Ritorno a Gaza: dieci donne italo-palestinesi resistono al genocidio dalla diaspora
Un libro necessario, che nasce dall’esperienza di dieci donne della diaspora palestinese in Italia. La recensione di Dalia Ismail per Orient XXI Italia.
Pubblicato da Edizioni Q nel giugno 2025, Ritorno a Gaza. Scritti di donne italo-palestinesi sul genocidio è un libro necessario, che prova ad avvicinare il lettore italiano all’esperienza politica, emotiva, quotidiana e collettiva delle donne della diaspora palestinese in Italia. Dieci autrici italo-palestinesi prendono la parola in un tempo in cui la parola “Palestina” è stata finalmente sdoganata, e in cui scendere in piazza non comporta più la stessa solitudine e delusione di un tempo. Dieci voci che raccontano cosa significhi essere palestinesi in Italia mentre il proprio popolo viene annientato in diretta, e mentre i media mainstream lo deumanizzano ogni volta che lo citano.
Come scrive Mjriam Abu Samra, una delle autrici, nell’introduzione, il libro nasce dal bisogno urgente di costruire una narrazione capace di sottrarsi alla retorica pietistica e alle semplificazioni geopolitiche. Una narrazione che restituisca alla lotta palestinese la sua complessità umana e politica. Abu Samra spiega che questo libro nasce dall’urgenza di rompere il silenzio imposto alle donne palestinesi della diaspora e di sottrarre la loro storia alle letture colonialiste ed orientaliste che continuano a dominare il discorso pubblico in Europa.
Si racconta la fatica stessa di scrivere, in un tempo in cui il genocidio a Gaza e le aggressioni israeliane nell’intera regione rendono le parole insufficienti, e in cui anche il sapere “critico” prodotto in Occidente si rivela incapace di essere decoloniale e di umanizzare il popolo palestinese. Proprio per questo, però, scrivere diventa un atto necessario: non solo per testimoniare la violenza sistematica - il genocidio e tutto ciò che Israele commette, ma anche il razzismo italiano, che ha portato alla quasi totale cancellazione delle voci palestinesi dal dibattito pubblico, ma per riaffermare che la resistenza anticoloniale è irriducibile e attraversa la Palestina dentro e fuori i suoi confini. Abu Samra insiste sulla centralità delle seconde generazioni e della diaspora, che non sono un margine ma parte piena del soggetto politico palestinese, e vede in queste pagine uno spazio collettivo di elaborazione: un luogo in cui rabbia, dolore, analisi critica e memoria diventano strumenti per pensare insieme il futuro della liberazione, per sfidare le narrazioni egemoniche e per restituire alle palestinesi il diritto di definire da sé chi sono e come vogliono essere raccontate.
Un testo raro sulla complessità dell’esilio
È proprio questa complessità - intima e collettiva, storica e politica - a rendere Ritorno a Gaza un testo raro in Italia. Ogni capitolo intreccia memoria familiare e analisi critica, linguaggio poetico e sguardo politico, alternando perdita, attaccamento, ricostruzione e lucidità analitica. Le autrici raccontano il crescere nella diaspora, le identità plurali, le complicità occidentali - politiche, mediatiche e culturali - che hanno nutrito per decenni la narrazione sionista dominante. Ma parlano anche della Palestina come scuola di pensiero, come metodo per interrogare il mondo.
È in questa direzione che si inserisce il capitolo di Tamara Taher, che afferma:
Scomoda in tutte le identificazioni chiuse, sempre sulle soglie tra mondi, spazi e parole, la mia relazione con la Palestina è stata luogo di apprendimento continuo. Imparare e conoscere la Palestina ha voluto dire conoscere e pensare, criticamente, il mondo e me stessa.
