Wahhabismo

Il wahhabismo è una corrente religiosa che ha dato origine a una grande varietà di scuole, tutte accomunate da un rifiuto globale della tradizione islamica classica nelle sue tre dimensioni fondamentali: teologica (‘aqīda), giuridica (fiqh) e spirituale (tassawuf).

La parola «wahhabismo» deriva da un nome proprio, quello del suo fondatore eponimo, Mohamed Ibn Abdelwahhab (1703-1792). Questo predicatore, nato e morto nel Najd (regione centrale dell’Arabia), proveniva da una famiglia di piccoli funzionari dell’oasi di Ouyayna, situata a 30 km a nord-ovest di Riad. Già da qualche secolo da questa famiglia erano emersi studiosi di piccolo calibro, che ricoprivano il duplice ruolo di giudici (qādī, plur. qudā) di rito hanbalita, e di trasmettitori dei fondamenti della religione per gli abitanti delle zone circostanti. La regione si trovava ai margini del mondo islamico, anche a livello culturale.

All’epoca, era in uso la tradizione che gli studiosi di religione si mettessero in viaggio per entrare in contatto con i vari maestri disseminati nel Dar al-Islam. Per quanto riguarda il Najd, questa tradizione era tanto più importante in quanto non vi abitava alcun studioso degno di nota. Ma le fonti lasciano intendere che Abdelwahhab non si adeguerà veramente a questa tradizione di lunghe peregrinazioni; al massimo, viaggiando in Iraq e nello Hejaz, e frequentando qualche sheykh senza mai veramente affiliarsi al suo insegnamento. Tuttavia, durante questo percorso di formazione, scoprirà quelli che sono i riferimenti e le tematiche più importanti per la sua riflessione futura, ispirata al pensiero del damasceno Ibn Taymiyya (morto nel 1328): il ritorno alle fonti (Corano e Sunna, alla luce della comprensione dei salaf, le prime generazioni di studiosi); la lotta contro le innovazioni (bid‘a, plur. bida‘); e, soprattutto, il rifiuto di ogni forma di associazionismo teologico (shirk).

Una “teologizzazione” della religione

Il cuore del wahhabismo – che sotto molti aspetti è una dottrina assai semplice - può essere riassunto così: si tratta di una vasta «teologizzazione» della religione, nel senso che gli elementi giuridici e spirituali vengono quasi schiacciati dalla dimensione teologica. La maggior parte delle questioni giuridiche finiscono dunque per avere un impatto a livello di credo religioso, cosa che spiega la propensione del wahhabismo a scomunicare (takfīr) i musulmani anche per degli atti che in teoria ricadrebbero nella sfera del diritto, non in quella del dogma. E dunque, ciò che per secoli aveva suscitato delle controversie dottrinali tra giuristi (non tra teologi) - per esempio la domanda di intercessione presso il Profeta o i santi - non ricade più in una delle cinque categorie del fiqh (che vanno dal concetto di «proibito» a quello di «obbligatorio», passando per quello di «permesso»), ma nella dialettica fede-miscredenza. Di fatto, per Ibn Abdelwahhab e i suoi continuatori, la totalità dei musulmani è uscita dall’Islam e dunque bisogna riconvertirli, o combatterli. Il wahhabismo è ossessionato dallo shirk al punto da vederlo ovunque, specialmente nel sufismo e nel culto dei santi; il suo obiettivo è di ricondurre i musulmani alla purezza dell’unico Dio (tawhīd).

Teologicamente e giuridicamente parlando, esso si iscrive nella logica del «ritorno alle fonti originarie»: Ibn Abdelwahhab afferma di attingere direttamente dal Corano e dalla Sunna (senza ricorrere alla plurisecolare tradizione ermeneutica) anche se, nella polemica contro i suoi avversari, pretende di non deviare dalla scuola hanbalita: cosa che gli esponenti di questa scuola (madhhab, plur. madhāhib) non smetteranno mai di negare. Fin dai suoi inizi, il wahhabismo oppone dunque un rifiuto totale della tradizione classica elaborata nel corso dei secoli, denunciando come innovatori ed eretici i rappresentanti del sapere ufficiale.

