Khaled El Qaisi, colpevole di Palestina

Khaled El Qaisi, cittadino italo-palestinese, è stato arrestato il 31 agosto scorso al valico di Allenby, al confine tra Giordania e Palestina occupata. Attualmente è detenuto nel carcere di Ashkelon, e non si hanno notizie sui suoi capi di imputazione. Un attacco alla diaspora palestinese nel mondo, e un pericoloso precedente per l’Italia.

L'immagine è un'illustrazione in bianco e nero di un uomo con un sorriso. Sopra di lui c'è la scritta "Colpevole di PALESTINA?", mentre nella parte inferiore è presente il nome "Khaled El Qaisi" accompagnato dalla parola "Italiano". L'illustrazione ha uno stile semplice e lineare, con tratti netti che evidenziano il volto dell'individuo.
Illustrazione realizzata da Gianluca Fogliazza per Khaled El Qaisi.

“Colpevole di Palestina”: è lo slogan che i gruppi solidali hanno scelto per sollevare l’attenzione sul caso di Khaled El Qaisi, cittadino italiano arrestato dalle autorità israeliane il 31 agosto scorso al valico di Allenby, al confine tra la Cisgiordania occupata e la Giordania, dopo una breve vacanza in Palestina per riunirsi con la sua famiglia. Ed è questa, ad oggi, l’unica accusa conosciuta: perché le autorità israeliane che lo hanno prelevato e condotto nel carcere di Ashkelon, a due settimane dai fatti, non ne hanno formulata alcuna.

El Qaisi, studente, figlio di madre italiana e padre palestinese, è un appassionato militante per la causa del suo popolo, ben conosciuto nell’ambiente solidale per il suo prezioso lavoro di traduzione di alcuni importanti testi, come “La rivolta del 1936-1939 in Palestina” di Ghassan Kanafani1, e per aver fondato il Centro di Documentazione Palestinese a Roma.

La vicenda

E’ il 31 agosto quando Khaled El Qaisi sta tornando in Italia con la moglie Francesca Antinucci e il figlio Kamal, attraversando il valico di Allenby. Ha trascorso le vacanze dalla sua famiglia, originaria di Beit Jibrin, nel campo profughi di Al Azza, vicino Betlemme. Uno dei tanti in cui la popolazione palestinese è costretta a vivere da rifugiata nella propria terra. Eppure, un luogo che per lui è casa, al quale – come ha raccontato la moglie – “aspettava di tornare da anni”. Alla frontiera controllata da Israele controllano i suoi bagagli. Poi, lo ammanettano e lo portano via. La moglie prova a chiedere spiegazioni. Non le rispondono, ma la interrogano a lungo. Soprattutto sull’orientamento politico di suo marito, membro dei Giovani Palestinesi d’Italia, e sul suo attivismo. Quando la lasciano andare è senza telefono né contanti. Riuscirà a raggiungere l’ambasciata italiana ad Amman solo grazie alla generosità di alcune donne palestinesi, che le offrono 40 dinari. “Quando ho chiesto alle addette israeliane come avrei potuto proseguire il viaggio senza soldi né cellulare mi hanno risposto ‘questo è un tuo problema’”, ha raccontato.

Intanto, El Qaisi ha la possibilità di nominare un avvocato locale ma gli viene impedito di comunicare con lui. Quando compare davanti ai giudici – il 1 settembre, poi nuovamente il 7 – l’arresto viene prorogato, ma nessuno conosce i capi di imputazione. Come riferisce Flavio Albertini Rossi, il legale che segue il caso dall’Italia: “Il detenuto e il suo difensore non hanno potuto comparire congiuntamente davanti alla Corte. A Khaled non è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua durata; non sa chi lo accusa, per quale ragione lo faccia, cosa affermi in proposito”.

