Diario da Gaza 44

“Siamo vivi, ma è come se fossimo già morti”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine mostra due persone che camminano in una strada distrutta da un conflitto, circondate da edifici in rovina. Le strutture sono parzialmente crollate e si vedono macerie sparse ovunque, creando un'atmosfera di desolazione e devastazione. La scena evidenzia la gravità della situazione, con un forte contrasto tra le persone che camminano e l'ambiente circostante, che riflette la difficoltà e la sofferenza di un'area colpita dalla guerra.
Khan Yunis, 20 giugno 2024. Donne palestinesi camminano tra gli edifici distrutti.
Eyad BABA / AFP

Martedì 6 agosto 2024.

Oggi vorrei parlare di un aspetto inquietante della guerra psicologica di Israele contro gli abitanti di Gaza. Non sono uno psicologo, ma intorno a me vedo che ci sono stati dei profondi cambiamenti sia nella mia famiglia, nei miei amici, in casa che nella maggior parte degli abitanti di Gaza. Eccone un esempio: all’inizio della guerra, quando il “coordinatore”, cioè il portavoce in arabo dell’esercito israeliano, ha ordinato di evacuare tutto il nord della Striscia e la città di Gaza, con volantini, sms e post su Facebook, la stragrande maggioranza degli abitanti si è rifiutata di spostarsi.

E l’ho fatto anch’io. Non lasciare il mio appartamento era un modo per resistere. Avrei preferito morire piuttosto che mettermi in viaggio. Ma di fronte all’entità dei massacri e delle stragi dell’esercito di occupazione contro la popolazione civile, tutti hanno iniziato ad avere paura. La paura ha un ruolo fondamentale nella guerra psicologica. Bisogna sempre avere paura. È per questo che la gente alla fine è andata via. Anch’io e la mia famiglia, perché i carri armati israeliani erano alle nostre spalle. Un sms ci ordinava di andare verso sud, sventolando bandiere bianche per la nostra sicurezza. Ma nonostante avessero sventolato bandiera bianca, due dei nostri cari vicini sono stati uccisi. Ora è evidente a tutti di cosa è capace questo esercito. Non si è mai visto un simile massacro di una popolazione civile, dietro il pretesto della lotta contro Hamas.

È una violenza calcolata, con l’obiettivo di far perdere la fiducia in sé stessi e negli altri. Il ministro della Difesa israeliano ha avvertito che verrà preso di mira ogni abitante o famiglia di Gaza che potrebbe avere presunti legami con gli attacchi del 7 ottobre. Una vendetta in stile mafioso, che non ha nulla a che vedere con il diritto internazionale. Il messaggio è che Israele può fare quello che vuole, forte del sostegno delle potenze occidentali e della fornitura di armi, in nome del suo “diritto a difendersi”.

Farci capire che a Gaza non siamo più a casa nostra

Di conseguenza, la paura e la sfiducia hanno creato una frattura nel tessuto sociale. Se hai un amico che fa parte dell’ala politica di Hamas, lo eviti perché può essere un bersaglio, e anche tu potresti essere ucciso nello stesso bombardamento. Tuo padre è sospettato di essere pro-Hamas, anche tu sei un potenziale bersaglio. Tuo cugino è di Hamas, anche tu sei un potenziale bersaglio. Il tuo prof o il tuo vicino è di Hamas, anche tu sei un potenziale bersaglio. È diventata un’ossessione. All’ennesima richiesta di evacuazione, appena la gente cerca un posto dove piantare la tenda, cominciano a indagare sui loro vicini: chi è? Lo conoscete? È il motivo per cui gli israeliani bombardano i campi profughi con il pretesto che in una delle tende c’era qualcuno di Hamas; non necessariamente un combattente, ma solo un membro di Hamas, o anche qualcuno che non fa parte di Hamas, ma del governo di Gaza, o un poliziotto. Qualsiasi rapporto con Hamas fa di te un potenziale bersaglio.

Guardate quello che stanno facendo gli israeliani con le scuole. Hanno detto agli sfollati del Nord e di Gaza di sistemarsi nelle scuole dell’Ufficio di soccorso e lavoro delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) perché erano dei “luoghi sicuri”. Ma subito dopo li hanno bombardati. Le scuole hanno il maggior numero di vittime per luogo. Lo fanno per creare il panico. Il motivo è sempre lo stesso: lì si nascondeva un membro di Hamas. Ma, volendo, gli israeliani possono colpire dei singoli individui. Questo è quello che hanno fatto con un uomo che era in una tenda accanto a quella dei giornalisti all’ospedale di Al-Aqsa. Il missile lo ha colpito senza toccare quelli che erano intorno a lui, seduti sulle sedie. Israele può toccare un ago sul fondo del mare, ma vuole provocare un gran numero di vittime e danni in modo che le persone abbiano paura, perdendo così la voglia di resistere.

E quando dico “resistere”, non parlo di resistere militarmente, ma solo di restare a casa. Gli israeliani hanno distrutto la cosiddetta normalità. Niente è più normale. Gli spostamenti fanno parte di questa destabilizzazione psicologica e hanno fatto perdere il concetto di “casa”. Anche chi vive in tenda, può considerarla come casa sua. Ma in realtà non è così, perché un messaggio, un post su Facebook del “coordinatore” può portare migliaia di persone a muoversi contemporaneamente nella stessa direzione: questo significa perdere il senso della normalità, che ormai non esiste più. In Francia avete delle abitudini che scandiscono la vostra giornata: la colazione, il pranzo, la cena. Qui non sappiamo quando potremo mangiare e, in ogni caso, non riusciamo mai a fare tre pasti al giorno. È un esempio banale. Ma quello che gli israeliani vogliono farci capire è che in qualsiasi luogo della Striscia di Gaza non siamo più a casa nostra.

