Un anno dopo: la Siria e la solidarietà selettiva
A un anno dalla caduta del regime, il futuro della Siria è ancora incerto, mentre il suo recente passato non ha ancora ricevuto il dovuto riconoscimento.
I cieli della Siria si illuminano di fuochi artificiali, le strade si riempiono di gente che canta e balla, sventolando la bandiera dell’indipendenza. Famiglie in diaspora rientrano. Sembra incredibile, ma è realtà. La Siria è finalmente libera dal regime degli al Assad. Si festeggia, con le lacrime agli occhi per le vittime e per gli assenti e con la consapevolezza delle tante ferite aperte e delle difficoltà da affrontare. È passato un anno dall’8 dicembre 2024. Ero lì diciannove giorni dopo, a visitare il Paese dopo i lunghi anni di guerra.

Ripercorrere la storia della Siria degli ultimi quattordici anni non significa solo fare i conti con le ferite della guerra, ma anche osservare e valutare l’atteggiamento della comunità internazionale di fronte a palesi, reiterate e gravissime violazioni dei diritti umani e di tutte le convenzioni internazionali. Quello siriano è stato uno scenario drammatico, sicuramente una delle prime repressioni e delle prime guerre raccontate in diretta da tutte le città, nonostante la censura e la propaganda e nonostante l’assenza di giornalisti stranieri a partire dal 2014, grazie allo sforzo dei giornalisti locali e dei citizen journalists, che hanno pagato un prezzo altissimo per il loro impegno. Il Syrian Network for Human Rights riporta che, dal 2011 al 2023, sono stati uccisi in Siria 715 giornalisti e operatori dell’informazione, di cui 52 sotto tortura, principalmente per mano del regime, ma anche per le azioni del Daesh e di altre sigle combattenti e terroristiche.

Sono dati drammatici, eppure nei confronti di queste donne e questi uomini che hanno sacrificato le proprie vite per documentare, raccontare e denunciare gli orrori contri i civili scatenati delle milizie di Bashar al Assad e dai suoi shabiha, non si è mobilitata la solidarietà internazionale.
Storie come quella di Bassel Shahadeh, giovane regista cristiano ucciso mentre documentava i bombardamenti su Homs e Raed Fares, giornalista e attivista, fondatore della prima emittente indipendente, Radio Fresh, ucciso da una fazione estremista, andrebbero insegnate nelle scuole di giornalismo e i loro nomi annoverati tra gli eroi dell’informazione, e invece restano sconosciuti al grande pubblico. Non solo siriani: nel Paese mediorientale sono stati sequestrati e uccisi anche reporter internazionali. Il clamoroso caso del bombardamento sul media center a Baba Amr, a Homs, dove persero la vita, tra gli altri, la giornalista americana Marie Colvin e il fotoreporter francese Rémi Ochlik il 12 febbraio 2012, è solo un esempio. Il governo americano non si era mobilitato per il recupero della salma della Colvin, che, secondo fonti giornalistiche siriane, fu inizialmente sepolta a Homs per motivi di sicurezza insieme ai colleghi. Medici e attivisti locali ripresero la tumulazione e la preghiera come prova. Solo successivamente, grazie a pressioni internazionali e alla Croce Rossa, i corpi furono rimpatriati.
La solidarietà selettiva
Se i governi hanno latitato nel loro ruolo di denuncia dei crimini efferati commessi da Bashar al Assad, anche il mondo del pacifismo sulla Siria è stato pressoché silente, quantomeno diviso. Questo fatto ha rappresentato una vera e propria frattura culturale e sociale.
La tragedia siriana non è stata inquadrata come aggressione imperialista occidentale e per questo si è preferito parlare di ‘complotti per far vacillare un regime stabile’ e verso gli oppositori siriani si è tenuta una certa diffidenza e distanza, quando non sono stati perfino criminalizzati come agenti stranieri.
Le manifestazioni contro la guerra in Siria vedevano protagonisti quasi esclusivamente oppositori siriani e poche associazioni e liberi cittadini che si univano a loro. Di fronte a un massacro che ha causato un milione di vittime (non ci sono cifre ufficiali) e oltre tredici milioni tra sfollati interni e profughi, su una popolazione di soli 22 milioni di abitanti, hanno prevalso l’immobilismo, l’indifferenza e l’ipocrisia. Veti di Russia e Cina da un lato, e dall’altro sostegno aperto ad Assad, che per qualcuno era un baluardo dell’antimperialismo (quello russo di imperialismo non contava evidentemente), per altri il baluardo contro i ‘tagliagole islamici’.
La genesi del Daesh, a partire dalle amnistie del 2011 e 2014 con cui Assad ha liberato centinaia di persone accusate di terrorismo, fino alle azioni militari, che di fatto hanno visto prevalentemente il regime e i terroristi accanirsi sugli altri oppositori, e quasi mai scontrarsi direttamente tra loro, racconta un’altra storia. Daesh è stato estremamente funzionale alla narrazione manichea per cui le alternative per la Siria erano o Assad o i terroristi islamici. L’opposizione dal basso, laica e pacifica, è stata sacrificata senza pietà. I siriani che credevano nella rivoluzione senza armi e nella forza dei soldati disertori organizzati nel primo corpo dell’Esercito Siriano Libero, ben prima che diventasse un avamposto turco, sono stati di fatto abbandonati a se stessi e tacciati di idealismo nel migliore dei casi, ma anche di essere sul libro paga di potenze straniere come il Qatar. Eppure in Siria si è continuato a morire torturati nelle carceri, sotto i bombardamenti, a causa degli assedi prolungati e anche tentando di scappare.