Nella terza udienza preliminare del 14 settembre scorso, i giudici hanno ulteriormente rinnovato la custodia per altri 7 giorni. Nella stessa data, le forze di occupazione hanno fatto irruzione presso l’abitazione della famiglia di El Qaisi, arrestando il fratello (rilasciato poco dopo) e due suoi cugini. In questo lasso di tempo, non gli è stato dato accesso al proprio fascicolo ed ha potuto incontrare il suo legale solo in due occasioni.

Il 15 settembre scorso, a Roma, è stata convocata un’assemblea cittadina all’Università La Sapienza - dove El Qaisi è studente presso il Dipartimento di Lingue e Civiltà Orientali - in cui sono intervenuti i familiari e il legale, per dare vita ad un Comitato per la liberazione dell’attivista. Un’iniziativa unitaria per “fare pressione sulle istituzioni”, hanno spiegato gli organizzatori. Anche se, hanno ammesso, “servirebbero ben altri rapporti di forza che questa assemblea”, facendo riferimento all’assordante silenzio della politica e dei media italiani rispetto a una vicenda sempre più inquietante.

“Ci muoviamo nell’alveo dell’oltraggio dei diritti umani, lo Stato di Israele non riconosce i minimi livelli essenziali di civiltà giuridica”, ha affermato il legale nel corso dell’assemblea. “Da un punto di vista di diritto comparato possiamo dire che Israele è a un livello di Medioevo giuridico. In Italia qualora un detenuto non avesse la possibilità di ricevere la visita dei suoi legali e individuare strategie processuali, tutto il procedimento sarebbe viziato per violazione dei diritti di difesa. Khaled ha dovuto attendere 15 giorni per poter incontrare un avvocato: 15 giorni in cui è stato interrogato senza alcuna assistenza legale. La violazione dei diritti umani in Israele è dunque prevista e concessa”, sottolinea. “Ad oggi, nessuno sa quale sia concretamente la contestazione e l’imputazione che gli viene mossa. Nessuno ha potuto accedere a un fascicolo che spieghi i capi di imputazione o le prove”.

Ma quanto potrebbe andare avanti questa situazione? Per il legale “fino a 45 giorni. Dopodiché, chi esercita la giurisdizione penale dovrà decidere se gli elementi raccolti sono sufficienti a sottoporre Khaled ad un vero e proprio processo penale o, in alternativa, disporne la liberazione. Ma sappiamo che Israele ha due forme di detenzione: una penale e una amministrativa. Potrebbero quindi decidere di sottoporlo a quest’ultima, rinnovabile di 6 mesi in 6 mesi, senza la formulazione di un’accusa né un processo”.

Non un “caso”, ma sistematica oppressione

Un caso, quello di El Qaisi, tutt’altro che isolato. Come ricorda Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, raggiunta da Orient XXI: “Le detenzioni senza accusa o processo sono una pratica comune per i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana da 56 anni. Attualmente, più di 1.000 palestinesi si trovano in questa situazione, con circa 600-700 nuovi casi l’anno. Tra di loro ci sono molti bambini e giovani. Le ragioni per cui Israele arresta e detiene i palestinesi sotto occupazione sono spesso prive di legalità secondo il diritto internazionale”, ricorda. “E’ urgente ricevere risposte immediate sulle accuse mosse contro El Qaisi”.

“L’arresto di Khaled, per quanto improvviso e arbitrario, rappresenta la normalità in Palestina”, scrivono in un comunicato i Giovani Palestinesi d’Italia. “Ogni palestinese sa che l’arbitrarietà, il sopruso, la violenza coloniale e l’incertezza per sé e per i propri cari sono la quotidianità sotto il regime dell’occupazione israeliana. Pretendiamo dallo Stato italiano e dalle istituzioni che si mobilitino per la liberazione di Khaled e per il suo ritorno”.

Al Qaisi, detenuto in stato di isolamento, ha visto violato il proprio diritto alla difesa: “Nel caso di Khaled, assicurarlo significa che deve poter avere accesso ad un legale tutte le volte di cui ha bisogno, soprattutto in questa fase in cui non si hanno accuse nei suoi confronti ed è tenuto in isolamento, una pratica di per sé considerata inumana”, ribadisce Albanese.

