Alle 13 in punto dello scorso 21 novembre, dal vecchio centro di Khartoum è partita la marcia di protesta, già annunciata alla vigilia, in un’atmosfera volutamente gioiosa. Sembrava lontanissimo il clima teso e cruento dei giorni precedenti. Le sole pochissime uniformi in giro se ne stavano opportunamente dietro il filo spinato nelle strade adiacenti. I sostenitori di un Sudan democratico hanno persino ripreso i loro slogan, “il potere ai civili”, “il popolo vuole la caduta del regime”, “i militari nelle loro caserme, i civili al potere” per uno o due chilometri senza essere dispersi da colpi di proiettili veri o dai gas lacrimogeni. Ci sono stati, ma più tardi, nei pressi del palazzo presidenziale. Si è tornati a sperare grazie all’annuncio della liberazione del primo ministro della transizione, Abdallah Hamdok.
Nel pomeriggio, lo stato d’animo però si è trasformato in amarezza, sconforto e rabbia. È stata mal interpretata la diffusione di una foto, scattata nel palazzo presidenziale, che ritrae il generale golpista Abdel Fattah al-Burhan seduto trionfalmente su una poltrona presidenziale tra due bandiere, alla sua destra il suo braccio destro, designato dallo stesso al-Burhan, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, e alla sua sinistra, all’altra estremità, è seduto Abdallah Hamdok. Dopo la conferenza stampa, non è stato ben accolto il discorso dell’ex premier, che invitava i sudanesi a unirsi per il bene del Paese e per quello di al-Burhan, che piangeva lacrime di coccodrillo per i civili morti. Quanto al contenuto stesso dell’accordo, ha provocato sia un calo di popolarità per Hamdok, fino a quel momento l’uomo più rispettato dall’opinione pubblica, sia un moto di protesta.
In primo luogo, perché così c’è il rischio di ritornare a prima del golpe militare del 25 ottobre, con la spartizione del potere tra civili e militari. In secondo luogo, perché non c’è chiarezza sulle questioni cruciali. Qual è il Consiglio Sovrano in carica? Quello precedente sciolto dai golpisti, o quello attuale nominato dal generale al-Burhan senza i rappresentanti dei partiti politici? E che dire del passaggio di consegne, previsto di norma per questo mese, ai civili per presiedere l’attuale consiglio? È stato annunciato il rilascio dei prigionieri, ma non c’è ancora una data. Inoltre, ci sarà un rimpasto nella commissione incaricata dello smantellamento dell’ex regime, un ruolo strategico della transizione... L’ONU può accogliere con favore la sua missione in Sudan per sostenere la transizione democratica, anche se sembra che, col passar del tempo, sia l’unica a considerarsi soddisfatta. Il Partito del Congresso Sudanese (SCP) non approva la missione. E non è una cosa da sottovalutare: è una delle formazioni politiche della coalizione delle Forze per la Libertà e il Cambiamento che dovrebbe governare il paese con i militari... sono diverse le personalità che hanno contestato: così la rettrice dell’Università di Khartoum, Fadwa Abdelrahman, ha annunciato le sue dimissioni.
Nella 60ma strada, una dei luoghi principali in cui sfilano le marce della capitale, gruppi di manifestanti si sono rifiutati di sgomberare la strada. “Rifiutiamo quest’accordo. È un tradimento della rivoluzione. Così è come se avessimo lottato contro il golpe per niente. I militari sono degli assassini, non vogliamo più vederli al potere” sentenzia Ghassak, un medico. “Quanto alla loro promessa di aprire inchieste sulle sparatorie, è un vecchio trucco, è solo un modo per insabbiare la faccenda”. Su questo, siamo tutti profondamente d’accordo. I comunicati dei comitati di resistenza, punta di diamante della rivoluzione, non dicono altro e parlano di tradimento. Promettono anche un’ulteriore mobilitazione, cosa che i sudanesi incrociati nella capitale approvano. Arrivano informazioni analoghe dalle province.
Le scene che il colpo di stato ha scatenato rischiano di ripetersi nei prossimi giorni. È probabile che si riveda uno di quei vecchi autocarri sfrecciare a tutta velocità contromano su un viale affollato di Khartoum. Con una ventina di uomini dalla parte posteriore del pianale, alcuni con la divisa della polizia, altri in borghese. I primi armati di lanciarazzi e di gas lacrimogeni, i secondi di pistole un po’ difficili da nascondere sotto la camicia.
