non hanno tardato ad allarmare la popolazione. Gli abitanti della capitale si sono precipitati nei negozi per fare scorte, per quel poco che potevano. In centro, all’ingresso del supermercato Spinneys, solitamente molto tranquillo, una guardia giurata ha fatto entrare i residenti del quartiere col contagocce. Nel primo pomeriggio, la fila davanti alle casse si estendeva lungo l’intero supermercato. Gli scaffali sono stati immediatamente saccheggiati e non c’erano più prodotti a basso costo: pane, pollo, conserve, patate, yogurt ecc.

«Sono tre anni che vivo per strada»

Non tutti però hanno potuto permettersi ciò che desideravano. Da un anno a questa parte, la disoccupazione, la svalutazione monetaria e un’inflazione senza precedenti hanno spinto una larga parte della società libanese, già di per sé vulnerabile, verso la precarietà. È il caso di Michel, che aspetta il proprio turno in fila alle casse per comprare qualcosa. «Sono tre anni che vivo per strada, e non ricevo aiuto da nessuno. Come posso chiudermi in casa, se dormo in strada? Non c’è alcuna ONG che mi aiuti, per non parlare poi dei politici corrotti, quelli si occuperanno di me il giorno in cui potranno guadagnarci dei soldi! Per loro, quello che conta è rubare i dollari che ancora restano nel paese, a loro non importa nulla di quanti soldi abbia in tasca». Tiene tra le dita una banconota spiegazzata da 20.000 lire libanesi (LBP). Il denaro che guadagna, alla giornata come molti altri, ha un valore fluttuante, legato al tasso di cambio sregolato e al prezzo di mercato. Quel giorno, con quella banconota, Michel ha potuto comprare nient’altro che una bottiglia d’acqua, una scatola di fazzoletti e due scatolette di tonno che va ad aprire su una panchina che gli servirà da letto in attesa che finisca la giornata.

«Ogni volta è peggio del giorno prima»

A qualche centinaio di metri, mentre la giornata volge al termine, ci sono dei medici indaffarati davanti all’ospedale Hôtel-Dieu di Beirut. Il personale cerca di fare del proprio meglio per far fronte all’impennata dei casi di contagio e all’afflusso dei malati. Zeina Harroun è un’infermiera che si appresta a prendere servizio nel reparto Covid. Ci spiega che «ogni volta, prima d’entrare, è necessario prepararsi psicologicamente dal momento che sappiamo che sarà peggio del giorno prima». Come molti operatori sanitari, anche lei è molto provata da mesi di pandemia, e sa bene che il peggio deve ancora venire, con meno mezzi a disposizione. «In Libano mancano sia infermieri che infermiere, e con la pandemia la situazione è peggiorata… Qui un’infermiera prende in carico otto pazienti invece di quattro. C’è il rischio di un burn-out. Inoltre, molti medici sono costretti a lasciare il servizio perché finiscono per ammalarsi. Se la crisi s’aggrava, anch’io non potrò più continuare. Non abbiamo più energia, più forze…». Gli ospedali sono invasi da pazienti fino alla saturazione. Siamo arrivati ad uno spartiacque. Quando non si può più accogliere tutti, i pazienti vengono smistati. «Vediamo morire giovani di trenta, quarant’anni… Madri di famiglia che ci supplicano al telefono di poter vedere il proprio figlio per l’ultima volta, dal momento che le visite sono proibite. Nessuno immagina cosa succede qui dentro… e la crisi non fa che amplificare tutto».

Oltre a chi lavora nei reparti Covid, hanno lanciato l’allarme anche i medici d’urgenza, come Ernest Graphie, uno specializzando che fa il turno di notte all’ospedale Saint Joseph di Dora.1 «Da molte settimane, abbiamo sempre più pazienti affetti da Covid-19. Possono restare due o tre giorni al Pronto Soccorso, perché riusciamo a sistemarne una decina in una grande stanza, perché i posti letti sono tutti occupati. Qualche volta proviamo ad indirizzarli verso un altro ospedale, ma il più delle volte ritornano qui dopo aver fatto il giro degli ospedali di Beirut. Ogni giorno sembra di giocare a ping-pong».

Il personale medico è preoccupato anche per la mancanza di materiale sanitario. Sono diversi mesi che arrivano segnalazioni dagli ospedali perché nelle farmacie mancano i farmaci più comuni. «Le persone vengono qui lamentando il fatto che i farmaci risultano introvabili, mentre qualche mese fa si trovavano ovunque. Stessa cosa accade per le bombole d’ossigeno, ormai impossibili da trovare. Presa dal panico, la gente ha cercato di accaparrarsele e ora ci sono pazienti che devono farne a meno. Ciò ha creato grande disperazione che sentiamo addosso ogni giorno e questo per noi è straziante».

Anche gli operatori sanitari temono le incertezze legate all’entità della crisi. «Il numero dei casi positivi da parte del Ministero della Salute non è attendibile. Molte persone non hanno i mezzi per effettuare il tampone molecolare (RT-PCR) che costa 150.000 LBP (82 euro), senza contare gli asintomatici che non si sottopongono ai tamponi», precisa Rawad Hayek, studente del centro medico dell’Università americana di Beirut.

«Un enorme dilemma tra due crisi»

Un anno dopo la sollevazione popolare dell’ottobre del 2019, c’è ancora molta sfiducia nei confronti della classe politica. Sono tre mesi che Saad Hariri è stato designato di nuovo premier, eppure non è stato possibile formare alcun governo. Nel momento in cui il paese s’appresta ad attraversare il momento più nero della crisi sanitaria, questo vuoto di potere esecutivo in una nazione, dove lo Stato è di solito già molto debole, desta preoccupazione nella popolazione.