La detenzione amministrativa

L’incubo è naturalmente quello che da una detenzione preventiva si passi al regime di detenzione amministrativa: un dispositivo in base al quale chiunque può essere arrestato e detenuto dalle autorità israeliane, ad oltranza e senza processo. Una misura ampiamente applicata da Israele ai palestinesi in Cisgiordania, ordinata da un comandante e convalidata poi da una corte militare, che può essere utilizzata contro chiunque costituisca una “minaccia alla sicurezza dello Stato” e rinnovata a tempo illimitato. Di fatto, un ulteriore strumento di oppressione utilizzato da una potenza coloniale contro un popolo illegalmente occupato. Dal 1989 ad oggi, la detenzione amministrativa è stata utilizzata in media 500 volte l’anno, spesso anche contro detenuti minorenni. Solo nel 2022, circa 7.000 palestinesi, di cui centinaia di bambini, sono stati arrestati. “La privazione della libertà”, afferma Albanese, “è un elemento centrale dell’occupazione di Israele, che fa un uso ampio, sistematico e quotidiano di arresti arbitrari, processi iniqui e torture”.

Il timore che vibra negli occhi e scorre nelle parole di ogni palestinese della diaspora italiana in queste ore, è che si vada addirittura oltre. Il rischio concreto è infatti quello che a Khaled El Qaisi venga imposta la rinuncia alla carta di identità palestinese in cambio del rilascio. O che venga espulso e rimpatriato – come accaduto nel caso del cittadino franco-palestinese Salah Hammouri nel dicembre scorso – con divieto permanente di ritorno2.

Un pericoloso precedente: l’espulsione finalizzata alla pulizia etnica

Il tentativo infatti, pare ormai evidente, è di creare un pericoloso precedente. L’arresto di Khaled El Qaisi rappresenta un attacco alla diaspora palestinese nel mondo, che con passaporto europeo e documenti di viaggio palestinesi rischia ben oltre il classico denied entry abitualmente utilizzato dalle autorità di frontiera israeliane come forma di deterrenza (e lampante violazione). Adesso, il rischio è l’arresto, la detenzione a tempo indeterminato, l’espulsione, l’impossibilità di fare ritorno. Se questo fosse l’iter seguito per El Qaisi, saremmo di fronte ad un ulteriore strumento di pulizia etnica, all’interno del più ampio e corroborato schema di controllo demografico operato da Israele. Nel caso dell’Italia, un pericolo concreto che coinvolgerebbe diverse migliaia di persone.

Come spiegano fonti dell’ambasciata palestinese d’Italia raggiunte da Orient XXI: “Non abbiamo numeri precisi: molte persone che vivono sul nostro territorio, pur essendo palestinesi, hanno un passaporto giordano, dunque l’Italia li considera cittadini giordani. Difficilmente hanno avuto contatti con noi i tanti rifugiati palestinesi approdati in Italia da luoghi di guerra, come la Siria o l’Iraq: hanno fatto richiesta di asilo politico ma non si sono registrati presso i nostri uffici. Tenendo però in considerazione la vecchia generazione – arrivata in Italia decenni fa, e che oggi ha famiglia e figli – possiamo stimare circa 10.000 persone”. Un numero che dà la misura del potenziale di controllo demografico sulla diaspora palestinese in Europa, nel caso in cui il “sistema-Khaled” fosse d’ora in avanti applicato a tutti.

Ecco perché secondo Albanese “senza essere stato condannato per alcun crimine e senza ragioni che giustifichino la detenzione in via cautelare, El Qaisi va rilasciato immediatamente. Liberato, ricondotto dove è stato arrestato e messo in condizioni di tornare a casa da uomo libero. Bisogna fare attenzione a chiederne la liberazione e non il ‘rimpatrio’ perché quest’ultimo potrebbe apparire una concessione amichevole nei confronti dell’Italia, ma alla fine risolversi in un’espulsione, cioè un provvedimento punitivo nei confronti di Khaled, che da palestinese deve poter tornare in Palestina quando lo desideri”.