La sera di giovedì 18 novembre, alla vigilia del fine settimana, hanno sparato senza interruzione due, tre, quattro granate, e il viale, i veicoli fermi e i loro passeggeri sono stati ricoperti di gas particolarmente urticante. Il sibilo di un proiettile vero fa rumore. E così, dall’altra parte del viale, i giovani si sono dispersi nelle stradine del quartiere popolare di Dem. Stavano sopraggiungendo degli uomini in uniforme blu, scudi e lunghi bastoni in mano. Uno dei giovani è stato catturato e gettato senza tante cerimonie in una camionetta della polizia. Un po’ più lontano, degli agenti in borghese stavano tentando di smantellare due barricate fatte di mattoni e pietre che bloccavano il viale, barricate ricostruite non appena le forze armate sono state chiamate da un’altra parte con uno stratagemma che i giovani manifestanti sembrano conoscere molto bene.
UNO SCHIAFFO AGLI STATI UNITI
Scene simili avvengono ogni giorno fino a tarda notte nella maggior parte dei quartieri di Khartoum e delle sue città gemelle, Omdurman e Bahri, dal 17 novembre, il giorno della sanguinosa “marcia del milione” che, secondo l’associazione indipendente Comitato centrale dei medici, ha provocato la morte di 17 persone. Si tratta di un bilancio provvisorio, tanto è elevato il numero dei feriti gravi e che riguarda solo la capitale e le sue periferie. Il blocco della rete rende difficile avere il bilancio delle città di provincia. La Corte di giustizia ha disposto il ripristino della rete e l’ha ottenuto dopo aver emesso dei mandati di cattura contro i dirigenti delle quattro principali compagnie di telefonia mobile, ma il ripristino è stato solo parziale e non ha riguardato i social, che restano ancora bloccati a meno che non si disponga di un telefonino dotato di una VPN. La giunta che ha posto fine alla transizione democratica il 25 ottobre ha dimostrato quel 17 novembre di aver scelto quest’escalation e di aver apertamente voltato le spalle alle mediazioni internazionali. A Khartoum sono in molti a considerare le violenze di quel giorno contro i civili disarmati come l’ennesimo schiaffo in faccia agli Stati Uniti: il giorno prima, l’assistente del Segretario di stato americano per gli affari africani, Molly Phee, aveva incontrato il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo della giunta, e il governo civile destituito. Aveva chiesto ancora una volta il ritorno al potere del premier Abdallah Hamdok, deposto e tenuto sotto stretta sorveglianza. Come segno di buona volontà, i soldati hanno sparato, come fossero in un baraccone del tiro a segno, sui manifestanti che cercavano di restare uniti come potevano nei viali e nelle zone abbandonate dei quartieri. La geografia di Khartoum rende la cosa piuttosto agevole: la città è infatti attraversata da ampi viali rettilinei. Ed è qui che si danno appuntamento i piccoli raggruppamenti di ogni quartiere, con l’obiettivo di formare grandi parate che, a loro volta, si andranno ad unire per formare un’unica “marcia del milione”. Dopo il successo di quella del 30 ottobre, i militari hanno intensificato la repressione con la chiusura in piena notte dei due ponti sul Nilo e con il ricorso della violenza a cominciare dai primi assembramenti.
“Di solito, i primi colpi capitavano a fine giornata. Qui, è successo fin dai primi raduni, osserva il dottor Salman,1 un medico d’urgenza presso l’ospedale privato Royal Care. “E questi sono colpi sparati per uccidere. Abbiamo avuto un caso che ci ha fatto pensare che siano usati dei cecchini, perché la traiettoria del proiettile era dal basso verso l’alto. E c’erano anche ferite che non avevo mai visto prima, con un proiettile che si era frantumato entrando nei tessuti molli e causando molti danni”. Tutti i morti del 17 novembre, come quelli del 13 novembre – data della precedente “marcia del milione” – sono stati uccisi da proiettili veri, spesso conficcati nella parte superiore del corpo: collo, torace e addome.