Morire di speranza
Nel settembre 2015 alcune famiglie in fuga dalla Siria si sono imbarcate a Bodrum, in Turchia, nel tentativo di raggiungere le coste dell’isola greca di Kos, per chiedere accoglienza. Sbarcare in un Paese dell’Unione Europea, nel continente dove sono stati scritti nero su bianco i diritti umani, rappresentava il sogno di cominciare una nuova vita, lontana dai bombardamenti del regime di Bashar al-Assad e dei suoi alleati russi, ma anche dalle azioni dei terroristi del Daesh. L’imbarcazione ha avuto un naufragio, con diverse vittime. Sulle coste turche le onde hanno riportato, tra gli altri, il corpicino esanime di un bimbo che indossava una maglietta rossa e un pantaloncino blu. Il viso affondato nella sabbia. Un militare turco lo ha rinvenuto, prendendolo in braccio. Sul lungomare c’erano anche giornalisti e fotografi che riprendevano la scena. Sono passati dieci anni da allora. La foto del piccolo Aylan Kurdi, questo il nome del bimbo di tre anni, fecero presto il giro del mondo. L’immagine è stata pubblicata da numerose testate internazionali e quotidiani di tutta Europa, compresa l’Italia.

La pubblicazione della foto di un bambino morto, che ha generato dibattiti di natura etica e deontologica all’interno delle redazioni, si disse allora che sarebbe servita per ‘rendere visibile la tragedia’. Ma non era la prima volta. Non bisogna dimenticare, infatti, che solo due anni prima, il 3 ottobre del 2013, un’imbarcazione partita dalla Libia era naufragata al largo di Lampedusa, provocando 368 vittime, in maggior parte eritrei, ma anche siriani. Otto giorni dopo, l’11 ottobre, al largo delle coste di Malta un’altra imbarcazione carica di profughi era affondata, provocando la morte di 268 siriani, tra cui almeno 60 bambini. Qualcuno ricorda volti o nomi? Bisognava mostrare, sollevando questioni etiche enormi, il cadavere del piccolo Aylan per ‘rendere visibile la tragedia’?

Ancora oggi, queste vicende rappresentano una ferita profonda nel cuore di molti siriani, l’ennesima strumentalizzazione e dimostrazione di ipocrisia da parte della comunità internazionale. Che cosa dire della cosiddetta rotta balcanica, delle migliaia di persone costrette a camminare giorni e settimane a piedi, sotto le intemperie, per attraversare l’Europa e cercare di raggiungere la Germania e la Svezia? Quante ne sono morte, quanti bambini sono rimasti dispersi, quante donne e quanti uomini stanno ancora rinchiusi nei campi in Grecia, Bulgaria, Ungheria? Aiutarli significava ‘favorire l’immigrazione clandestina’. Niente autobus, né voli, come accaduto per i profughi della guerra in Ucraina, né navi gratuite per chi scappava dal massacro in Siria.
I corridoi umanitari sono stati aperti solo dai Paesi della diaspora. I siriani hanno subito anche la vergona mondiale dei mancati soccorsi in occasione del devastante terremoto del 2023. Nelle aree sotto il controllo delle opposizioni il regime ha impedito l’accesso dei soccorsi, anche quelli delle squadre arrivate dall’estero. Ci sono voluti giorni di trattative, lasciando così morire decine di persone che avrebbero potuto salvarsi. Persino le squadre della Protezione civile, i White Helmets, donne e uomini che hanno salvato centinaia di vite, spesso sacrificando le proprie sotto i bombardamenti del regime, sono stati tacciati di essere attori e fiancheggiatori dei terroristi, pur essendo stati candidati al Nobel per pace. Per loro nessuna mobilitazione, nessuna dimostrazione di solidarietà.
Assad è stato un carnefice che forse non verrà mai neanche condannato per i suoi crimini, nonostante alcune condanne già pronunciate, come quelle per gli attacchi chimici, ma tutti quelli che lo hanno sostenuto e riabilitato, a partire dai fratelli-coltelli dei Paesi arabi, dovrebbero quantomeno chiedere scusa ai civili siriani. Oggi vengono trattate come scoop le notizie sulle torture e le esecuzioni nelle carceri del regime e quelle sui finanziamenti internazionali destinati alle operazioni di spionaggio e repressione contro il popolo siriano, ma anche queste non sono realtà che si scoprono ora. Da anni i siriani denunciavano tutto, inutilmente.