Una delle frasi più incisive dell’intero volume: la Palestina non solo come origine, ma come orizzonte politico e intellettuale. È una prospettiva che attraversa l’intero volume. In Ritorno a Gaza, la Palestina non è mai trattata come un semplice “luogo d’origine”, né come un repertorio statico di ricordi familiari. È una lente attraverso cui leggere il presente, un archivio politico vivo, un metodo di relazione con il mondo. Le autrici lo esprimono in forme diverse: l’essere palestinesi nella diaspora non è un’eredità passata, ma un processo continuo, un esercizio di apprendimento e di disobbedienza alle narrazioni dominanti. La Palestina è un terreno critico da cui osservare il linguaggio mediatico, la produzione accademica, le gerarchie razziali e di genere che governano il discorso europeo.
Il libro mostra come la diaspora palestinese - e in particolare le sue voci femminili - stia elaborando un pensiero politico che non è semplicemente reattivo alla violenza coloniale, ma propone nuove categorie per interpretare il mondo. La relazione con la Palestina permette alle autrici di leggere diversamente le strutture sociali italiane, di riconoscere i meccanismi di razzializzazione che modellano la vita quotidiana e il sapere, nonché di situare la loro esperienza personale dentro una storia collettiva più ampia.
È qui che Ritorno a Gaza si distingue: nel modo in cui dà spazio alla costruzione di un pensiero diasporico che è critico e profondamente politico. Le autrici scrivono dall’Italia, ma è proprio in questo stare “tra mondi” che si produce un sapere nuovo. Un sapere che non cerca di mediare tra narrazioni opposte, ma di rovesciare le categorie attraverso cui la Palestina e le soggettività arabe e musulmane sono state per decenni rappresentate in Italia.
La Palestina come orizzonte, dunque, significa anche questo: un luogo in cui si impara a leggere il razzismo strutturale, la violenza coloniale, la violenza occidentale; ma anche un luogo in cui trovare strumenti per rifiutare la deumanizzazione, per nominare l’oppressione, per prendere parola. È un modo di tenere insieme dolore e analisi, passato e futuro. Ritorno a Gaza dimostra che la Palestina è essenziale per il pensiero che produce, per le connessioni che crea, per l’insistenza con cui continua a interrogare il mondo.
Rabbia, trauma e contro-narrazione
Nel suo contributo, Taher riflette sul discorso colonialista che continua a permeare il linguaggio italiano quando si parla di Palestina. Le sue pagine si basano sugli studi degli intellettuali post-coloniali Edward Said e Frantz Fanon, mostrando come la narrazione dominante - anche quando riconosce la brutalità del colonialismo di insediamento israeliano - finisca comunque per riprodurre il discorso sul “terrorismo”. Non si contesta il principio dell’assedio perché disumano, ma perché “controproducente”, perché danneggia la “sicurezza di Israele”.
Nel nono capitolo, Diritto alla collera, Rania Hammad descrive con lucidità chirurgica come la deumanizzazione dei palestinesi si sia radicata nel discorso italiano fino a diventare una struttura portante del sapere mainstream e accademico. Non si tratta soltanto di stereotipi diffusi, ma di un’architettura epistemologica che informa materiali scolastici, libri universitari, categorie accademiche e linguaggi mediatici, presentandosi come sapere neutrale, “oggettivo”, fondato. È una forma di colonialismo culturale che non appare come tale perché è travestita da normalità, da buon senso, da rigore intellettuale. All’interno di questo sistema, chi tenta di decostruire il paradigma dominante viene immediatamente etichettato come “di parte”, come se la prospettiva palestinese fosse sempre emotiva, contaminata. È un meccanismo che non solo marginalizza, ma rende impossibile per i palestinesi parlare in prima persona: ogni parola è misurata sulla reazione dell’ascoltatore, mai sulla verità dell’esperienza.
Il libro restituisce dignità alla rabbia come reazione naturale a questa violenza epistemica. La descrive come un effetto del trauma, una forma di sofferenza che attraversa quotidianamente la diaspora e che si manifesta anche attraverso ansia, irritabilità, un senso costante di allerta. Non sono fragilità individuali, ma la dimensione emotiva di un colonialismo che non opera solo sui territori, ma anche sulle menti, sui corpi, sulle possibilità di parola.
