Diario da Gaza 113

“Come se tutto fosse finito”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, nell’ottobre 2023 ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza City insieme alla moglie Sabah, ai figli di lei e al loro figlio Walid, di tre anni, sotto la minaccia dell’esercito israeliano. Si sono rifugiati a Rafah, poi a Deir al-Balah e successivamente a Nuseirat. Dopo un nuovo trasferimento a seguito della rottura del cessate il fuoco da parte di Israele il 18 marzo 2025, Rami è tornato a casa con la sua famiglia il 9 ottobre 2025.

Un campo profughi con tende, bambini giocano e un edificio in rovina sullo sfondo.
Città di Gaza, 14 novembre 2025. Bambini vicino a una tenda improvvisata nel quartiere di Al-Rimal. Le forti piogge hanno allagato la zona, trasformando le strade in pozze fangose ​​e peggiorando le già difficili condizioni di vita delle famiglie sfollate che vivono in rifugi fatiscenti.
Saeed Jaras / Middle East Images / Middle East Images via AFP

Mercoledì 19 novembre 2025.

Dopo la dichiarazione del cessate il fuoco del 10 ottobre scorso, l’interesse della stampa occidentale per Gaza ha subito un brusco calo, come se tutto fosse finito. Ora ricevo molte meno richieste dai media, dalla radio, dalla televisione o dalla stampa.

Fino a un recente dispaccio dell’agenzia Reuters, ripreso da numerosi media, a cui mi è stato chiesto di rispondere. Secondo l’agenzia, Hamas sta rafforzando sempre di più la sua presa su Gaza, schierando la propria polizia e riscuotendo tasse dai commercianti e dagli importatori.

Ecco ciò che interessa ai media occidentali: non le violazioni quotidiane del cessate il fuoco da parte dell’esercito israeliano. Ogni giorno, una o due persone vengono uccise perché si sono avvicinate troppo alla “linea gialla” decretata da Israele per dividere in due la Striscia di Gaza, e di cui nessuno conosce esattamente i confini. Gli aiuti umanitari che non arrivano come dovrebbero, la vita terribile degli sfollati interni che costituiscono ancora la stragrande maggioranza della popolazione, gli allagamenti che hanno sommerso la maggior parte delle tende e ciò che resta dei pochi ospedali, le persone rimaste per strada che guadano nell’acqua... tutto questo non interessa affatto.

Per l’ennesima volta, scopriamo che Hamas è ancora lì

Hamas, ecco cosa interessa! Niente di nuovo, però. Per l’ennesima volta, scopriamo che Hamas è ancora lì. Era lì anche durante la guerra, anche durante il genocidio. Hamas è un partito politico disciplinato e ben organizzato. Gli israeliani hanno ucciso i suoi leader, ma la loro morte non segna la fine del movimento. Abbiamo già vissuto questa situazione durante la seconda Intifada. All’epoca gli israeliani avevano eliminato i principali capi, tra cui il fondatore del movimento, lo sceicco Yassin, ma dei giovani di 25 anni ne avevano subito preso il posto.

È esattamente ciò che sta accadendo oggi. Ma Netanyahu continua a proclamare, come fa dall’inizio della guerra, che vuole “sradicare Hamas”. Questo è l’obiettivo dichiarato. Il vero obiettivo, invece, non è cambiato: è la deportazione della popolazione e la distruzione totale della Striscia di Gaza, quello che ho definito un “gazacidio”: non solo uccidere i palestinesi, ma distruggere anche tutte le infrastrutture, l’istruzione, il sistema sanitario, l’economia, l’ecologia, ecc.

Ma non Hamas. Nonostante i circa 70.000 morti, le decine di migliaia di dispersi, di persone sequestrate, Hamas è ancora lì. Credo che ormai le cose siano chiare. Netanyahu non ha mai voluto “sradicare Hamas”. Quello che vuole il premier israeliano è continuare a tenerlo in vita, come faceva prima della guerra, quando Israele consentiva il trasferimento degli aiuti finanziari dal Qatar al governo di Hamas. Tra il 2018 e il 2023, ogni mese sono arrivati all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv tra i 10 e i 30 milioni di dollari in contanti. Le valigie, scortate dalle auto dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, venivano consegnate al terminal di Erez, all’ingresso della Striscia di Gaza.

