All’alba di mercoledì 27 ottobre 2021, Abdallah Hamdok è tornato a casa. Deposto, arrestato e poi condotto in una località segreta nelle prime ore di lunedì per essersi rifiutato (come precisato dall’ufficio del premier) di riconoscere il colpo di stato dei generali, il primo ministro sudanese è dunque riapparso. Non che sia libero di muoversi: rimane infatti sotto stretta sorveglianza.
Da lunedì 25 i social chiedevano incessantemente ai golpisti: “Dov’è il nostro premier?”. Il generale Abdel Fattah al-Burhan, ex capo di Stato Maggiore dell’esercito, presidente del Consiglio Sovrano di transizione democratica, è oggi de facto il capo della giunta militare. Martedì, ammetteva con tono falsamente pacato, nel corso di una conferenza stampa: “È qui da me”. “Ci sarebbe da ridere se gli eventi non fossero così tragici”, sottolinea con indignazione un sudanese della diaspora, acuto osservatore della transizione democratica. “Al-Burhan ammette in parole povere di aver fatto sequestrare il Primo Ministro!”. “Il generale ha fatto una cosa stupidissima! Crede forse che andremo a congratularci con lui per aver invitato Hamdok a cena?”, sbotta una donna sudanese giunta a Khartoum martedì sera.
Il ritorno di Abdallah Hamdok non vuol dire che sia stato rilasciato. Né tantomeno, di certo è la fine della crisi. È persino difficile valutare se si tratti di un gesto di pacificazione con cui i golpisti vogliono avviare negoziati con i civili o di una messinscena per calmare un’opinione pubblica che se l’aspettava ed era pronta a tutto pur di contrastare il colpo di Stato.
E la cosa non ha stupito nessuno visto che erano settimane che la tensione era alta all’interno della strana accoppiata di militari e civili che avrebbe dovuto portare a termine la transizione verso libere e democratiche elezioni previste per il 2024. “Era così nell’aria da tempo che il 21 settembre degli islamisti hanno creduto di poter compiere un colpo di stato perché immaginavano che i militari li avrebbero sostenuti”, afferma Gérard Prunier, ricercatore esperto di Africa orientale. Il primo tentativo è fallito, ma nei giorni seguenti i generali del Consiglio Sovrano hanno dato la colpa al governo di Abdallah Hamdok e non ai “turiferari” dell’ex regime di Omar al-Bashir. Così il 22 settembre, all’indomani del mancato golpe, nel corso di una cerimonia di laurea, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, a capo delle Forze di supporto rapido (RSF) nonché numero due della giunta militare, ha attribuito la causa dei tentativi di rovesciare le autorità di transizione democratica alla “mancanza di governance”. In un secondo momento, il generale al-Burhan ha dichiarato che lo scioglimento del governo fosse l’unico modo di uscire dalla crisi tra i due componenti al potere. Richiesta però respinta dal premier Hamdok.
Milizie onnipresenti
Il 16 ottobre, c’è stato un ulteriore passo verso la crisi: i manifestanti si sono radunati davanti al palazzo presidenziale, dove oggi siedono gli organi della transizione. I sit-in fanno ormai parte della memoria rivoluzionaria sudanese, ma questa volta i manifestanti invocavano il ritiro dei civili e il potere ai militari, gli unici – a loro avviso – in grado di trovare una soluzione ad una crisi economica e politica senza precedenti. Dietro le quinte, anche i militari hanno appoggiato la protesta. “Hemeti ha fatto arrivare dei sostenitori delle tribù arabe che ha contribuito a raggruppare intorno a sé negli ultimi due anni, mentre i militari hanno pagato gli organizzatori”, sostiene il nostro osservatore dello scenario sudanese. Erano i dissidenti delle Forze per la libertà e il cambiamento (FFC), la coalizione rivoluzionaria, e i membri di due gruppi armati del Darfur che però hanno firmato l’accordo di pace di Juba nell’ottobre 2020 e che oggi siedono negli organi di transizione, ossia la fazione del leader Minni Minnawi dell’Esercito di Liberazione del Sudan (SLA) e il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza di Gibril Ibrahim (JEM). Oggi il primo è governatore del Darfur, il secondo è ministro delle Finanze. “Hanno tradito il popolo sudanese e hanno scelto i propri interessi, scendendo a patti con i militari”, ha inveito un alto funzionario internazionale sudanese. “Minni Minnawi è solo un opportunista, mentre Gibril Ibrahim è un islamista. Inoltre, nessuno dei due voleva la già annunciata riforma delle forze armate”.
È una delle ragioni del colpo di Stato del 25 ottobre 2021: era in programma l’inserimento dei vari gruppi ribelli come milizie ausiliarie, un braccio armato dei servizi d’intelligence dell’esercito nazionale. Ma non l’ha voluto nessuno dei contendenti, perché avrebbe significato una perdita d’influenza, di posizioni e di sussidi. Negli ultimi mesi, gli uomini di Minni Minnawi hanno continuato, stando a ciò che dicono molte testimonianze, a fare reclutamento in alcuni campi profughi del Darfur. Armi alla mano, hanno anche provocato disordini nel distretto di Khartoum dove erano stanziati. Per quanto riguarda Hemeti, la sua forza viene dalla sua milizia, gli ex janjawid, miliziani dell’esercito durante la guerra nel Darfur, camuffati da Forze di supporto rapido (RSF). Sono queste due forze oggi che stanno guidando la repressione contro chi resiste al colpo di stato. Lo stesso esercito nazionale ci tiene a conservare il suo bottino di guerra: il suo immenso impero economico. Ha fatto di tutto, dall’inizio della transizione, per far sì che la restituzione delle sue imprese allo Stato avvenisse il più lentamente possibile.