Questa riflessione apre uno spazio più ampio che riguarda la produzione del sapere e la questione della rappresentazione. Il trauma delle palestinesi in diaspora che Hammad descrive non è confinato nell’eccezionalità degli eventi, ma è il tessuto quotidiano di chi vive in un contesto culturale che continua a parlare sui palestinesi invece che con loro. È un trauma che non si limita a ciò che accade in Palestina, ma che si rinnova nel modo in cui la Palestina viene raccontata, spiegata, distorta, ridotta. È un trauma che passa attraverso il linguaggio e le categorie concettuali, prima ancora che attraverso le immagini della morte.
In questa prospettiva, la collera non è un ostacolo alla comprensione, ma un segnale della lucidità con cui si riconosce la violenza sistemica del discorso dominante. È una forma di resistenza contro la cancellazione dal dibattito, contro la cancellazione emotiva imposta dall’idea che le emozioni palestinesi siano eccessive, inopportune, destabilizzanti. La rabbia diventa allora uno spazio politico, un luogo in cui la comunità diasporica si tiene insieme, rifiuta la narrativa del distacco, e rivendica il proprio diritto a definire il mondo che la riguarda.
In Ritorno a Gaza, questi sentimenti - la collera, il dolore, la veglia costante - non sono presentati come debolezze da eliminare, ma come forme di conoscenza. Raccontano ciò che i discorsi ufficiali non sanno o non vogliono vedere: la violenza che attraversa le generazioni, la fatica di abitare un mondo che continua a negare la propria esistenza, la complessità di vivere dentro un trauma che è psicologico, politico e culturale allo stesso tempo. Il libro approfondisce ciò che le emozioni palestinesi rivelano della struttura stessa del potere e su come la conoscenza coloniale continua a modellare ciò che è considerato credibile, razionale, umano.
Scrivere mentre si muore
Tra i momenti più potenti del libro c’è il capitolo centrale di Sabrin Hasbun, che scrive:
C’è qualcosa di sbagliato nel dover scrivere di perdita e dolore quando la perdita e il dolore sono in corso, in continuo svolgimento. […] Se vogliamo parlare, se vogliamo far sentire la nostra voce, non abbiamo altra scelta che scrivere mentre moriamo.
Scrivere mentre si muore, scrivere per non essere cancellati. Il libro fa della scrittura stessa un atto di resistenza politica, uno spazio di vita in un tempo di annientamento.
Le autrici non cercano consenso né consolazione. Costruiscono un contro-discorso che sfida le responsabilità occidentali - non solo istituzionali, ma anche quelle radicate nella cultura, nel linguaggio, nelle categorie che usiamo per pensare. Ritorno a Gaza non chiede empatia facile: chiede attenzione, rigore, ascolto.
In un contesto in cui, dopo l’aver sostenuto Israele e dopo aver disumanizzato il popolo palestinese, si pretende di essere sempre stati “dalla parte giusta della storia”, il libro riporta al centro la complessità del contesto italiano in cui le persone palestinesi hanno vissuto durante il genocidio, e tutta la fatica fatta per portare avanti la lotta di resistenza.
Ritorno a Gaza è un libro che non offre risposte rassicuranti né un linguaggio accomodante. È un testo che guarda negli occhi il lettore italiano e gli chiede di interrogarsi non solo sulla Palestina, ma sul proprio modo di guardarla, sulle strutture culturali che informano il suo sguardo, sulle responsabilità che abitano anche le parole che usa senza accorgersene. Nel raccogliere le voci di dieci donne della diaspora, il volume ricompone frammenti di vita e di storia in un gesto collettivo che afferma la continuità della presenza palestinese, la sua coscienza politica, la sua capacità di produrre sapere.
È un libro che non parla solo del genocidio in corso, ma della resistenza quotidiana al tentativo di cancellare un popolo dalla geografia e dal pensiero. E nel farlo ci ricorda che la scrittura - quando nasce da una ferita aperta e da una lucidità che non si lascia intimidire - può ancora incidere sul mondo, restituire dignità, sfidare le narrazioni dominanti e aprire spazi di costruzione di una resistenza collettiva e decoloniale.
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