COPPA DEL MONDO FIFA 2022

“Boycott Qatar” o la favola del cammello che vede solo la gobba degli altri

Sono diversi mesi che la questione del boicottaggio dei Mondiali in Qatar è sulle prime pagine dei giornali in Occidente. Se le pratiche dell’Emirato sono condannabili da un punto di vista morale, questa messa al bando denota però un’indignazione a geometria variabile.

Tifosi di Dortmund sventolano uno striscione con la scritta #Boycott Qatar 2022 durante la partita di calcio della Bundesliga tedesca tra Borussia Dortmund e VfB Stuttgart a Dortmund, Germania occidentale, il 22 ottobre 2022
Ina Fassbender/AFP

Di sicuro non vi è sfuggito: attraverso articoli, programmi televisivi, libri, video o status sui social, è da qualche settimana che la pubblica piazza si interroga attorno a una questione morale: bisogna boicottare i Mondiali di calcio in Qatar? Diverse città, media e personaggi pubblici hanno già espresso il loro rifiuto categorico.

Se queste argomentazioni si confondono con alcune informazioni fuorvianti – no, le coppie non sposate o gay non saranno bandite dal Qatar, e non c’è bisogno di climatizzare gli stadi a dicembre –, la gran parte delle critiche sono rivolte alla monarchia qatariota, leader mondiale per le riserve di gas: le terribili condizioni di lavoro degli operai, i costi ambientali, la situazione dei diritti umani e, in particolare, delle minoranze sessuali nel paese, critiche che difficilmente possono essere contraddette. Si può concordare, però, sul fatto che la questione dell’assegnazione della Coppa del Mondo da parte della FIFA faccia, nella migliore delle ipotesi, quantomeno sorridere, e questo torneo 2022 non rappresenta di certo un’eccezione.

Senza considerare il sistema di comunicazione di Doha e il coinvolgimento personale del suo emiro, Tamim bin Hamad Al-Thani, per salvare la reputazione del suo paese: liberando il campo dalla falsa propaganda delle “emissioni zero” , sono il razzismo e l’islamofobia dei paesi occidentali a giustificare questoQatar-bashing, definito dall’emittente televisiva del Qatar al-Jazeera qatarofobia nei confronti del primo Mondiale organizzato in un paese arabo e musulmano, come ricordano spesso i media del paese. Doha non è alla sua prima esperienza in questo campo. La crisi del 2017, che ha portato al boicottaggio del paese da parte dei suoi vicini del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council, GCC), nonché una campagna diffamatoria senza precedenti a seguito di un contenzioso con l’Arabia Saudita, sono servite solo a rafforzare il sentimento nazionalista dei suoi abitanti. Il paese ne è uscito rafforzato, e il giovane emiro è stato ribattezzato Tamim al-majd, Tamim “il glorioso”. Lo stesso orgoglio nazionalista che si sente oggi nei messaggi trasmessi dal Qatar.

Un fondo di di verità

Anche se è po’ eccessiva, la questione del razzismo e dell’islamofobia non è del tutto priva di verità. L’immagine del nuovo ricco – una specie di borghese gentiluomo mediorientale – è uno stereotipo ricorrente per i paesi del Golfo, e i suoi abitanti vengono regolarmente rappresentati in Occidente come individui ignoranti, che conoscono solo la religione e pensano di poter comprare tutto con i loro petrodollari. Un’immagine che porta con sé una dimensione politica, visto il sostegno di Doha al movimento dei Fratelli Musulmani, di cui ha accolto un certo numero di esponenti, seguendo l’esempio dell’imam e leader spirituale della Fratellanza, Yusuf al-Qaradawi1, presenza fissa sull’emittente al-Jazeera. I partiti legati all’organizzazione hanno ricevuto un sostegno finanziario e mediatico all’indomani delle Primavere arabe nei vari paesi dove hanno preso parte alla vita politica. Per non parlare del sostegno attivo – e armato – del Qatar a una delle fazioni in rivolta in Siria. Inoltre, la Fratellanza Musulmana è ormai sistematicamente associata al terrorismo in Occidente.