Il dottor Abdelhamid al-Bouchara, primario del pronto soccorso nello stesso istituto, sottolinea che una delle vittime del 17 novembre, quando è giunta in ospedale, aveva “il cranio completamente fracassato, a causa di un proiettile di grosso calibro”. Alcuni testimoni raccontano che sono state ripetutamente usate contro la folla delle mitragliatrici leggere piazzate sui cassoni posteriori delle camionette.
CHI SONO GLI ASSASSINI Di REGIME?
Ed è ciò che i golpisti negano fermamente. Due giorni dopo l’omicidio, nel corso di una conferenza stampa, il tenente generale della polizia Khalid Mahdi Ibrahim ha denunciato un solo decesso e alcune violenze… da parte dei manifestanti contro le forze dell’ordine. A sostegno delle sue accuse, ha fatto proiettare un video alquanto sfocato in cui si vedono alcuni manifestanti scontrarsi con degli agenti di polizia. Ma è stato subito dimostrato che le immagini in questione risalivano alle rivolte del 2013. Dal canto suo, il generale al-Burhan ha annunciato di aprire un’indagine per accertare le responsabilità delle sparatorie.
In Sudan, nessuno si aspetta nulla da questa presunta inchiesta. Ma vale la pena di porsi la domanda: “Chi è che uccide? Chi è che arresta?”. La cosa evidente che è nelle zone dove le marce vengono represse nel sangue sono presenti uomini in divisa blu, altri in mimetica color sabbia, altri ancora in borghese. I sostenitori della democrazia devono affrontare un numero considerevole di organi di repressione: “L’esercito nazionale e l’intelligence militare, le Forze di supporto rapido e il suo servizio d’intelligence, la polizia e la Riserva centrale”, elenca Majdi Hassan Sayyid Dako, un avvocato che si occupa gratuitamente dei casi delle vittime della repressione. Non sempre è facile riconoscerli: i paramilitari della Forze di supporto rapido (RSF), ex janjawid, miliziani di Khartoum impiegati nel Darfur e responsabili di numerosi massacri, a volte indossano le stesse divise dell’intelligence militare o della Riserva centrale della polizia, una forza speciale impiegata secondo le leggi sullo stato d’emergenza. Il 17 novembre, degli uomini in uniforme mimetica color sabbia non portavano alcun segno distintivo che permettesse d’identificarne l’arma o il grado.
A questi bisogna aggiungere anche gli uomini degli ex Servizi di sicurezza e d’intelligence nazionale (National Intelligence and Security Service, NISS), una polizia politica particolarmente temuta sotto Omar al-Bashir. È stata smantellata solo dopo la rivoluzione del 2019, trasformandola in Servizio generale di intelligence del Sudan (General Information Service, GIS), ma non è affatto scomparsa. “Gli uomini del servizio d’azione NISS avevano quindi la possibilità di scegliere tra l’intelligence militare o l’RSF. Tutti hanno scelto la RSF, e così oggi li ritroviamo ancora attivi sul campo”, continua l’avvocato Majdi Hassan Sayyid Dako. Il legale vi ritrova l’intero armamentario della repressione del periodo di Omar al-Bashir: proroga della durata dello stato d’emergenza per sospendere ogni libertà, arresti notturni e mirati, continue vessazioni nei confronti dei giornalisti, bavaglio all’informazione libera.
CORRUZIONE E REGRESSO
La farsa messa in piedi dal generale al-Burhan il giorno del colpo di stato decisamente non regge: non si è trattato affatto di un putsch, come sosteneva all’epoca il capo del Consiglio Sovrano, presidenza collegiale delle istituzioni di transizione, ma di un modo per “correggere la transizione” minacciata dai battibecchi dei partiti. Inoltre, il generale voleva mantenere gli stessi organi anche per condurre le elezioni, ma con alcune eccezioni: infatti ha destituito dalle loro funzioni quattro membri civili del Consiglio Sovrano per sostituirli con una donna e tre uomini meno sconosciuti. Ha promesso un nuovo governo, senza riuscire finora a costituirlo. “Chi ha dell’ambizione dice che prendervi parte rappresenterebbe una macchia nel proprio curriculum, e chi non ce l’ha, non vede il motivo per perdere la propria reputazione”, ironizza la direttrice di un think tank.