Il predicatore si impone attraverso interventi pubblici estremisti, ma anche attraverso atti concreti di portata fortemente simbolica: come quando decreta l’esecuzione di una donna adultera (sebbene non avesse alcuna autorità giuridica) e distrugge la tomba di un famoso compagno del Profeta, Zayd Ibn Al-Khattab. Tramite questi atti, egli inaugura una campagna di sovversione dell’autorità legale, rappresentata dal potere centrale ottomano, nei confronti del sistema giuridico ufficiale, e dell’autorità religiosa (le quattro grandi scuole, da una parte, le confraternite sufi, dall’altra). I suoi atti e la pratica costante del tafkir crearono scandalo e il suo stesso padre, allora qādī nella regione, decide di condannarlo ed espellerlo.

Nascita di un potere bicefalo in Arabia

Grazie a un’alleanza conclusa nel 1744 con un capo tribale, Mohammed Ibn Saud (fondatore della dinastia saudita), Ibn Abdelwahhab ottenne il sostegno di un braccio armato, cosa che prima gli mancava: il wahhabismo inaugura così la fase di espansione attraverso il jihad contro i musulmani miscredenti. Si tratta di una rottura con la tradizione più generale secondo la quale, da Ibn Hanbal a Ibn Taymiyya, il jihad non viene interpretato come guerra di conquista bensì come difesa della Umma, la «comunità dei credenti».

L’alleanza istituisce peraltro quella forma di bicefalia tutt’oggi in vigore in Arabia Saudita: il potere religioso è nelle mani della famiglia dello sheykh, dei discendenti di Abdelwahhab (gli Āl al-Sheikh), mentre il potere politico è nelle mani dei Saud (gli Āl Su‘ūd). Tale alleanza condurrà a una lotta su due fronti: dinastico, contro gli Ottomani, e religioso, contro la totalità delle autorità dell’epoca (ulema e sufi). Il wahhabismo, fin dagli inizi, si presenta come una contro-religione. Il lungo XIX secolo vedrà alternarsi fasi di conquista e di ripiegamento delle forze wahhabite, con due regni successivi - 1745-1818 et 1824-1890 - intervallati da una restaurazione ottomana, che avvenne con il pretesto dei saccheggi wahabiti, tra il 1801 e il 1803, delle tombe di Najaf e Karbala, in Iraq, e soprattutto quelli della Mecca e di Medina. Gli Ottomani risposero con la distruzione della capitale saudita di Al-Dariya e l’esecuzione di Abdallah Ibn Saud. Ricreato nel 1890 da ’Abdelaziz Ibn Saud, il regno riprende la sua politica di anatemi, distruzione di tombe, razzie e massacri di massa. In seguito, grazie al collasso dell’Impero Ottomano, vengono conquistati La Mecca e lo Hejaz (dal quale viene scacciata la dinastia hashemita nel 1925) e il regno si espande - con il beneplacito dei Britannici - sino ad includere la maggior parte della penisola arabica. Cosa che porta infine alla proclamazione, nel 1932, dell’attuale regno dell’Arabia Saudita (al-mamlaka al-‘arabiyya al-sa‘ūdiyya).

Cerchiamo di interpretare la portata simbolica degli eventi. La biografia del predicatore najidita ricalca a tutti gli effetti le gesta del Profeta: i primi cronisti wahhabiti – a cominciare dallo stesso Ibn Abdelwahhab — inseriscono la condotta sovversiva del maestro all’interno di uno schema letterario desunto dalla Sīra, la storia della vita del Profeta: un uomo, solo contro il potere tirannico e politeista, lotta in nome della vera tawhīd; allontanato e rifiutato da tutti, ritornerà da vincitore dopo aver stipulato un patto militare.