Per contrastare quest’immagine, il Qatar ha scelto ciò che sa fare meglio: giocare la carta del mondo arabo contro un Occidente considerato ignorante e sprezzante. Così, a partire dallo scorso anno si è dato spazio alla narrazione di una “Coppa degli Arabi”, quando l’Emirato ha ospitato la decima edizione della Coppa araba FIFA 2021, la cui cerimonia di apertura è stata caratterizzata dall’interpretazione dal vivo di tutti gli inni nazionali dei paesi della Lega Araba. È da diverse settimane che i media del Qatar mettono costantemente in risalto le bandiere dei quattro paesi arabi partecipanti ai Mondiali: il Qatar, paese ospitante, l’Arabia Saudita, il Marocco e la Tunisia, chiedendo agli ascoltatori e ai cittadini dei paesi arabi non qualificati per quale squadra intendono fare il tifo. Il nazionalismo del Qatar ha ormai ceduto il passo a un panarabismo degno di Gamal Abd el-Nasser. Meglio: se per il tradizionale inno ufficiale del torneo, Doha ne ha scelto uno in inglese, “Light The Sky” (Illumina il cielo), condiviso dal canale YouTube ufficiale della FIFA , ha prodotto anche un secondo inno, in arabo, dal titolo “Ard El Mondial” (La terra dei Mondiali). Il brano, prodotto dalla Qatar Media Corporation, è interpretato da un cantante del Qatar, due sauditi/e e un tunisino, ed è stato trasmesso dal canale YouTube ufficiale Al Kass Sports Channel, un’emittente televisiva satellitare sportiva del Qatar. Per raggiungere i più disinteressati, una cover del brano – prodotto dall’operatore telefonico del Qatar Ooredoo – dal titolo Arhebo (Welcome) è stata addirittura trasmessa in un campo profughi nel nord della Siria e su al-Jazeera. E poco male se l’annuncio dei voli tra Israele e Qatar, previsti appositamente per i Mondiali, potrebbe rovinare un po’ questo copione. Al di là del mondo arabo, l’attenzione del Qatar rispetto a questo evento sportivo è rivolta soprattutto agli spettatori provenienti dall’Africa e dall’Asia, molto più numerosi rispetto ai tifosi di calcio dei paesi del Nord. Una provincializzazione che l’Occidente fa fatica ad ammettere.

Una prima “qualificazione” per il Qatar

Spostandoci più a sud, vediamo che la critica ai Mondiali del 2022 non proviene solo dal mondo occidentale. Nonostante il “neo-panarabismo” del Qatar, l’entusiasmo per questo primo “Mondiale arabo” non è unanime. Prima ci sono state le critiche degli Emirati, che ospita però una parte dei sostenitori della Coppa del Mondo, portati negli stadi da uno dei 160 voli giornalieri che funzioneranno da navetta.

Critiche che però vanno inquadrate nel contesto della riconciliazione tra il Qatar e gli altri paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo all’inizio di gennaio 2021 che non è stata ancora digerita da Abu Dhabi. Spostandoci più a ovest, i commenti sono più pungenti purché privi di finalità politica. Se il riavvicinamento di Algeri e del Cairo a Doha ha in apparenza ridotto la polemica dal punto di vista mediatico all’organizzazione dei Mondiali, i social non risparmiano critiche. In Nord Africa ridono del fatto che il paese ospitante non si sia mai qualificato per la fase finale del Mondiale prima di questa edizione. Pensiamo anche alla politica di naturalizzazione degli atleti, ancora molto in voga fino a qualche anno fa, per sopperire alla carenza di giocatori in un paese che conta appena 3 milioni di abitanti, ma di cui solo il 10 % ha la nazionalità qatariota. In ultimo, il costo esorbitante del torneo che ammonta a circa 220 miliardi di euro, cosa che rafforza, in questa regione del mondo arabo, l’immagine di un paese che pensa di poter comprare tutto. Un giudizio confermato dal recente scandalo dei finti tifosi stranieri che sfilano per le strade della capitale del Qatar.

Resta, però, una grossa differenza tra la critica occidentale e quella di una parte del pubblico arabo, che non invoca il boicottaggio del torneo. La reazione politica, e soprattutto morale, resta dunque una prerogativa dei paesi del nord del mondo.

Non è la prima volta che una competizione sportiva di questa portata diventa oggetto di appelli al boicottaggio. All’epoca dei Mondiali 2018 in Russia, la questione emerse in seguito all’avvelenamento dell’ex spia russa Sergei Skripal, quando il coinvolgimento di Mosca nei bombardamenti di civili in Siria era di dominio pubblico. L’ex premier britannica Theresa May dichiarò all’epoca che nessun ministro o membro della famiglia reale britannica si sarebbe recato in Russia. Quattro anni prima, per gli occidentali si pose lo stesso dilemma: partecipare o meno alle Olimpiadi di Sochi 2014, dopo che Mosca aveva varato delle leggi omofobe. Senza dare una connotazione marcatamente politica alla sua assenza, l’allora presidente francese, François Hollande, decise di non andarci. Più di recente, anche le Olimpiadi invernali di Pechino sono state oggetto di un appello al boicottaggio, lanciato questa volta da Washington, a cui si sono aggiunti 6 dei suoi alleati.