I sudari, la cura
Nel suo ultimo libro la scrittrice e studiosa Paola Caridi scrive:
Ignari eravamo. Ignoranti di quelle biografie e di quei sogni, prima che fossero trasformati da vivi in ammazzati. Sono loro, i sudari, a difendere in questo modo i morti dall’oblio.
L’opera di Caridi si intitola Sudari. Elegia per Gaza (Feltrinelli, 2025). Anche in Siria, come in tutti i Paesi islamici, si usano i teli bianchi per avvolgere i morti, ma questi sono stati consegnati all’oblio e non sembra che potranno mai tornare nella memoria collettiva, neanche per ricevere una solidarietà postuma e ipocrita. Migliaia di siriani, come gli abitanti di Gaza, i sudari non li hanno nemmeno avuti. Molti bambini sono stati seppelliti con le loro stesse coperte, alcuni con il ciuccio vicino alla guancia, il peluche in mano, lo zaino di scuola bagnato di sangue ancora sulle spalle. In un video del 2012 che purtroppo YouTube ha rimosso (come altre centinaia di video documentali sul massacro in Siria) si vedeva un giovane padre che divideva un sudario in due per avvolgere entrambi i suoi figli, uccisi da uno dei famigerati barili-bomba.

Dov’è la memoria collettiva di tutto questo? Perché in Siria è stato ‘impossibile’ istituire una no fly zone, che avrebbe salvato migliaia di vite? In altri contesti, come in Libia nel 2011, la comunità internazionale ha agito rapidamente, ma il timore di contrariare Assad e quello di uno scontro diretto con la Russia hanno bloccato ogni iniziativa. Perché l’opinione pubblica si è strappata le vesti soltanto per il sito archeologico di Palmira, ma non per gli abitanti della zona, né per i civili di tutto il resto del paese? In questo caso le responsabilità del Daesh erano funzionali alla narrazione ‘Assad vs terroristi’, quindi la vicenda è stata ripresa e ha alimentato il dibattito pubblico e suscitato indignazione per settimane. La distruzione completa per i bombardamenti governativi e russi di città come Daraa, Darayya, buona parte di Aleppo, Homs, Deir Ezzor e altre, con il loro patrimonio culturale, archeologico e artistico, ma soprattutto con lo sterminio dei civili, era forse meno grave? Oltre 600 ospedali, secondo Physicians for human Rights (PHR) sono stati colpiti e distrutti in Siria durante gli anni della guerra, centinaia i medici e gli operatori sanitari uccisi. Anche loro consegnati all’oblio.

Nemmeno oggi, che i siriani celebrano il primo anniversario della fine del regime, ci sono manifestazioni di solidarietà nei loro confronti. Sono più numerosi quelli che, in chiave orientalista e paternalista, riducono l’attuale, complessa situazione, a una sorta di nuovo Afghanistan e gridano all’islamizzazione, che contano il numero dei veli e delle barbe eventualmente in più e poi scrivono le loro sentenze, che parlano delle paure delle minoranze, ma ignorano che anche ‘la maggioranza’ ne ha di paure, e tante.
Riprendere la vita di un popolo e di uno Stato dopo mezzo secolo di regime, torture, stupri, esecuzioni e sparizioni forzate è un’esperienza complessa, difficile, dolorosa e non esente da nuovi pericoli e violenze. C’è una parola, غصة, ghassa, letteralmente soffocamento, intraducibile nel suo significato figurato, che oggi interpreta bene il sentire dei siriani. Felici e ancora increduli per la fine del regime e dei bombardamenti, ma con una ghassa profonda per l’attesa e il senso di sospensione eterni per il destino delle persone scomparse forzatamente, i mafqudin, per la mancata giustizia, del fatto di continuare a non essere né visti né sentiti. I siriani, che hanno chiamato la loro rivoluzione thawrat al karamah, la rivoluzione della dignità, restano quelli che dicono al mondo, per riprendere le parole di Nizar Qabbani, “non spegnerai mai la mia dignità”.
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