Il predicatore è il primo a mettere in atto questa recita di una storia che si ripete. Proprio come il Profeta, invia lettere ai capi politici e religiosi (dall’Arabia al Marocco) intimando loro di «convertirsi». Come il Profeta, afferma di condurre un «jihad difensivo» contro l’ingiusta ed empia repressione ottomana. Le sue polemiche contro gli ulema richiamano quelle che il Profeta rivolse contro i politeisti meccani. Scrive persino un riassunto della Sīra, enfatizzando tutti i parallelismi, nella vita come nelle battaglie, tra sé e Maometto, perché si tratta di fornire la prova che l’unico vero erede del Profeta, in un mondo ridiventato «completamente miscredente» - per usare l’espressione del grande cronista del wahhabismo Ibn Bishr - è proprio lui, Ibn Abdelwahhab.

Takfīr, conquiste in nome del jihad, massacri ricorrenti. Dal Marocco all’India questi tre peccati originali del wahhabismo lasceranno un alone di terrore al cospetto della Umma: «wahhabismo» diviene un insulto, sinonimo di kharijismo (una setta dei primi tempi dell’Islam divenuta celebre per la scia di condanne a morte per scomunica).

Allora come oggi, gli ulema delle quattro scuole (soprattutto quella hanbalita, alla quale Ibn Abdelwahhab afferma di appartenere) non hanno mai cessato di attaccare e mettere in guardia contro questo individuo «smarrito che provoca smarrimento». In questi testi (brevi fatwa o interi libri lunghi centinaia di pagine) le accuse degli studiosi si ripetono come un’antifona: il predicatore non ha studiato con alcun maestro, e non può dunque comprendere i testi che legge e non dispone dei mezzi intellettuali per attuare l’ijtihād («lo sforzo interpretativo» che viene riconosciuto agli studiosi e che permette di stabilire le regole del Corano e della Sunna). Egli è dunque colpevole di eresia, di bid‘a e di takfīr. Una delle prime confutazioni, quella che scrisse nel 1754 il fratello di Ibn Abdelwahhab, Suleyman, contiene in nuce tutte le accuse successive: usurpazione dottrinale, debolezza ermeneutica e incompetenza, tutte parimenti condannate.

«Wahhabismo»: la parola diviene talmente ambigua che, sotto il regno di ’Abdelaziz bin Saud, essa subisce uno slittamento semantico: durante l’hajj del 1936, il re condanna l’uso del termine per rivendicare quello di «salafī». L’idea, forse ispirata da Rachid Ridha (morto nel 1935), conferisce al wahhabismo l’aurea di un salafismo riformatore e modernista, disponibile ad adattarsi alle condizioni del mondo contemporaneo, conformemente al pensiero di Mohamed Abduh (morto nel 1905) e del suo maestro, lo sheykh Jamal al-Din al-Afghani (di cui è ben conosciuta la disputa polemica con E. Renan a Parigi, nel 1883).

Modernita paradossale dell’islam

Il wahhabismo, confinato entro la penisola arabica, sarebbe finito con tutta probabilità nella storia delle eresie dimenticate. La chiave del suo rinnovato successo è da identificare senza dubbio nella personalità di Rachid Ridha. Gli specialisti dibattono ancora per stabilire se costui fu l’erede fedele di Abduh, o se al contrario approfittò dell’aurea del maestro per meglio tradirne le idee. Rimane il fatto che il suo giornale - Al-Manar, creato nel 1898 - divenne un riferimento intellettuale per diverse generazioni di lettori. Autore prolifico, affascinato dal wahhabismo, pubblicò una biografia di Ibn Abdelwahhab e la totalità dei suoi scritti. Soggiogato dall’onda d’urto saudita in Arabia, divenne consigliere del re ’Abdelaziz, mentre i suoi discepoli andarono presto a costituire i quadri amministrativi e intellettuali del giovane paese.