Il privilegio morale dell’Occidente

Erano però tutti boicottaggi diplomatici. Ovviamente, la scelta di un capo di Stato o di governo di non assistere a simile evento sportivo non è senza conseguenze. Ma è incomparabile rispetto all’attuale movimento di boicottaggio, con città europee come Parigi o Lille che hanno annunciato che non trasmetteranno le partite sui loro schermi, e dove si assiste a un discussione quotidiana e si tirano in ballo anche personalità che non hanno nulla a che vedere con il mondo del calcio. Va detto però che il Qatar, dal punto di vista economico e diplomatico, non ha né il peso della Russia né quello della Cina.

Ciò che colpisce in questi appelli al boicottaggio è il fatto che a lanciarli siano sempre paesi del Nord contro paesi non occidentali. È una posizione morale a senso unico

L’appello al boicottaggio pone infatti una questione morale fondamentale, stabilisce una linea rossa, un limite invalicabile. Il boicottaggio dei Mondiali 2022 ci insegna che la questione dei diritti umani lo è. E allora come la mettiamo con la politica migratoria dell’Europa? Come dobbiamo considerare le pratiche di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera che opera nel Mediterraneo, o con l’esternalizzazione delle frontiere europee in Turchia o Nord Africa? Sono tutte “linee rosse” che giustificherebbero, ad esempio, il boicottaggio dei Giochi Olimpici di Parigi 2024? Sono pratiche che peggiorano il trattamento dei migranti – proprio come quello dei lavoratori in Qatar – e trasformano il Mediterraneo in un cimitero, dove sono morte nel 2021 più di 3.200 persone. E che dire della criminalizzazione dell’aborto o della non abolizione della pena di morte negli Stati Uniti? Non sono violazioni abbastanza gravi da permettere ai paesi occidentali di boicottare la messa in onda delle partite dei Mondiali del 2026, che si svolgeranno tra Stati Uniti, Canada e Messico?

In realtà, il problema non è quello di invocare il boicottaggio dei Mondiali in Qatar, quanto di chiudere un occhio quando si tratta degli altri. È di nuovo in atto la logica dei due pesi e delle due misure, la stessa che ha fatto ridere (con amaro sarcasmo) parte della popolazione del Sud quando ha sentito l’inquilino della Casa Bianca condannare l’invasione di un paese da parte di un altro, 19 anni dopo l’invasione in Iraq. È la stessa logica che fa dire al vicepresidente della Commissione europea Josep Borrell, di fronte alla domanda di Orient XXI durante una conferenza stampa a margine del Forum di Doha 2022 in merito alla diversa accoglienza riservata in Europa a ucraini e siriani, che questi ultimi non erano rifugiati, ma solo migranti.

Ammantarsi di virtù per denunciare le colpe degli altri e non vedere le proprie, proprio come fa il cammello che vede solo la gobba degli altri – l’equivalente arabo della parabola della pagliuzza e della trave – non è una cosa nuova per i paesi occidentali. Quello che sorprende, invece, è che alcuni dei paesi del Sud del mondo oggi hanno i mezzi economici per far sentire la loro voce. La grande vittima di questa storia? L’universalità dei diritti umani.

1Yusuf al-Qaradawi, morto il 26 settembre 2022 in Qatar all’età di 96 anni, è stato uno dei più influenti predicatori musulmani degli ultimi decenni. Nato nel 1926 in un paese nel Delta del Nilo, lasciò l’Egitto nel 1961 a causa della sua appartenenza ai Fratelli Musulmani, messi fuori legge e perseguitati dal regime di Nasser. Durante il suo esilio a Doha, dove stringerà un rapporto molto solido con la dinastia regnante, diventa una presenza fissa su al-Jazeera, raggiungendo una fama mondiale, a partire dal 1996, grazie al programma al-Sharī‘a wa’l-hayāt (“la sharia e la vita”), in cui dispensa indicazioni su ciò che è lecito o non è lecito per un musulmano. [NdT].