Oltre ad un uso smisurato della violenza contro dei civili disarmati, la giunta è impegnata in maniera decisa a smantellare l’intera transizione democratica. Fin dai primi giorni, è stata abolita la commissione d’inchiesta sui crimini commessi durante la rivoluzione, in particolare durante il sanguinoso sgombero del sit-in a Khartoum del 3 giugno 2019. La stessa cosa è avvenuta per il Comitato per lo smantellamento del regime del 30 giugno (quello di Omar al-Bashir, salito al potere il 30 giugno 1989). Quest’ultimo aveva il compito di destituire gli uomini del Partito del Congresso Nazionale (National Congress Party, PCN), partito islamista e spina dorsale della dittatura con posizioni di rilievo, e di dare la caccia alla corruzione insita nel cosiddetto sistema tamkin lanciato nel 1989, che offriva ai sostenitori del regime ogni tipo di privilegio. Generali e kaizan2 di alto rango hanno visto in questo una minaccia per i loro beni. Uno degli avvocati responsabili del comitato, Taha Osman, è stato arrestato il 4 novembre. “I generali e i loro alleati islamisti hanno voluto fin dall’inizio stroncare ogni tentativo di smantellare il sistema tamkin e recuperare i beni illeciti a beneficio dello stato”, analizza Shamseddin Dawelbeit, fondatore del Progetto del pensiero democratico, gruppo d’analisi e letture molto noto in Sudan, e direttore del quotidiano al-Hadath (che ha cessato le pubblicazioni il 25 ottobre 2021). “I militari e gli islamisti del PCN hanno governato insieme questo paese per trent’anni. Ed insieme ne hanno rubato le ricchezze. Non hanno mai avuto alcuna intenzione di rinunciare al loro potere o ai loro beni. Il colpo di stato del 25 ottobre è il seguito dell’atto di forza del 3 giugno contro la rivoluzione. Hanno fallito all’epoca, ed è da allora che lo stavano preparando”.
Gli uomini del vecchio regime stanno ritornando nei posti chiave, ad esempio a capo delle banche pubbliche. Nei ministeri che contano, col passare dei giorni, decine di funzionari nominati dalle autorità di transizione sono stati licenziati e sostituiti dai loro predecessori. “È un gravissimo errore di valutazione, quando si vedono gli effetti del trentennio al potere di al-Bashir. Queste persone non sanno assolutamente mandare avanti un’amministrazione un minimo efficiente” continua la nostra direttrice del think tank. “Sperano così di consolidare il loro potere e di guadagnare tempo, mettendo tutti di fronte al fatto compiuto. Ma non è detto che gli vada bene”. Il motivo è che, secondo l’opinione comune, i golpisti hanno dimenticato di tenere conto di un elemento fondamentale: non li vuole nessuno. Né la comunità internazionale, salvo alcune potenze regionali – Egitto ed Emirati Arabi Uniti in primis – né, soprattutto, il popolo. L’ostilità nei confronti del colpo di stato è unanime in ogni ambiente sociale e in ogni regione, ad eccezione del gruppo che fa parte del kaizan. “È ancora fresco il ricordo della rivoluzione del 2018 e le persone non hanno dimenticato il motivo per cui hanno combattuto”, afferma Nada, una farmacista membro di un comitato di resistenza. “Non possono accettare che tutto questo sia calpestato”. Lo slogan “è impossibile tornare indietro” la dice lunga sullo spirito politico dei sudanesi.
“La generazione tra i 15 e i 35 anni non ha più nulla a che fare con la mia”, dice Hatem, un informatico, anche lui membro di un comitato di resistenza. “Noi che potevano permettercelo, siamo andati a studiare all’estero e poi ci siamo concentrati sulla nostra vita familiare. I giovani invece hanno scoperto il mondo attraverso internet, hanno visto cosa vuol dire una società democratica, uno Stato per tutti i cittadini. E dopo hanno fatto la rivoluzione. Ora non hanno più paura. Non si tireranno indietro”. Con lui c’è Anas, un ragazzo di 16 anni che ha perso suo fratello maggiore durante la marcia del 30 ottobre, “ucciso da un proiettile”, che aggiunge: “Sto combattendo per un Sudan in cui tutti i cittadini abbiano le stesse opportunità. Abbiamo un pessimo sistema pubblico d’istruzione, mentre chi ci ha derubato manda i propri figli in scuole private o all’estero. Non è possibile continuare così”. Anas partecipa a ogni marcia. Fa parte delle brigate che afferrano le granate di gas lacrimogeni, rilanciandole indietro.