Da eretico e fonte di sedizione (fitna), Ibn Abdelwahhab diviene, grazie a Ridha, il mujaddid (rivivificatore), annunciato dal Profeta. Ed è proprio leggendo Ridha che un’altra figura maggiore del wahhabismo, Nasar Al-Din Al-Albani (morto nel 1999) - di origine albanese come indica il suo nome - aderirà al salafismo, diventando il «secondo Ibn Abdelwahhab» e un riferimento chiave della scuola. Se petrolio e geopolitica hanno reso perenne la dinastia saudita, Ridha ha contribuito alla «wahhabizazione» dell’Islam, conferendo all’eresia il rango di ortodossia.

Questa vera e propria appropriazione è stata resa possibile dal vuoto intellettuale indotto dal crollo generalizzato dell’Islam tradizionale. Dopo la scomparsa dell’Impero Ottomano – che aveva costituito un essenziale fattore di stabilità a livello geopolitico ma anche simbolico — la spartizione del Medio Oriente costrinse l’élite religiosa alla collaborazione o al silenzio, conferendo all’Arabia Saudita l’apparenza di un enclave di indipendenza e purezza dottrinale.

Il vecchio mondo religioso si eclissa, la stampa diffonde nuove idee, la storia viene riscritta: si teorizza il mito del declino ottomano, il fiqh viene giudicato sterile e il sufismo eretico, per meglio incensare i nuovi profeti.

La storia delle idee è sempre quella della loro ricezione: nasce nello scarto tra un individuo, il suo pensiero, e l’uso che ne fanno i posteri. E la storia del wahhabismo non fa eccezione. Il suo mito appare a molti come un messaggio di speranza: esso alimenta la sete di purezza e l’ideale romantico di un riformatore solo contro tutti. Nel contesto di questa rivisitazione storiografica, Ibn Abdelwahhab non è più il fondatore di una setta che semina morte e discordia, ma il nume tutelare di ogni lotta contro il vecchiume della tradizione. Egli incarna il tema della “querelle degli Antichi contro i Moderni”, offrendo a tutti i musulmani i mezzi per interpretare direttamente il testo, senza l’inutile mediazione di una corporazione di intellettuali.

Questa modernità del wahhabismo spiega il fascino che esso esercita e l’adesione da parte di intellettuali che pure si erano mostrati più inclini al razionalismo di un Abduh. È il caso per esempio del pittore (covertito all’islam) Étienne Dinet, che dopo essere stato in pellegrinaggio alla Mecca, nel 1929, dichiara di ammirare la «purezza wahhabita» e resterà per sempre legato al movimento di Ibn Badis. O di Leopold Weiss, alias Muhammad Asad: ebreo austriaco, anch’egli convertito, fedele lettore di Abduh e di Ridha, e autore assai apprezzato di una monumentale traduzione commentata del Corano. Muhammad Asad riassume perfettamente questa svolta storiografica; il wahhabismo sarebbe il «messaggio autentico del Profeta», «un grande tentativo che avrebbe potuto liberare l’Islam da tutte le superstizioni che l’avevano oscurato ; le idee dei Wahhabiti […] erano in realtà più aderenti allo spirito del Corano» rispetto a quelle degli altri Musulmani. Gli eccessi vengono ormai imputati al troppo zelo di taluni discepoli.

Rifiuto della tradizione classica, lotta contro le «superstizioni»: il wahhabismo assurge dunque a rappresentante della paradossale modernità dell’islam. La vittoria postuma del suo fondatore si colloca proprio in questi termini: impostosi sulla scena religiosa alla vigilia di un crollo epocale, entrando in collisione con lo spirito dei tempi, offrendo una dottrina semplice e accessibile a tutti, il wahhabismo poté liberarsi della propria storia di morte per entrare nell’immaginario collettivo di una comunità in cerca di nuove fonti di ispirazione.