Sei stato cacciato da casa tua, dalla città di Gaza. Ma sai che sei nella Striscia di Gaza, in Palestina. Ti spostiamo verso sud, ti trasferisci a Al-Mawasi, nella zona nord. Ma non è a casa tua, un sms ti ordina di andartene. Non c’è più alcun rifugio. Sei costretto a vivere perennemente da nomade. Non hai più la sensazione di appartenere a un luogo, nemmeno se vivi in tenda. Finisci per perdere ogni cognizione del tempo. È la stessa tecnica utilizzata nelle carceri israeliane: quando un detenuto viene messo in una cella singola, al momento del pasto c’è sempre un soldato accanto a lui. Il prigioniero inizia a mangiare, e improvvisamente il soldato gli toglie il piatto, scaraventando tutto sul pavimento. Lo fa due, tre, cinque giorni di fila. Il giorno in cui il soldato non si presenta, il prigioniero ha paura di vederlo spuntare al momento del pasto, perché pensa che, non importa come, il suo piatto verrà comunque gettato a terra. Mentre mangia ha paura, perché ormai ha perso l’idea di poter mangiare normalmente.

Nessun posto dove andare

È lo stesso vale per noi. Abbiamo perso la normalità di sentirci a casa, anche sotto una tenda. Abbiamo perso la normalità di avere un amico vicino ad Hamas, perché non dobbiamo più avere contatti con quelle persone. Non ci si sente più sicuri perché sui vecchi camion con rimorchio che vengono usati come mezzi di trasporto, basta che ci sia un membro di Hamas tra i viaggiatori, perché vengano uccisi tutti.

Il problema è che non c’è più nessun posto dove andare. Con un semplice sms, la gente si ritrova per strada. Questo non significa solo dormire in mezzo alla polvere su un materassino. Non ci sono più bagni, né le donne, né i bambini possono andarci. Non c’è acqua, non ci si può fare una doccia. Si resta lì per giorni, fino a quando l’esercito israeliano non annuncia il ritiro dal luogo occupato. A quel punto, la gente può tornare “a casa”, ma non c’è più una casa perché tutto è stato distrutto. Si cerca di trovare una sistemazione sotto i teloni, ma due o tre giorni dopo, arriva un altro sms e si è costretti a partire di nuovo. Siamo in costante pericolo, sempre in una tempesta, in un vortice che gira, gira...

Abbiamo perso tutti i nostri punti di riferimento. Abbiamo perso la voglia di resistere, anche solo rifiutandoci di andare via. A questo ci hanno portato i massacri commessi dagli israeliani. Sono in molti a dire che preferirebbero morire, ma la vita umana è troppo preziosa, e così ogni volta che bisogna andarsene davvero, tutti decidono di partire. Dicono di volere la morte, ma allo stesso tempo non vogliono, ma se dovessero davvero morire, beh, tanto meglio, perché questa ormai non è più vita. Siamo in una giungla dove tutti hanno paura di tutto, paura degli animali feroci che ci braccano. Abbiamo paura anche di noi stessi. Siamo diventati tutti psicologicamente instabili.

Siamo distrutti dentro

Non siamo più in grado di pensare, di prendere delle decisioni. Non riusciamo più a prenderci cura dei nostri figli, delle nostre mogli, delle nostre famiglie. Abbiamo la testa altrove, pensiamo a troppe cose, ma, allo stesso tempo, non riusciamo a concentrarci, e così non riusciamo a fare un bel niente. Andrebbe trovata una soluzione, ma in queste condizioni è impossibile. Questa non è più vita, ma una lenta morte. Stiamo vivendo, ma siamo già morti perché sappiamo che in ogni momento possiamo morire. Non intendo filosofeggiare troppo, voglio parlare solo di quello che so, cercando di condividere con voi questa sensazione di instabilità. Mi sento già morto, continuo a vivere perché non sono morto fisicamente, ma il cervello è morto. Respiriamo, mangiamo qualcosa, dormiamo. Non c’è niente di normale nella nostra vita, salvo la paura e i massacri. Viviamo una guerra interiore perché vogliamo vivere, ma allo stesso tempo sono venuti a mancare tutti i nostri punti di riferimento.

In genere si ha un amico a cui si resta fedele. Oggi non è più possibile. Di solito, la solidarietà crea forti legami con la tua famiglia allargata, con gli zii, le zie, i cugini... Ma la miseria in cui viviamo oggi ci costringe a privilegiare la nostra famiglia – nostra moglie e i nostri figli. Quel poco che abbiamo, lo conserviamo solo per noi. L’affetto lo riserviamo ai nostri figli. Questo rappresenta un grande cambiamento all’interno della nostra società. Temo che questo atteggiamento andrà avanti anche dopo la guerra, che anche l’instabilità e la paura dureranno a lungo. È questa la guerra di Israele. L’obiettivo degli israeliani è la terra. Si possono ricostruire le infrastrutture, ma i traumi psicologici non si possono risolvere solo con la ricostruzione.

Ogni volta che sento parlare di ricostruzione dopo la guerra, dico sempre ai miei amici che sarà necessario ricostruire l’identità umana, perché siamo distrutti dentro. E bisognerà ricostruire anche il tessuto sociale, cominciando dai padri, dalle madri, e anche dai bambini. Perché qui tutto è cambiato: il comportamento dei figli, delle mogli, dei genitori. Tutto è cambiato, purtroppo in peggio. Perché, ripeto, l’obiettivo di Israele è la terra e per conquistarla deve distruggere ogni identità umana.