Sul rischio di espulsione con il divieto di fare ritorno in Palestina si esprime anche Nicola Perugini, professore associato in Relazioni Internazionali all’Università di Edimburgo, autore di importanti studi sul sistema coloniale israeliano. “L’arresto di El Qaisi è molto pericoloso perché se venisse messo in pratica il ‘trattamento Hammouri’, con la cancellazione della carta di identità palestinese di Khaled, di fatto la detenzione arbitraria di cittadini con cittadinanza mista diventerebbe uno strumento di pulizia etnica. Migliaia di palestinesi della diaspora sparsi nel mondo rischierebbero la stessa ‘procedura’. Khaled deve essere liberato in Palestina e restare libero di entrare ed uscire dal paese con la sua famiglia”, incalza.

Il silenzio delle istituzioni

In tutto questo la politica tace. Eppure, adoperarsi per la liberazione di El Qaisi non è un’opzione, ma un obbligo giuridico. Lo spiega a Orient XXI Triestino Mariniello, professore ordinario presso la John Moores University di Liverpool e Rappresentante delle vittime di Gaza alla Corte Penale Internazionale: “Sul piano giuridico siamo evidentemente di fronte a degli illeciti internazionali. L’Italia in questo caso ha l’obbligo di intervenire, adottando tutti gli strumenti utili concessi dal Diritto Internazionale per porre fine a questa detenzione. Nessuna ‘ragione di sicurezza’ addotta da Israele prevede deroghe al diritto al giusto processo, che è stato evidentemente violato. Inoltre, la deportazione di Khaled da Allenby al territorio della potenza occupante rappresenta un’ulteriore violazione del Diritto umanitario internazionale, e per questo l’Italia è chiamata ad agire”, sottolinea.

Su questo silenzio insiste anche Albanese: “Le reazioni in Italia in relazione a questo arresto sollevano preoccupazioni e rappresentano un allontanamento dalla tradizione diplomatica italiana in Medio Oriente, improntata al rispetto della legalità internazionale e dei diritti umani. E’ fondamentale ricordare che lo Stato italiano, insieme alla comunità internazionale, ha l’obbligo di perseguire i crimini internazionali, indipendentemente dalla nazionalità delle persone coinvolte. A 15 giorni dall’arresto di Khaled El Qaisi, Israele non ha ancora fornito valide ragioni per la sua detenzione che si qualifica come arbitraria ai sensi del diritto internazionale. L’Italia ha il dovere inderogabile di proteggere i diritti fondamentali del suo cittadino, compreso quello a un processo equo e alla difesa, sin qui violati”.

Il governo italiano ad oggi non ha espresso alcuna condanna pubblica sulla vicenda, “mostrando come sia allineato alle politiche di spossessamento israeliane”, commenta Perugini. “Evidentemente il passaporto di un cittadino italo-palestinese viene considerato di seconda classe. Se un cittadino bianco fosse stato sottoposto ad un arresto senza accuse sarebbe esploso un caso diplomatico”, conclude.

Ma abbiamo a che fare con Israele, dove il diritto può essere sospeso. E siamo in Italia, dove la linea del colore – del passaporto, come della pelle – determina ancora chi possa essere difeso, e chi abbandonato a se stesso.

1Ghassan Kanafani, “La rivolta del 1936-1939 in Palestina. Contesto, dettagli, analisi”, Centro di Documentazione Palestinese, 2016.

2Accusato di crimini mai commessi per il suo impegno nell’organizzazione “Addameer”, dopo aver trascorso 9 mesi in detenzione amministrativa, senza accuse né processo, Hammouri è stato forzatamente trasferito in Francia. Gli è stata revocata la residenza permanente a Gerusalemme Est, in quello che Amnesty International ha definito “un crimine di guerra, che viola l’art.49 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta alla potenza occupante di espellere dai territori che occupa i cittadini che vi abitano”.