La spiegazione è semplice, ed è la stessa ancora oggi: Israele ha bisogno di un nemico. Senza nemici, sarebbe costretto a impegnarsi con la comunità internazionale a fare davvero la pace e a creare uno Stato palestinese. Mahmoud Abbas, presidente dello Stato di Palestina, ormai riconosciuto da 158 paesi, dell’OLP e dell’Autorità palestinese, l’istituzione di transizione, ha sempre teso la mano per la pace accettando di riformare l’Autorità. E per gli israeliani questo è un problema. La soluzione è Hamas, uno spauracchio che non serve a scacciare corvi, ma a spaventare la società israeliana. E a dire all’Occidente, e in primis agli Stati Uniti, che bisogna continuare a fornirgli armi e denaro.

Rivendicare un nuovo nemico, un nuovo spauracchio

Netanyahu deve ancora “disarmare Hamas”. Ma si tratta di un nemico credibile sul campo di battaglia? Nei video, le loro armi si limitano a dei kalashnikov, qualche RPG (lanciarazzi) e lanciagranate portatili progettati nell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ‘60. Le immagini mostrano spesso combattenti con i sandali. Ecco la temibile forza che uno degli eserciti più potenti e sofisticati del mondo sostiene di non poter sconfiggere.

Si parla di una commissione internazionale per governare Gaza, mentre la soluzione è semplice: lasciare che i palestinesi si autogovernino, almeno dal punto di vista politico, sociale ed economico. In tal caso, Hamas sarebbe disposto ad accettare una riconciliazione con l’Autorità. Ma tutti sanno bene che l’intenzione di Netanyahu è che le cose rimangano come sono oggi. E se un giorno Hamas non ci fosse più, Netanyahu, o il suo successore, creerebbe un nuovo nemico, un nuovo spauracchio, per giustificare l’occupazione e i crimini contro i palestinesi. Potrebbe anche essere Mahmoud Abbas o il suo successore. Di recente, abbiamo sentito il ministro israeliano della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, chiedere l’arresto di Abbas.

Gli israeliani non hanno mai voluto la pace. Per loro siamo tutti terroristi. Se reagiamo militarmente: siamo terroristi. Se ci muoviamo, se parliamo: siamo terroristi. Se ricorriamo alla giustizia internazionale: siamo terroristi. O siamo tutti di Hamas, come recitano i sostenitori del governo israeliano in tutto il mondo. Bisogna quindi lasciare respirare lo spauracchio, fingendo di volerlo “sradicare”.

Il genocidio è ancora in corso

Sì, Hamas tassa i commercianti, soprattutto il gas e le sigarette. Se lo sa Reuters, lo sanno anche gli israeliani che hanno i mezzi per impedirlo, ma non lo fanno. L’esistenza di Hamas giustifica il blocco degli aiuti umanitari a Gaza, ma gli viene permesso di riscuotere delle tasse per mantenerlo in vita. Gli israeliani potrebbero lasciare il governo di Gaza all’Autorità palestinese, riconosciuta da tutto il mondo, ma non vogliono farlo. Preferiscono una “commissione internazionale” con competenze poco chiare.

E ci seppelliscono per farci tacere. Il genocidio è ancora in corso. Dall’inizio, il vero obiettivo di questa guerra non è Hamas, ma la popolazione di Gaza. Perché il pericolo più grande per Israele non è Hamas, ma i palestinesi. Bisogna indebolire la loro volontà di rimanere sulla loro terra. Per questo devono essere dei “terroristi”, buoni da uccidere, imprigionare o deportare all’estero.

Netanyahu potrà così realizzare il suo sogno del “Grande Israele” che rivendica pubblicamente senza che nessuno si scandalizzi. È per questo che assistiamo a grandi risoluzioni delle Nazioni Unite, vaghi progetti di forza internazionale, grandi conferenze... tutto piuttosto che la soluzione più semplice: lasciare che i palestinesi governino la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. E visto che Mahmoud Abbas è un “terrorista”, gli israeliani bloccano le tasse di importazione palestinesi, che devono versare all’Autorità poiché Israele ne controlla i confini. Il gioco di Israele è semplice, in realtà: creare una vita così difficile da pensare solo alla sopravvivenza, a procurarci da bere e da mangiare, per poi andarcene. Dimenticando che il vero problema è l’occupazione.

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