Di fronte all’entità dell’emergenza è stata annunciata, confermando le indiscrezioni, la chiusura totale del paese per undici giorni a partire dal 14 gennaio, con il divieto di recarsi nei supermercati e nei negozi di alimentari. «Oggi siamo di fronte ad una sfida impegnativa. O sistemiamo le cose con un lockdown totale, rigoroso e deciso, oppure ci troveremo a fronteggiare un modello libanese più pericoloso di quello italiano», ha dichiarato l’ex premier Hassan Diab alla fine di una riunione del Comitato tecnico scientifico per la sorveglianza sanitaria.

Senza far riferimento né alla mancanza di personale medico né alla carenza di materiale sanitario, le autorità hanno puntato il dito contro i comportamenti individuali. «La situazione è ormai fuori controllo a causa della negligenza dei cittadini e del loro rifiuto a rispettare le misure di prevenzione». Dichiarazione alquanto controversa e tendenziosa, a detta di Ernest che lavora al Pronto Soccorso dell’ospedale di Dora. «Sappiamo bene che oggi ci tocca l’ondata dei contagiati dopo i giorni di festa. Come medico, non posso far altro che consigliare alla gente di restare a casa, ma, da un altro punto di vista, li capisco perché qui non si tratta di attuare un lockdown in un paese come il Canada o la Francia, ma in un paese in crisi che ha assistito all’esplosione del 4 agosto e dove la gente ha un bisogno quasi vitale d’uscire. Questo è il grande dilemma. O limitiamo la libertà e peggioriamo la crisi economica e sociale, oppure non la limitiamo e peggioriamo la crisi sanitaria».

Sulle critiche ai comportamenti individuali è nato un dibattito in rete. Se molti, di fatto, avevano puntato il dito sulla pericolosità degli assembramenti di fine anno, altri invece non hanno visto di buon occhio il modo in cui la classe politica, scaricando le proprie inadempienze, ha gettato discredito sui cittadini. Per questo motivo ha fatto molto discutere sui social la foto scattata il 6 gennaio 2021, che ritrae il ministro della salute mentre pranza, senza alcun distanziamento sociale, in un locale al chiuso. Quando è stata resa nota la positività del ministro, alcuni libanesi si sono sorpresi per la facilità con cui il ministro abbia trovato un posto letto in terapia intensiva.

I media sottolineano, con tono ironico, la maniera quantomeno singolare di trascorrere il tempo da parte del premier Saad Hariri, considerata l’assenza di governo e l’emergenza sanitaria. I suoi spostamenti personali, dopo dieci giorni di vacanze all’estero con la famiglia e l’ultima settimana trascorsa in visita dal presidente Erdoğan, destano grande preoccupazione in tempi di pandemia.

«Nessuno ci aiuta!»

Da quando è scattato il lockdown, il 14 gennaio 2021, in alcuni quartieri le strade sono completamente vuote, mentre in altri c’è il solito trambusto. Molti libanesi continuano a lavorare come niente fosse.

«Non abbiamo scelta! C’è l’affitto da pagare, e i bambini da sfamare… Nessuno ci aiuta, quindi lavoriamo lo stesso. Dal di fuori, il mio negozio sembra chiuso, ma i miei clienti sanno che se bussano alla serranda, possiamo farli entrare per fare acquisti. Per noi è di vitale importanza. Qui c’è gente che ha più possibilità di morire di fame che per il virus in sé, come quei poveri ragazzi che, la settimana scorsa, si sono dati fuoco in strada. Poveretti!», racconta Ahmad,2 un commerciante del quartiere Badaro.

Alla lunga lista di grattacapi per i medici si aggiunge anche l’arrivo del vaccino. «Conoscendo il grado di corruzione in Libano, è poco probabile che il vaccino sarà somministrato prima al personale medico o agli anziani. Credo che la distribuzione dei vaccini avverrà in modo caotico ed iniquo. I politici e le loro cricche avranno, senz’ombra di dubbio, il vaccino prima degli altri», è quanto ritiene uno dei medici. «Dubito purtroppo che siano in grado di gestire l’arrivo del vaccino in maniera adeguata, teme Zeina dell’ospedale Hôtel-Dieu. Ogni partito politico cerca di accaparrarsi un certo numero di dosi da dare ai propri sostenitori. Se non sostieni alcun partito politico, sarai assistito per ultimo, o addirittura non assistito».

Ai primi giorni del 2021, la crisi in Libano è ancora in un circolo vizioso. Dopo un anno di caos e l’apice toccato con la doppia esplosione omicida del 4 agosto, l’evoluzione della pandemia non sembra di buon auspicio, anche se la variante inglese del Coronavirus è stata scoperta in una famiglia di ritorno dal Regno Unito. Per la fine di febbraio, è stato annunciato dalle autorità l’arrivo in ogni caso di due milioni di vaccini. Una sfida logistica titanica per il Paese dei cedri, che ha già comunicato che verrà data la priorità ai capi di partito e ai deputati, ancor prima del personale medico.

Un caso di discriminazione nazionale dibattuto dal resto della popolazione su Twitter, dove è stato rapidamente lanciato l’hashtag #prima il vaccino per i Libanesi. Nel mirino sono finiti non solo il milione e mezzo di rifugiati siriani che si trovano in Libano dall’inizio del conflitto, ma anche i profughi palestinesi, presenti dal 1948. Tutte e due sono regolarmente al centro di discorsi ed atti a stampo razzista, anche da parte di uomini politici.

1Sobborgo a nord-est di Beirut nel distretto di Matn del Governatorato del Monte Libano, amministrato dal comune di Bourj Hammoud

2Il nome è stato modificato su richiesta dell’interessato