Fin a quando i militari deterranno la presidenza del Consiglio Sovrano, saranno in grado di bloccare l’azione del governo. Poi il seggio dovrà tornare a un civile nel novembre 2022. E le cose potrebbero andare diversamente, compreso in un settore cruciale per i generali: i dossier giudiziari relativi alla consegna di Omar al-Bashir alla Corte penale internazionale (CPI), più volte richiesti dai civili e mai consegnati, la repressione della rivoluzione, in particolare la strage del sit-in a Khartoum del 3 giugno 2019, i crimini di guerra del regime di Omar al-Bashir, in particolare quelli commessi durante la guerra in Darfur e quello dei monti Nuba. “Al-Burhan, Hemeti e gli altri generali ci sono dentro fino al collo”, ha detto un alto funzionario sudanese all’estero. “Hanno molta paura che un procuratore generale porti avanti tali indagini”. “Abbiamo fatto un errore”, ammette il nostro osservatore sudanese, coinvolto nel processo di transizione. “Secondo la dichiarazione costituzionale, il Consiglio Sovrano doveva rappresentare il paese al di fuori del paese, ma il suo ruolo era essenzialmente onorario. Solo che i militari hanno colto l’occasione per prendere il potere e bloccare l’azione del governo. Bisogna tornare allo spirito della dichiarazione. È l’unico modo per poter uscire da questa crisi”.
Ma né il generale al-Burhan né Hemeti sembrano averne intenzione, almeno per ora. A livello regionale, possono vantare il sostegno di paesi che contano: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, alleati da tempo, e l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi. I legami tra i militari dei due paesi sono di vecchia data e il grande vicino settentrionale del Sudan non vede di buon occhio l’istaurarsi di una democrazia alle sue porte. Inoltre, al-Sisi conta sui generali sudanesi per destabilizzare ancor di più il premier etiope Abiy Ahmed, impantanato nella guerra del Tigrè. Al-Sisi spera che un regime militare a Khartoum accolga le richieste di aiuto dei ribelli tigrini, laddove il governo civile si è dimostrato fin qui molto restio. Nel mirino del Cairo non c’è il destino di questa provincia etiope, ma quello della grande diga della Rinascita sul Nilo Azzurro. Tutti i negoziati su questo nodo cruciale delle acque del Nilo sono finora falliti di fronte all’intransigenza nazionalista di Abiy.
RIAVVICINAMENTO CON ISRAELE
C’è un altro paese della regione favorevole ad un nuovo controllo del Sudan ad opera dei generali: Israele. A suo tempo, Donald Trump aveva forzato la mano delle autorità sudanesi, facendo firmare gli “Accordi di Abramo” per normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico in cambio dell’abolizione delle sanzioni statunitensi e della revoca del Sudan dalla lista degli stati fiancheggiatori del terrorismo. Ma da allora, niente o molto poco. Più di una volta, fonti vicine al primo ministro Hamdok hanno chiarito che i civili non erano affatto favorevoli ad un riavvicinamento, e la cosa era stata tirata per le lunghe. I militari sudanesi invece non vanno tanto per il sottile al riguardo: per rendersene conto basta ricordare che è stato proprio il generale al-Burhan a dare il là a questa svolta nella politica estera, incontrando segretamente in Uganda il premier israeliano dell’epoca, Benjamin Netanyahu, nel febbraio 2020.
Il colpo di stato sarebbe avvenuto sotto i migliori auspici? Può darsi che i generali ci abbiano creduto. Forse hanno confidato nella loro onnipotenza e in quella dei loro alleati. Ora vedono svanire le promesse di aiuti finanziari e prestiti ottenuti dal ritorno del paese all’interno della comunità internazionale. Banca Mondiale, Stati Uniti, Germania, Unione Europea: tutti hanno sospeso il versamento di centinaia di milioni di dollari promessi, o si dicono pronti a farlo se non verrà ripristinato il governo civile. Non sappiamo se il sostegno della Russia, favorevole a una potenza militare che le consentirebbe l’accesso a Port Sudan, e gli aiuti finanziari degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita siano in grado di compensare questi passi indietro. Per non parlare del rischio d’isolamento: l’Unione Africana (AU) ha sospeso il Sudan da tutti i suoi organi.
In ultimo, ci sono i sudanesi. Dall’inizio del golpe organizzano la resistenza. Nonostante la repressione e nonostante i proiettili veri e le umiliazioni. Le immagini sui social, quelle dei feriti e quelle dei giovani con i capelli rasati dai miliziani – i capelli lunghi sono un segno distintivo rivoluzionario, qui come altrove –, quelle delle donne molestate per strada e degli uomini picchiati non fanno che rafforzare la loro determinazione. Con il passare delle ore, sempre più professionisti stanno rispondendo all’appello della disobbedienza civile, che consiste di fatto nel bloccare il paese. Molti vedono in questo un remake di giugno 2019, dopo la repressione dei sit-in. All’epoca, c’è stata la “marcia del milione”, con enormi manifestazioni in tutto il Paese, che ha costretto i militari a negoziare un compromesso con i civili. Si tenne il 30 giugno. Quest’anno una prima nuova “marcia del milione” ha avuto luogo il 30 ottobre. Con lo stesso slogan: il potere ai civili.